Il fuoco di Lucrezia e Imogene

 di Gina Guandalini

Mentre da Monaco alla Scala si programmano i titoli simbolo della carriera di Henriette Méric-Lalande, facciamo il punto sulla carriera e la biografia del grande soprano francese per cui Donizetti scrisse Lucrezia Borgia e Bellini Il pirata.

Il 7 gennaio 1827 Giacomo Meyerbeer, al vertice della carriera italiana, scrive da Parigi alla presidenza della Fenice, che gli chiede un’opera nuova. I cantanti che richiede sono i massimi nomi della piazza italiana e internazionale. Tra i soprani nomina la Pasta, la “Lalland” e la Sontag, Ancora oggi Giuditta Pasta non ha bisogno di presentazioni e Henriette Sontag è ben nota ai melomani; ma su Henriette Clémentine Méric-Lalande sarà bene ricordare un po’ di fatti. Quando Meyerbeer la pone al vertice delle cantanti di botteghino, questo soprano è già stata l’interprete originale di tre opere: del suo Crociato in Egitto nel marzo ‘24 alla Fenice, di Bianca e Gernando di Bellini ed Elvida di Donizetti nella lunga stagione estiva 1826 del San Carlo di Napoli.

Henriette nasce a Dunkerque alla fine del 1798. Studia col padre, Jean-Baptiste (in alcune fonti Jean Auguste) Lamiraux, che ha assunto il cognome di Lalande, direttore d’orchestra in compagnie di provincia. Debutta a Nantes (non a Napoli come in una voce enciclopedica inglese) intorno al 1816. Lì un colto italiano le insegna la sua lingua; impara rapidamente e italianizza il nome in Enrichetta. Canta bene e già a sedici anni era stata notata come abile interprete di opéra comique da François-Joseph Fétis, musicologo belga. Passa a Lione, dove l’insigne Talma, l’imperatore della Comédie Française, condivide una pubblica lettura dell’Athalie di Racine con lei e le chiede di entrare nel suo teatro. Ma lei preferisce cantare.

A ventitrè anni Enrichetta è ingaggiata dal Théâtre du Gymnase-Dramatique di Parigi. Il manager italianofilo del King’s Theatre di Londra, John Ebers, che ha già Violante Camporese e Giuseppina Ronzi De Begnis, le offre una scrittura, ma lei rifiuta e al King’s Theatre va Rosalbina Carradori-Allan. La giovane Lalande ha l’intelligenza e l’umiltà di capire che non è ancora a livello internazionale, che deve continuare a studiare.

Si affida a Manuel Garcìa Senior, che tra il 1819 e il ’22 risiede a Parigi e fa da maestro, oltre ai figli Manuel Junior e Maria Felicia - futura Malibran - a uno scelto gruppo di talenti. Dopo il baritono spagnolo Paolo Rosich, primo Taddeo nell’Italiana in Algeri, c’è la contessa Merlin, amica e biografa di Maria Felicia. Subito prima della Lalande Adolphe Nourrit, tenore storico, studia con Garcia Senior in segreto; figlio del primo tenore dell'Opéra, viene a lungo ostacolato dal padre nel progetto di intraprendere la carriera canora, ma Rossini e Garcìa, coalizzati, vincono la battaglia (chi fossero tutti gli alunni del Conte Almaviva originale è questione intrigante; l’amico Rockwell Blake, un’autorità in fatto di Garcìa Junior, se ne sta interessando).

A Parigi Garcìa Senior continua anche la sua carriera di compositore; opere da lui musicate sono messe in scena all'Opéra-Comique e al Gymnase Dramatique dove appunto canta la Lalande. Perciò le viene affidato, come debutto al Gymnase, un vaudeville da lui composto, La Meunière; qui, da futura primadonna è al centro di una polemica. L’illustre Journal des débats stronca lo spettacolo, e scrive: “La voce di madame Lalande è estesa e di timbro piacevole, ma soffre di quel difetto chiamato ‘voce ingolata’ un flagello che il cielo nella sua furia ha inventato per sfasciare le orecchie sensibili alla melodia”. Viceversa, L’Almanach des Spectacles segnala che tutti sono stati molto applauditi, ma che è in atto “une cabale” per affondare lo spettacolo.

Nel 1823 Henriette canta in due ”pasticci” di musiche tratte da opere italiane da Castil-Blaze, Les Folies amoureuses e La Fausse Agnès. Alcune testimonianze dell’epoca ci dicono che la presenza di questa giovane francese “italianata” contribuisce a rendere popolare l’opera e la melodia italiana in una città superciliosa come Parigi. In quell’epoca sposa un suonatore di corno dell’Opéra Comique, Jules Prosper Méric, diventando così Madame Meric-Lalande. Musicale e disinvolta, potrebbe fare un’audizione per il prestigioso teatro del marito, ma Garcìa la sconsiglia. Enrichetta appare quindi in alcune recite nel ruolo di Agathe nel Freischütz di Weber, che al Gymnase è Le chasseur noir in francese ed è pesantemente tagliato.

Eccola poi recarsi a Milano per compiere ulteriori studi con musicisti italiani. Uno è il lodigiano Paolo Bonfichi (1769-1840), sacerdote e compositore di musica sacra, ma anche di drammi per il teatro, apprezzato da Napoleone. Più lunghi e intensi sono gli studi con Paolo Banderali, bergamasco, che, dopo avere cantato per pochi anni, dal 1811 è fra i più illustri docenti di canto. Nel ’28 Banderali passerà al Conservatorio di Parigi per interessamento di Rossini.

