Genio e Dualismo

 di Gina Guandalini

A cento anni dalla morte, un ricordo del letterato, compositore, poeta, drammaturgo e intellettuale che ha segnato in modo indelebile la cultura italiana della seconda metà dell'800, nonché l'ultima fase della carriera operistica di Giuseppe Verdi.

Il 10 giugno 1918 moriva nella sua casa di Milano Enrico Giuseppe Giovanni Boito, compositore, librettista e critico musicale, che avrebbe in seguito assunto il nome di battesimo “Arrigo”.

Nacque a Padova il 24 febbraio 1842, figlio del pittore miniaturista Silvestro Boito, di Populeto, vicino a Ponte delle Alpi – il cognome deriva dal fiume Boite, che attraversa Cortina d’Ampezzo – e della moglie Józefina Radolińska, una contessa polacca originaria di Poznàn. Il fratello Camillo, architetto, docente a Brera e scrittore, era nato a Roma sette anni prima di Enrico/ Arrigo. I genitori si separarono presto e i due bambini vissero con la madre, dapprima a Venezia.

La famiglia Boito si disperse definitivamente nel 1851: Arrigo, finiti gli studi elementari, entrò al conservatorio di Milano nel 1853, e si scoprì subito diviso tra poesia e musica. Strinse grande amicizia con Franco Faccio, che sarebbe divenuto tra i più grandi direttori d’orchestra della storia italiana. Nel 1860 lo studente Boito compose e fece eseguire la “cantata patria" Quattro giugno, sul cui frontespizio si firmava Arrigo per la prima volta: omaggio al Verdi della Battaglia di Legnano e dei Vespri siciliani?

Il fratello Camillo lo introdusse nel salotto di Clara Maffei a Milano, notoriamente frequentato da Manzoni e da Verdi, e più avanti in quello di Vittoria Cima della Scala, pianista, anticonvenzionale sostenitrice degli artisti scapigliati.

Nel 1861 Boito e Faccio, per il diploma di composizione, presentarono un "mistero" per soli, coro e orchestra dal titolo Le sorelle d'Italia, scritto in collaborazione. Con un sussidio governativo di perfezionamento i due amici fecero un importante viaggio a Parigi, dove assistettero – esperienza nuova e “ultramontana” – al Tannhäuser e furono accolti in casa Rossini alla Chaussée d'Antin; conobbero Berlioz, Gounod, Auber, il drammaturgo e librettista Legouvé, nonché Verdi. Quest'ultimo commissionò a Boito le parole per un Inno delle nazioni da suonare durante la cerimonia inaugurale dell'Esposizione internazionale di Londra nel maggio 1862. Boito inviò una sua cronaca dell’esecuzione wagneriana al giornale “La perseveranza» di Milano, avviando così un’importante attività di musicologo. Fu a quell’epoca che cominciò a pensare di mettere in musica il Faust di Goethe e una tragedia su Nerone. Viaggò poi in Germania, in Belgio, in Gran Bretagna e in Polonia. Nel novembre del 1862 Boito si stabilì a Milano. Si è affermato che in quell’epoca si avvicinasse anche alla Massoneria, ma non vi sono prove certe.

Nel 1863 uscì a Parigi un dotto studio, Faust dans l’histoire et dans la léégende, che Boito lesse; nello stesso anno Carducci componeva l’Inno a Satana, identificandolo con la forza della ragione che è sopravvissuta all’amoralità felice del paganesimo e alla repressione soffocante del Cristianesimo. Boito non brindava con uguale entusiasmo, non aveva le stesse certezze; in quell’anno scrisse un poema autobiografico quasi “confessionale”, Dualismo. Era lacerato in due tra Male e Bene, tra Dèmone e Angelo, tra verme e farfalla.

Con questa doppia attrazione verso il ghigno satanico e verso la bontà angelica Boito entrava perfettamente nell’atmosfera del movimento letterario che andava delineandosi: la Scapigliatura. Termine inventato dal milanese Cletto Arrighi (anagramma del più banale Carlo Righetti), che definì il movimento “vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d'indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti”. Lo scrisse sulla rivista che aveva fondato nel ’60, La cronaca grigia (né bianca, ne nera, dunque). A monte della Scapigliatura stavano figure diverse ma ugualmente brillanti come Victor Hugo, Heinrich Heine, Henri Murger, Baudelaire e Zola. Arrighi intitola La canaglia felice il suo romanzo di argomento sociale. Certo la trasgressione italiana è alterna, un po’ truce e un po’ bonaria. Il vercellese Giovanni Faldella si firmava “Spartivento” nelle cronache del suo giornale Il velocipede – che fonderà nel ’69 e che ospitò un racconto dal titolo audace: Viaggio a Roma senza vedere il Papa.