Alla fine del 1823 l’impresario della Fenice, Giuseppe Crivelli, scrittura un soprano rifinito e agguerrito. Enrichetta Méric-Lalande è Egilda nella prima assoluta di Egilda di Provenza di Stefano Pavesi accanto a grossi calibri, il castrato Giovanni Battista Velluti, il tenore Gaetano Crivelli e il contralto Brigida Lorenzani. Con gli stessi cointerpreti partecipa alla prima assoluta di Ilda d'Avenel di Francesco Morlacchi e nel marzo seguente crea Palmide nel Crociato in Egitto di Meyerbeer. La Gazzetta Privilegiata di Venezia parla di “tutta la bravura di questa esimia cantante”; Il nuovo osservatore veneziano la esalta: “Animata sempre dallo stesso impegno, si conserva fra noi quel favore che seppe al suo primo apparire tanto meritatamente acquistare e colla freschezza della sua voce e colla facilità del suo gorgheggio e con l’esattezza della sua esecuzione unita all’anima e decoro della sua azione tutti sviluppa quei pregi che assicurare le devono in Italia una sempre crescente reputazione” . È di quest’epoca anche un contratto a Monaco di Baviera, dove tra l’altro canta La gazza ladra.

A Brescia e Cremona si presenta in La donna del lago e Le due rose di Mayr. Sarebbe lungo e forse tedioso seguire passo passo la inarrestabile carriera dell’artista francese in Italia. Ma sono da segnalare, nel corso del ‘25, tutta una serie di interpretazioni rossiniane da cui si deduce la sua grande scuola; Mosè in Egitto (Elcia) e Zelmira, con Giovanni David e Antonio Tamburini; una Semiramide a Bologna che le vale plausi clamorosi, medaglie, sonetti di ammiratori estasiati e la nomina ad Accademica Filarmonica di quella città. Una stampa in suo onore la raffigura bionda, con la complicata acconciatura a boccoli dell’epoca e un viso pienotto, il naso lievemente aquilino e l’espressione seria. Ha una vaga somiglianza con Christine Deutekom, e non a caso – però erroneamente – la Méric Lalande è qualche volta definita “soprano fiammingo”. Vengono poi Elisabetta regina d’Inghilterra, e Desdemona in Otello.

Tra il marzo e l’ottobre 1826, nel corso di una massacrante stagione al San Carlo di Napoli, in cui canta nove opere quasi sempre insieme al basso Luigi Lablache, Enrichetta, entra nella storia dell’opera. Inizia con una Semiramide, poi crea il ruolo di Bianca in Bianca e Gernando di Bellini accanto a Rubini. Alla generale assistono Pacini e Donizetti. Il rapporto con il compositore catanese si rivelerà fondamentale nella carriera di entrambi. Mentre il Giornale del Teatro La Fenice le dedica una biografia con ritratto, Enrichetta partecipa alla prima assoluta della Elvida di Donizetti, accanto a Rubini, Lablache e Almerinda Manzocchi. Il soggiorno a Napoli lo chiude con la creazione del ruolo del titolo in Olimpia di Carlo Conti.

L’anno iniziato con la lettera in cui Meyerbeer la colloca nella somma triade dei soprani, vede la Lalande a Vienna e alla Scala. Nell’estate 1827 debutta infatti trionfalmente a Milano con il ruolo di Ottavia in L’ultimo giorno di Pompei di Pacini, che resterà fra quelli di elezione. Il 27 ottobre è Imogene – ruolo scritto per lei – nel Pirata con Rubini e Tamburini.

Non è solo voce rossiniana, è antesignana di una vocalità più tesa e agitata: Imogene ha un Do naturale a gola pressochè fredda, passaggi di coloratura intensamente mossa, agilità terzinate e una scena finale di scrittura tesa e forte. Lei e Rubini devono dare il bis del duetto del primo atto. A due recite assistono Rossini e la Colbran, il primo segregato nel suo palco per non distrarre il pubblico.

All’indomani del trionfo belliniano, il periodico I teatri: giornale drammatico musicale e coreografico di Milano e dedica una biografia di più di sette pagine (in cui la dice nata nel 1803), preceduta da un bel ritratto, e seguita da una minuziosa analisi della nuova partitura belliniana. La biografia si conclude parlando “delle soavi commozioni nei nostri petti eccitate dal suo canto, dalla sua espressione, dal suo atteggiarsi, o ci induca a palpitare pe’ minacciati suoi giorni, moglie del Decemviro di Pompei, o, Signora di Caldora, ci addolori col suo magico impareggiabil delirio…”

Pochi mesi dopo Bellini scrive allarmato a Rubini che se a Vienna Il pirata lo canterà sua moglie, la Comelli Rubini (all’anagrafe la frances Adelaïde Chaumel), sarà un fiasco, “perché questo è un ruolo solo per la Lalande o per simile soprano acuto”. Sempre alla Scala, all’inizio del 1828 la nostra canta Saladino e Clotilde di Vaccai. ”Gli applausi furono alla Lalande, non alla musica” sentenzia I Teatri.