In Dualismo Boito avanzò l’ipotesi che gli uomini siano tutti esempi di homunculi creati con fango e fuoco. È di quel 1864 la nascita del settimanale di critica artistica Figaro, durato solo pochi mesi. Arrigo firmava le Cronache dei Teatri con lo pseudonimo “Almaviva”, e il giornale lo introdusse scherzosamente come “giovane signore assai saputello e scapestrato…strano e ardito un po’ soverchiamente…Attribuitelo all’aver egli nella sua prima giovinezza messo un po’ il naso fuori dall’uscio nativo. Nulla v’ha che guasti più l’ottimismo paesano come il gironzolar troppo fuori di casa”.

Giovani ma molto ambiziosi, entusiasti del nuovo clima “scapigliato” di irrisione alla certezze dei benpensanti, Boito e Faccio lavorarono insieme alla composizione del libretto e della musica di Amleto - ovviamente tratto da Shakespeare. L’opera andò in scena a Genova nel 1865 con due grossi interpreti vocali come Mario Tiberini protagonista e Antonio Cotogni re Claudio; il successo fu discreto; ma Verdi disse che non si capiva nulla in mezzo a tutto quel rumore.

Tra le carte inedite di Boito si è trovato il progetto di una raccolta di nove racconti da intitolare Incubi. Veramente trucido, in quel 1865, è il poema in versi Re Orso. Prevale il gusto dell’orrido, sembra un racconto scritto per terrorizzare i bambini, con crudeltà efferate, orchi e un mostro orribile, un verme gigante-serpente-drago tutto nero (che ritroveremo quasi uguale in Pinocchio!).

Nel 1866 il nostro artista, da buon veneto, combattè con Garibaldi nella Guerra d’indipendenza che portò alla liberazione di Venezia. Intanto preparava il suo Mefistofele, basato sull’enorme poema di Goethe; nel suo libretto l’Homunculus risulta tra i grandi assenti, come pure le streghe circondate da Gatti Mammoni, le lunghe scene di guerra, il racconto di ingegneria progressista narrato da Bauci, che nell’opera di Boito si limita a due versi della romanza “Giunto sul passo estremo” . La prima alla Scala, il 5 marzo 1868 fu diretta dallo stesso Boito e fu un fiasco clamoroso. Satanismo, wagnerismo, avvenirismo, bizzarrie: tutto suscitò la rabbia e il dileggio del pubblico, e lo spettacolo fu fatto chiudere dopo due recite. La critica più forte venne comunque dai colleghi scapigliati, che non ritrovavano più l’amico di un’arte elitaria e maudite, ma un ambizioso celebratore dell’arte classica. Verdi commentò laconicamente che il compositore aspirava all’originalità ma riusciva solo ad essere bizzarro.

Boito ritirò lo spartito e ci lavorò sopra sei anni, cambiando il ruolo di Faust da baritono a tenore. Ma in quello stesso periodo vi fu il rifacimento dell’Amleto di Faccio (1871), che da pochi anni è stato possibile riascoltare negli Stati Uniti e a Bregenz grazie all’entusiasmo e al faticoso lavoro di ricostruzione del musicologo Anthony Barrese. Lavorò anche alla composizione testuale e musicale dell’opera Ero e Leandro, che a lavoro finito non lo soddisfece; cedette così il libretto al contrabbassista, compositore e direttore d’orchestra Giovanni Bottesini, di Crema, firmando il libretto con l’anagramma “Tobia Gorrio” e tenendo per sé solo il duetto “Lontano, lontano, lontano” che passò poi nella seconda versione del Mefistofele come duetto di Faust e Margherita. Ero e Leandro di Bottesini-Gorrio sarebbe poi andata in scena nel 1879; centotrent’anni dopo è stato oggetto di una registrazione commemorativa con Roberto Scandiuzzi nel cast.

Ancora durante la faticosa rielaborazione del Mefistofele Boito adattò il testo del magniloquente dramma di Victor Hugo Angelo, tyran de Padoue per Ponchielli. Divenne così, tra modifiche, aggiunte e qualche condensazione, La Gioconda. Alla fine del 1874 i primi due atti del libretto erano pronti, ma Ponchielli, nonostante l'ammirazione incondizionata per Boito, trovava la sua elaborazione verbale troppo drammatica e tonitruante, o meglio, come scrisse a un amico “troppo difficile, e forse non confacente alla mia maniera di scrivere”. Con tutto ciò, il melodramma di Ponchielli-Gorrio è ancora vivissimo sulle scene mondiali.