In mancanza di registrazioni, leggiamo che cosa scrive un periodico bolognese a proposito di un recital offerto per amicizia dalla Lalande all’Accademia del Giardino di Milano il 25 marzo ’28 : “brillantissimo e soave suono della bella sua voce… ci ha del suo bel portamento, delle sue grazie, del suo sapere e del puro suo metodo offerta una prova novella; ma più di tutto ci ha mostrato come ella possegga in primo grado il vero genere di canto brillante, come vi corrisponda l’esatta esecuzione, la perfetta intuonazione, il buon gusto nella scelta de’ gorgheggi, insomma tutto ciò che la costituiscono una cantante di primo rango”. Una incisione celebrativa raffigura la diva in un modo giudicato identico all’originale. È del veronese Alessandro Puttinatii, su modello plastico dello scultore bolognese Democrito Gandolfi.

Con quell’arte del canto, in quelle condizioni vocali, (“la sola che possa meritare a buon diritto in questi tempi il titolo di Grande” si legge in una biografia di Mayr del 1828) la nostra si produce poi alla Scala in vari titoli, tra cui Gli Arabi nelle Gallie di Pacini: “mostrossi come al solito l’attrice unica…” scrive un recensore; “l’entusiasmo per la sua aria fu sommo”; e la prima assoluta de I cavalieri di Valenza di Pacini con il contralto Carolina Ungher. Un Otello cantato quando è ancora febbricitante la vede trionfare come Desdemona, e con lo strascico di una gustosa polemica nella stampa: gli avveniristi trovano che Rossini esageri nelle fioriture; un apologeta di Enrichetta crede che l’accusa sia rivolta a lei e insorge a difendere la sua musicalità e il suo gusto.

Il 31 luglio 1828 Enrichetta dà un temporaneo addio alle scene interpretando alla Scala L’esule di Roma di Donizetti; accanto a lei due interpreti dell’originale cast napoletano, Lablache e il tenore Berardo Winter. I Teatri annuncia che è a metà di una gravidanza che la vede in ottima salute, che sta per ritirarsi in una villa sulle colline del lago di Como, non lontana da quella della Pasta; e che lo spettacolo è un suo trionfo personale. Sempre dai Teatri apprendiamo che la gravidanza è stata “piuttosto pericolosa” ma che ha dato felicemente alla luce una bambina. Il 15 novembre alla Scala la neo-mamma crea il ruolo di Mina ne L’orfano nella selva di Carlo Coccia con Lablache e la Ungher; il 26 dicembre, sempre alla Scala, canta L’assedio di Corinto, traduzione in italiano della partitura parigina: aggiunge al terzo atto l’aria di Zelmira, ed è un ennesimo trionfo.

Sappiamo che l’impresario Crivelli si lamenta con i dirigenti dela Fenice che “al mio arrivo in Milano nello scorso carnovale, la prima operazione che feci fu di trattare (Bellini) con tutto l’impegno, e mi fu dato per risposta da sì degno maestro che lui non scriveva che per la Lalande, senza mai volermi spiegare nessuna pretesa…”

Il 14 febbraio del 1829 Enrichetta è Alaide nella prima mondiale della Straniera alla Scala. Bellini le confeziona un ruolo quasi totalmente privo di melismi; e non disponendo di Rubini appoggia tutta l’opera su di lei. “Ardirei dire”, osserva il recensore de I Teatri dopo la prima, “che in tutta l’opera la tessitura del canto della Lalande era un po’ troppo alta…ma la Lalande si conservò uguale a se stessa, o piuttosto, in tal sera, sorpassò se medesima”.

È lei stessa a capire che la vocalità di Alaide non giova alla sua voce. In prospettiva storica la Méric Lalande si unisce a un illustre gruppo – Rubini, Tamburini, la Pasta - cui le tessiture belliniane e il forte impegno emotivo che le sue opere impongono alla lunga finiscono per danneggiare l’organizzazione vocale. Il musicologo francese Adrien Lafage sintetizzerà tredici anni dopo: ”(La Straniera) fu il trionfo e l’anticipata fine di una cantatrice francese, Madame Méric Lalande, che in questa parte innalzossi a un grado che mai aveva raggiunto né raggiunse dappoi”


Un crepuscolo dorato

Quando l’impresario Bartolomeo Merelli offre a Bellini di inaugurare la stagione di Parma del maggio ’29 con un Cesare in Egitto su libretto del parmense Luigi Torrigiani, a Bellini quel soggetto – è noto - non piace. Nelle trattative che dovrebbero convincere il catanese, Torrigiani coinvolge Enrichetta; e a rifiutare sono in due, chè anche lei ha una sua volontà. È Zaira il nuovo titolo belliniano alla cui creazione – dopo solo due settimane di prove - il nostro soprano partecipa. “Voce pieghevole, estesa, sonante e in suo genere assai rara…Come non sentirsi commossi alle dolci inflessioni che ad essa presta con ogni possibil arte e sempre là dove appunto più il sentimento lo richiede?” scrive di lei il periodico Teatri, Arti e Letteratura di Bologna.

Ma è massacrante tutta la stagione parmense, con la creazione del ruolo di Zilia nella nuova opera Colombo di Luigi Ricci, Semiramide (sotto il titolo La morte di Semiramide ) accanto all’Assur di Lablache e Il barbiere di Siviglia. Teatri, Arti e Letteratura scrive su questa Rosina una pagina molto bella: “mirabile esecutrice … esattissimo fiorire; il protrarre sì nitido un filo di voce e piena indi spiegarla; il balzare con tanta intonazione e il rapido passare a gradi chiari e sonanti dal basso all’alto e viceversa, e infine quel suo dolcissimo accento d’affetto ben danno a conoscere che Rosina è cresciuta a nobile condizione. Ne fu applauditissima la cavatina; sovrammodo poi applaudite furono alcune variazioni ch’essa cantò nel secondo atto…nelle quali mostrò che non sonovi difficoltà musicali ch’ella con maestria non superi”.

Belliniana storica, alla Scala Enrichetta è protagonista della ripresa di Bianca e Fernando in settembre, della Straniera a febbraio; riesce anche a inserire nello stesso teatro la prima assoluta di Giovanna Shore di un tal Carlo Conti e il ruolo del titolo in Giovanna d'Arco di Pacini. Al teatro della Canobbiana quell’estate i milanesi affollano una ripresa del Pirata con Rubini. Il censore universale dei teatri è in estasi e la definisce: “quella prediletta nostra, che dal Pompei nell’autunno 1827 fino a tutto il Carnovale 1830 soavemente ci ha sempre più o meno, secondo il valore delle sue parti, inebbriati”. I fans le offrono “una grossa e ben coniata medaglia, che circondata da una bella corona di lauro porta così da un lato epitato (sic) il suo nome: AD ENRICHETTA MERIC LALANDE ESIMIA ATTRICE CANTANTE, ed il rovescio dice : GLI AMMIRATORI COSTANTI DEL VERO MERITO DOLENTI PER LA VICINA PARTENZA DI LEI”. I Teatri -Giornale drammatico scrive “Ultima recita trionfale… Mme Lalande, come in tutto il corso di queste recite, fece mirabilmente spiccare il gentile tutto suo particolar modo di pronunzia, il brillante, benchè non italiano, metodo di canto, il vigore e l’energia della sua espressione nel dolore e nella disperazione e gl’illimitati sforzi della bellissima sua voce”. . Ma ecco che Gaetano Barbieri, editore del giornale, interviene polemicamente: “nel dolore e nella disperazione?: Non sa esprimere altro la Lalande? Negli Arabi nelle Gallie non esprimeva forse grandezza d’animo? Nel Pirata l’amor di madre, ne Gli ultimi giorni di Pompei quello di madre e di sposa non campeggiano dunque per nulla?” Le guerre sul valore di un interprete operistico sono sempre esistite.

A questo punto bisogna osservare che un critico esperto come l’inglese Henry Chorley affermerà che la voce della Méric Lalande comincia a dare segni anche notevoli di usura proprio da quell’anno 1829. Per molti motivi, ma soprattutto per questo il debutto al King’s Theatre di Londra di Henriette Méric Lalande nel Pirata è profondamente deludente. Chorley spiega che da anni è stata preceduta dalla fama di grandissima cantante e l’aspettativa è immensa; ma è arrivata in Inghilterra troppo tardi e, soprattutto è stata preceduta da cantanti “di più grande genio”. Il riferimento è ovviamente alla triade Pasta-Sontag-Malibran. In realtà la musicalità e il gusto non si discutono, ma la voce è costantemente afflitta da un forte tremolo. The New Monthly Magazine segnala anche che si tratta di una cantante quarantenne (in realtà nell’estate 1830 la Lalande ha, secondo tutte le fonti, trentun anni) e che non ha i lineamenti forti e vivaci delle persone di origine meridionale. Nel caso della Meric Lalande, “lineamenti regolari e piacevoli e figura ben proporzionata e signorile” fanno intuire un po’ di delusione da parte del recensore britannico. C’è da chiedersi quanta parte del fascino della ventiduenne Malibran in ambito parigino e londinese siano la giovinezza e l’aspetto e i colori mediterranei, o andaluso-zingareschi. Ma va detto che le critiche che a Londra decretano il fallimento pressochè totale della cantante vi includono l’opera di Bellini, giudicata priva di originalità, di bellezza e di teatralità.

In un palco, armata di lorgnette e di spirito critico, è proprio Maria Felicia Malibran, che dovrà cantare con la nuova arrivata. Anni dopo sarà pubblicata la lettera che a proposito di quella Imogene scrive a un amico: “sfiora la quarantina …viso di operaia a cottimo, senza quasi espressione piacevole, figura non bella che ha in comune con me il piede più brutto del mondo, La voce trema così forte che non posso giudicarla. Mi trovo ad avere compassione di lei; canta sempre con questa maledetta ondulazione continua. Canta il duetto freddamente e sempre tremando…Ha una bell’aria alla fine in cui è folle, un’aria lachrimoso che ha bisogno di essere cantata e soprattutto recitata in maniera totalmente opposta. Il risultato è che non ha prodotto alcun effetto…Gli applausi più anonimi – voglio dire i più unanimi - che siano mai stati tributati…Le nostre due voci andranno molto poco insieme. Le sue note di centro sono come un filo di ferro teso che produca un piccolo suono arrugginito, tagliente e poco o per nulla gradevole”

Un particolare interessante da me scoperto: il 3 mag 1830 Henriette canta alla Philarmonic Society il terzetto Mathilde -Edwige-Jemmy “Io rendo al vostro amor” da Guillaume Tell, con due giovani cantanti inglesi; il settimanale culturale Athenaeum giudica la musica “uninteresting and ineffective”.

E viene poi la collaborazione con la Malibran nel Matrimonio segreto e Semiramide. Se il giudizio sulla Carolina cimarosiana non si discosta dalla critica alla voce e da un cortese ma non entusiastico apprezzamento delle doti interpretative e sceniche, alla regina di Babilonia l’Athenaeum è costretto a concedere qualche merito importante; pubblico volentieri la recensione , perché nel corso delle mie ricerche la Lalande mi è divantata simpatica e mi dispiace vederla criticata pesantemente: “Successo…in un ruolo che ha messo alla prova i talenti delle tre più grandi cantanti di oggi…Il suo portamento è dignitoso e appropriato; delinea il personaggio con molta accuratezza; e il suo canto è molto più potente ed espressivo che in alcun ruolo da lei finora presentato. La voce, anche se ha perso la frescura (sic) ha ciononostante nel registro grave una particolarità di espressione che è accattivante all’orecchio e dopo un po’ diviene molto più gradevole che la semplice insipida dolcezza e i suoi acuti sono argentini e liquidi come sempre; sì che nella natural estensione della voce c’è un contrasto che perlomeno la redime dalla monotonia. Anche il suo gusto è innegabilmente puro; e se pur vi sia qualche difetto fisico che in alcuni passaggi le impedisce di incarnare il nostro ideale, pure è certo che mai ci offende con una trasgressione o perversione del giudizio” (saranno la Malibran e Lablache a deludere in parte; la prima perché risente del confronto con la recente fenomenale Pisaroni; il basso perché a Londra è percepito più come “comico-brillante” che come “tragico”).

Di un Don Giovanni cantato a giugno con Lablache, Donzelli e la Malibran (Zerlina) è testimone un ritratto a pastello dell’artista svizzero naturalizzato inglese Alfred Chalon, che raffigura Henriette nell’abito a lutto di Donna Anna. Anche qui le interpreti precedenti sono ritenute vocalmente molto migliori.

A fine luglio la nostra artista offre tre recite come protagonista dell’opera Donna Caritea di Mercadante, con la Malibran nel ruolo di Diego. “Giustizia vuole che si riconoscano i suoi sforzi meritori e ben riusciti di rappresentare il difficile personaggio della Regina” (New Monthly Magazine ) Conclude la stagione L’inganno felice di Rossini come “beneficiata” della Méric Lalande cui concorre Luigi Lablache. Il Dramatic Magazine asserisce che l’operina può piacere solo a pochi raffinati, che il pubblico è scarsissimo e l’incasso arriva a sole £ 150, laddove le altre tre – Pasta Malibran Sontag – nelle loro beneficiate incassano dieci volte tanto. Questo, secondo il recensore londinese, dovrebbe bastare a stabilire il valore della Lalande; è certo stata grande ma la voce la sta perdendo; “ il timbro è stridulo, il volume isterico”.

Tornata alla Scala, la Lalande interpreta la novità Bianca di Belmonte di Luigi Rieschi (in realtà il napoletano Luigi Riesck) con Rubini, la Unger e Tamburini. Nel pubblico c’è nientemeno che Robert Schumann, che scriverà di avere ascoltato con piacere la primadonna e il tenore. Stesso encomio lascia nei suoi scritti il letterato pavese Defendente Sacchi, che ricorda “ci siamo bevuti più volte le carissime note della Lalande nell’Ultimo giorno di Pompei e nel Pirata e fra quell’affettuoso cantare le tributavamo encomi che partivano dal cuore”.

A Milano esce un fascicolo celebrativo di dodici pagine, I Pregi d'una chiarissima cantante. Breve dissertazione di G. S per i tipi dell’editore milanese Antonio Fontana. Chi è questo “G.S.”?

Nell’inverno ’30-’31 la nostra artista torna a chiamarsi Henriette per una intensa stagione parigina al Theatre des Italiens. Ma anche qui, in una ribalta internazionale, dove la Pasta e la Malibran sono di casa, pubblico e critici trovano la Méric Lalande di voce troppo stanca e ballante, di fisico statico e poco glamorous. Tanto che Il censore universale dei teatri corre alla sua difesa, scorgendo nell’ atteggiamento francese “una certa malignità che disputarle vorrebbe la fama sotto il nostro cielo”

L’8 marzo 1831 la poetessa-compositrice, Louise Angélique Bertin (1805), figlia del fondatore del Journal des Débats, presenta un suo Faust au Théâtre-Italien. Ha tradotto Goethe in francese e ha composto l’opera, incoraggiata da Berlioz, che dal 1824 è attivo nella critica musicale parigina. La Bertin, che vuole rimanere “Mademoiselle B.” sorprende il mondo musicale con un soggetto sostanzialmente nuovo e originale e con musiche cupe e drammatiche. Sarebbe interessante riascoltare e rivedere questo secondo Faust (il primo in ordine di tempo è di Spohr). La Revue de Paris informa che Domenico Donzelli è stato un Faust molto freddo; “notre première cantatrice” (la Malibran?) "ha rinunciato all’incarico e al suo posto la Mèric Lalande, che come attrice ci sembra fare ogni giorno innegabili progressi, ha dispiegato nel ruolo di Marguerite le intenzioni più drammatiche. È seccante che nelle corde alte la sua voce non resista a sufficienza a quell’emozione che la rende a volte così penetrante”. L’Eco, giornale di Milano, vuole invece segnalare: “Nell’ultima scena sublime l’esecuzione della signora Meric Lalande, che fu applaudita con entusiasmo”. A conclusione di questa seconda stagione parigina c’è un Don Giovanni che la vede accanto alla Pasta.

Si è creato il mito di una carriera divisa in due tronconi, la Méric Lalande fino al 1829, brillantissima vocalista e animosa interprete, e la Lalande dopo il ’29, messa in ombra dalla Pasta, dalla Malibran, da Giulia Grisi, per cui non si capisce bene perché prosegua la carriera ai massimi livelli italiani.

Storicamente, il titolo alla cui creazione la Méric Lalande è maggiormente legata è quello della Lucrezia Borgia di Donizetti, nel dicembre 1833 alla Scala. In realtà all’inizio dell’anno il teatro milanese prevede una Saffo di Mercadante; ma la primadonna – e forse anche il compositore – trova il soggetto scabroso. Non che la Lucrèce Borgia di Victor Hugo sia un soggetto tranquillo e timorato, su cui la censura non abbia niente da obiettare; ma Enrichetta trova più teatrale e soddisfacente la storico-mitica avvelenatrice. Comunque lo spostamento su Victor Hugo è precedente al passaggio di consegne da Mercadante a Donizetti: c’è una lettera scritta da Enrichetta il 28 mag ’33 da Parigi a Milano : “Ho già preso dei libretti di Victor Hugo che sono bellissimi e bene adattati per me, colla prima persona che si recherà a Milano li spedirò al Sig.re (Felice) Romani, o li porterò io stessa fra poco tempo. Col primo corriere scriverò al Maestro Mercadante”. È lei quindi a fare da tramite tra Mercadante e Romani; è lei, in seguito, a esigere da Donizetti il finale “Era desso il figlio mio”: che lui non scrive volentieri, che la critica del’900 ha attribuito all’ottusità e all’ostinazione di una primadonna viziata, sulla base del discutibile principio che nel teatro operistico una donna straziata dal dolore non canta…. Si tratta di una pagina di stile rossiniano, scritta proprio sulle capacità e sulla scuola di questa artista. E comunque il suo autore non scrisse e non fece mai nulla per abolirla nelle riprese senza la Lalande, almeno fino al 1840, quando, protagonista la Frezzolini, omaggiò la primadonna di una cabaletta nel prologo optando per una scena finale più intima e meno spettacolare. Ad ogni modo, Enrichetta nel 1833 quale non sembra essere in buona voce, e diverse cronache riferiscono che è l’interprete di Maffio Orsini, Marietta Brambilla, a ricevere più applausi.

Quando agli inizi del 1965 Marilyn Horne rinunciò a cantare Lucrezia Borgia alla Carnegie Hall, siglando il proprio più o meno definitivo passaggio al ruolo di mezzosoprano, il suo posto fu preso dalla Caballé, con risultati straordinari. Già da tempo attiva, la catalana divenne celebre solo dopo l’esecuzione newyorkese del 20 aprile ’65. Nel giugno ’65 usciva l’album a 33 giri “Callas canta Rossini e Donizetti”; la scena “Tranquillo ai posa…Com’è bello, quale incanto” dalla Lucrezia fu registrata il 13 aprile ’64 (e c’è una registrazione precedente , effettuata il 15 novembre ’61, che è rimasta inedita fino al 1992). Nello stesso anno 1965 abbiamo dunque la soavissima Borgia della Caballè e quella scura, intubata, sfilacciata ma intrigante e struggente della Callas. Come dire la Lalande pre-1829 e la Lalande degli “anni ‘30” messe a confronto ?


Dopo Lucrezia Borgia

Nonostante l’edizione 1900 del Grove asserisse che nel 1833 la cantante francese si sarebbe ritirata in Spagna e di lei si sarebbe persa ogni traccia, il caso Méric Lalande è tutt’altro che chiuso. Nell’estate del 1834 una interessante stagione “lalandiana” a Perugia ci dà la misura del suo talento. Il censore universale dei teatri è periodico immerso nelle glorie e nelle beghe dell’opera e sa bene le voci che corrono intorno alla protagonista. Per una ripresa della belliniana Straniera rassicura i lettori, menzionando “…animi preoccupati, che diversa da quella del 1829 vorrebbero la grande attrice cantante del 1834. Non è questa forse quella chiarezza, robustezza e delicatezza di voce, quella verità d’espressione, quell’energia di azione e declamazione medesima, che per la Lalande rese memorabile l’Alaide alla Scala? Se v’è chi possa notarne una differenza, la noterà a maggior perfezione di questa commoventissima parte. Arbitra quindi di tutti i cuori, in tutti eccitar seppe quest’ammirabile virtuosa quegli affetti, quelle passioni che incomparabilmente dipinse, e il suo trionfo fu clamorosamente celebrato fra gli applausi del furore”. Per un Barbiere di Siviglia, Il censore universale dei teatri scrive di “cantar leggero, agile e fiorito con tanta franchezza e naturalezza”; e per Semiramide riporta che “Bel raggio lusinghier” è “sublimemente cantato” e che il secondo duetto con il contralto Brigida Lorenzani suscita ““ardente entusiasmo, infiniti plausi e chiamate”.

All’inizio del ’35 la nostra canta alla Fenice una ripresa del suo antico cavallo di battaglia, Il Crociato in Egitto e poi I Capuleti e i Montecchi ambedue con Giuditta Grisi come contralto. Il periodico L’Apatista pubblica una recensione che contiene una notizia strana: “In una parte che non sostenne mai e che dovette imparare in pochi giorni, giacchè ovunque rappresentò I Capuleti le si affidò la parte di Romeo, essa pure” (come Giuditta Grisi) “entusiasmò il pubblico, piacque moltissimo nella sua cavatina e nel duetto con la Grisi; ma nel rondò del secondo atto tutti conobbero in lei la vera maestra del canto, l’attrice perfetta: passione, forza, verità, tutto si ritrovò in essa, tal che dimostrò che anche in una parte di poco conto, quale si è certamente quella di Giulietta, il bravo artista è sempre grande”. Non mi risulta che la Méric Lalande abbia mai cantato il ruolo di Romeo in quest’opera belliniana.

A fine febbraio partecipa per l’ultima volta alla prima assoluta di un’opera: è Leonora di Jork (sic) nel Carlo di Borgogna di Pacini, insieme a Giuditta Grisi e a Donzelli “Questa distinta e animatissima artista ha pienamente conosciuto il personaggio affidatogli”, si legge sull’Apatista. “Sempre somma cantante…I suoi acuti sono nitidi e forti e spiccano grandemente: tali attrici sono ben a ragione la delizia del nostro pubblico”. Nella stessa stagione, a Trieste, vanno elencate Emma d’Antiochia di Mercadante e Otello di Rossini. È evidente che la fama di artista nella fase finale della voce continua a circolare, in quanto L’Apatista ci tiene a mettere le cose in chiaro: “Le prevenzioni a carico della Lalande si dispersero all’esecuzione del primo pezzo, magistralmente eseguito, nel quale tutti fece brillare que’ tanti pregi onde ognuno sa a dovizia esser ella fornita, e che ad onore della verità ne è in pieno possesso. In conclusione essa appagò il pubblico pienamente, tal che ognuno amerebbe di sentirla tutta la stagione esclusivamente, ed in tutte le opere”.

Nella primavera del ’35 il Carignano di Torino vede il debutto di Enrichetta in Norma con Domenico Donzelli. Il bollettino bolognese Cenni storici intorno alle lettere, invenzioni, arti, commercio e spettacolo dedica alla sacerdotessa di Enrichetta Lalande una bella disamina, con tanto di confronti, che voglio qui riportare. “Poche attrici sono da tanto per sollevarsi all’altezza di Norma; e quanto più le attrici sono valenti ed esperte, tanto più riconoscono la difficoltà di rappresentarla e ne risentono il peso. E perciò la Lalande tremava; quella Lalande che fu detta regina della lirica scena e assicurò gli allori di Bellini nel Pirata e nella Straniera, impallidiva sotto la mistica verbena della druidessa. Ma voi la incoraggiaste ed ella si riebbe. La Pasta, per cui fu creato quel personaggio, lo coloriva con tutta l’energia dell’anima e dell’arte; la Malibran lo animava con tutta l’onnipotenza della sua voce; la Lalande lo esprime con tutti i sospiri della passione. Il suo canto non è robusto, concitato, sorprendente come quello di coteste due somme; ma tenero, espressivo, commovente; è druidessa meno severa, ma più amante; è meno severa, ma più afflitta; è meno agitata, ma più gemente; ha una lagrima nel rimprovero, una lagrima nella minaccia; nella vendetta stessa una lagrima. Perciò la patetica preghiera alla luna risuona sovra il suo labbro con un’indicibile mestizia di note, e il Duetto con Adalgisa, e la scena con Pollione nel tempio e l’Aria finale hanno accenti così melanconici e talvolta così laceranti, che se non iscuotono e non colpiscono l’animo fortemente, scendono al cuore con tocchi di tutta soavità….Donna che conosce sì bene tutti i mezzi dell’arte e si giova di tutti gli aiuti dell’esperienza… questa Norma tanto teatrale, per così esprimermi, e tanto tragica…”

Bellini morirà pochi mesi dopo. Ma l’opera lirica va avanti. Nel giugno ’36 Carlo Coccia ripresenta la sua Caterina di Guisa, con Domenico Donzelli. È una riscrittura della versione del febbraio di tre anni prima. Quella che era stata la parte contraltile di Adelaide Tosi passa ora al soprano francese e viene accorciata e addolcita; anche diverse puntature acute spariscono. Coccia amplia anche l’aria di Caterina “E infierir così potete!”. Quella del terzo atto, “Ah, fidar potessi almeno” viene guarnita di acciaccature per una voce meno estesa più espressiva. Gli appelli finali “Lascia in pria” e “Sì, m’uccidi” sono invece più elaborati e vocalmente più estesi, facendo pensare che la Lalande sia una di quelle cantanti che vanno migliorando col trascorrere della serata.

Scopro che a Genova, nel gennaio 1837, Enrichetta canta Francesca da Rimini di Emanuele Borgatta; con lei c’è il basso Ignazio Marini. A fine gennaio 1838 leggiamo su Cosmorama Teatrale: “Palermo. Finalmente la sera del dì 29 dello scorso novembre è andata in iscena la Gemma di Vergy del Maestro Donizetti, dopo una forte indisposizione sofferta dalla Lalande, la quale produsse ulteriore ritardo alla prima rappresentazione, ed in conseguenza di tale indisposizione la prima recita non fece quell’incontro che era sperabile. Nelle rappresentazioni posteriori la cosa è andata altrimenti. La Lalande quasi perfettamente rimessa ha fatto gustare il suo canto accompagnato da quell’arte e da quella maestria propria del suo merito ed è stata applaudita”. Viceversa la Revue et Gazette Musicale de Paris informa che la "Gemma di Rossini" (sic) ha fatto fiasco, e la loro compatriota, in questa occasione, sembra avere perduto la reputazione che si è acquistata su tante scene italiane.

Il 17 febbraio Il barbiere di Siviglia “riportò un incontro strepitoso…Generalmente il pubblico era mal disposto per la stessa (Lalande), ma poi tutti furono sorpresi dalla maniera tutta particolare e difficile con la quale cantò e sostenne quella parte. Maestra, tutti i mezzi seppe adoperare che erano in suo potere, ad a ragione furono incessanti, continuati e strepitosi gli applausi concedutile (sic). A (Guscetti – Figaro) ed alla Lalande applausi sonori e più volte sul proscenio chiamati”. Nelle cronache è prevista con lei anche l’Anna Bolena, di cui nulla ho rinvenuto.

In quel 1838 esce la biografia Madame Malibran, scritta dalla Contessa Merlin e stampata a Bruxelles. Nel capitolo XVI riporta la lettera in cui al debutto a Londra nel Pirata (1830) la Lalande è criticata dalla illustre collega più giovane, più bella, più temperamentale di lei; ma della stessa scuola di canto. Maria de las Mercedes de Santa Cruz y Montsalvo, comtesse Merlin, è una ricchissima spagnola, nata e cresciuta a Cuba. È grande amica e ammiratrice della Malibran, con il cui padre, proprio come la Lalande, ha studiato canto. Il suo salon parigino, dove si esibisce privatamente con le più garndi ugole dell’epoca, è frequentatissimo, i suoi contatti con tutti i Garcìa sono comprovati; probabilmente il libro è ragionevolmente attendibile e ha lo scopo, in gran parte riuscito, di esaltare la Malibran come artista e come donna – o meglio come ragazza, visto che è morta a ventotto anni – e di creare il suo mito. Due anni dopo il libro è tradotto in inglese e in italiano, con aggiunte e varianti. Edgar Allan Poe lo recensisce molto positivamente nel maggio 1840 sul Burton’s Gentleman’s Magazine di Filadelfia. Parla della divina Maria Felicia con entusiasmo, come se l’avesse vista in teatro molte volte. Nel suo racconto The Spectacles svolge la storia di un giovanotto miope che per vanità non vuole portare gli occhiali. All’opera si innamora follemente di una dama in un palco; quando riesce a farsi presentare la ascolta cantare I Capuleti e i Montecchi, Otello di Rossini, La Sonnambula; e Poe cita alla lettera le descrizioni del canto della Malibran contenute nel libro della contessa Merlin. Notare che in quella biografia i due vilains sono Eugene Malibran, il marito, e la rivale francese Lalande; ecco che nel racconto la dama di cui si è innamorato il giovanotto si chiama Eugénie Lalande. La bellissima donna acconsente a sposarlo solo se vince la vanità e mette gli occhiali; a cerimonia conclusa si rivela un’ultraottantenne, e più precisamente la sua bis-bis-bisnonna. Ma la cerimonia era finta, per punirlo della sua vanità. Il giovane sposa la bellissima Stéphanie Lalande, bis-bisnipote della vecchia Eugénie. L’uso del cognome a me non sembra casuale.

Una stagione triestina dell’autunno 1838 la vede impegnata nel Giuramento di Mercadante, Lucrezia Borgia sotto il titolo Alfonso duca di Ferrara) e Roberto Devereux; accanto a lei Giorgio Ronconi, giovane baritono destinato a brillante carriera, e il contralto Marietta Brambilla. La stampa, più che infierire, tace sulle condizioni vocali della primadonna. Ma io voglio ricordare una serata-Lalande di cui il settimanale Il Pirata riferisce questo: “Col secondo atto del Giuramento, colla cavatina del Belisario, che ella cantò fra vere grida d’entusiasmo, e col secondo e terz’atto della Lucrezia Borgia ebbe la Lalande la sua beneficiata. Fra le più belle sere della sua carriera ella deve annoverare anche questa”. Mi piace concludere questo excursus su una nota felice.

Il 4 feb ’39 LA MODA pubblica un breve trafiletto: “la primadonna signora Méric Lalande è disponibile per la prossima primavera”; il 10 aprile 1839 il bollettino teatrale Glisson, N’Appuyons Pas annuncia più esplicitamente “Crediamo che i più accorti impresari sentiranno volentieri che l’egregia signora Enrichetta Méric Lalande, non ha guari felicemente sgravata, si trovi a loro disposizione”. Però dopo le recite a Trieste della carriera di Henriette Méric Lalande non è dato sapere altro. È diventata di nuovo, a quarant’anni, madre; è probabile che, in un ambiente dove un anno di assenza significa scomparire dalla memoria del pubblico, si renda conto che il ritorno è difficile. I più accorti impresari non sembra che si siano fatti vivi.

Non mi è stato possibile rintracciare alcuna informazione su Enrichetta Méric Lalande dopo il 1839. L’estensore della sua voce in Wikipedia tedesca, generalmente dettagliato, dice che a carriera finita è ritornata in patria. Sembra assurdo che non si sappia nulla a proposito di lezioni di canto, di una sua scuola, di qualche ragazza di talento addestrata da lei. Si dovrà scavare più in profondità. Il solo necrologio che ho potuto trovare è sul Watson’s Art Journal, che come unica tappa della sua carriera cita la prima del Crociato in Egitto; segno che in Inghilterra Meyerbeer era sopravvissuto un po’ più a lungo di Bellini e di Donizetti. Dice anche che era “madre del popolare contralto Madame Méric-Lablache”. Ma è una svista. Louise Méric Lablache fu in effetti una cantante molto attiva a Londra e negli Stati Uniti, che sposò un figlio del grande basso Lablache (frequente collega di Enrichetta); ma sua madre era Josèphine Deméric o Deméry o Méric, un soprano di Strasburgo, di Enrichetta coetaneo, che ebbe qualche stagione felice a Parigi e a Londra.

Sappiamo che la morte di Henriette Méric Lalande avviene in Francia, a Chantilly, il 7 settembre 1867. Tre mesi prima di Giovanni Pacini, un anno prima di Rossini.