Poco prima della messa in scena del rifacimento del Mefistofele a Bologna il nostro artista scrisse un’ “egloga araba per due voci e coro”, La falce, che fu il saggio del giovane Alfredo Catalani per il diploma al Conservatorio di Milano. Il critico Filippo Filippi del giornale La Perseveranza ne fece un elogio entusiasta.

Ed ecco (ottobre ’75) andare in scena il nuovo Mefistofele. Da quel momento, con pochi alti e molti bassi di critica, ma immutato favore dei cantanti e del pubblico, questo titolo è entrato nel repertorio e ci è rimasto. Un paradosso fu proclamato da George Bernard Shaw – che metteva Boito fra i compositori che usano la musica per esprimere le loro idee invece di usare le idee per comporre musica - “preferisco rinunciare alla Traviata piuttosto che a Mefistofele!” Fu l’opera del debutto internazionale del basso russo Fjodor Scialiapin (alla Scala nel 1901) e del debutto teatrale assoluto di Renata Tebaldi (Elena a Rovigo nel ’44). Le romanze di Faust furono tra le prime storiche incisioni di Caruso nel 1902. Nel ’54 volle cantare Margherita anche la Callas – per due recite e mezzo, a causa del maltempo – spodestando Magda Olivero all’Arena di Verona. Dieci anni dopo, mentre Fedele D’Amico sbeffeggiava l’opera dalle pagine de Il Contemporaneo, Gavazzeni allestiva alla Scala una messa in scena con Ghiaurov, Bergonzi e la Kabaivanska, di cui c’è una registrazione molto bella. Ricordo che Samuel Ramey si è reso protagonista di una personale Mefistofele-Renaissance un po’ in tutto il mondo, a partire da un debutto in sordina nel 1975. Vent’anni dopo, in occasione della ripresa Muti – Pier’Alli - Ramey alla Scala, accolta da un pubblico entusiasta, Alberto Arbasino scriveva ancora su Repubblica parole di forte critica, e immaginava che il protagonista si vergognasse a cantare i pretenziosi versi del libretto. Ne parlai con Ramey stesso, che ripetè anche a me la sua passione per la musica di Boito e per quel personaggio così stupendamente teatrale.

Non si sa da quando, ma certo da anni, Boito lavorava sul suo tormentoso Nerone, che mai riuscì a vedere compiuto. Il suo progetto originale era una versione in prosa in cinque atti, un finale in cui Nerone aveva una crisi di terrore all’ apparizione dello spettro di Agrippina. Ma quest’ultima scena sparì sia della tragedia sia dall’opera lirica su consiglio di Giulio Ricordi.

Ricordi, nume e genio tutelare dell’opera italiana, aveva un sogno: persuadere Verdi a scrivere un’opera dopo Aida. Come passo intermedio lo convinse ad accettare Boito per la revisione del libretto di Simon Boccanegra, steso da Francesco Maria Piave nel 1857. Compito arduo, che il nostro intellettuale affrontò di slancio, Il successo del secondo Boccanegra nel 1881 fu preludio a grandi cose.

Accanto alla stesura del buio dramma di Boccanegra, il nostro scrittore metteva su carta in quel periodo un’imitazione goldoniana, una commedia in dialetto veneto intitolata Basi e bote (“Baci e botte”). I personaggi sono la terna “aristocratica” Rosaura, Florindo e Pantalone con Arlecchino, Tartaglia, Colombina e, curiosamente, Pierrot. Sembra anche che Boito l’abbia musicata parzialmente, per poi bloccarsi – come per Ero e Leandro.

Da un numero imprecisato di anni una certa Fanny, di cui si ignora tuttora il cognome, era il tenace e segreto amore di Arrigo. Si sa che era una donna sposata, di due anni maggiore di lui, di salute precaria. La relazione pare durasse fino alla morte di lei nel 1895. Fanny era amica di Vittoria Cima, per cui forse la conoscenza era avvenuta nel salotto intellettuale di quella dama.

Inutile ricordare qui che lo scontro tra un Boito avvenirista e contestatore dell’autorità con il Verdi rappresentante di tutto ciò che è considerato tradizione da abbattere si trasformò nel tempo con l’ammirazione devota di un letterato abilissimo per il genio di Busseto. Il libretto di Otello è frutto in primis degli sforzi diplomatici di Giulio Ricordi, poi della astuta duttilità di Boito, davvero degna di Jago, e ovviamente della creatività inesauribile di Verdi. E chi deride la ridondanza arcaicizzante dei versi boitiani, oltre a dimenticare che a Verdi sono andati benissimo, ignora il testo originale di Shakespeare: gonfio, reboante, eccessivo, straripante: barocchissimo ante litteram.

Tra il 1887 e il 1894 si trascinò – mi sembra il caso di dirlo – una storia d’amore tra Arrigo ed Eleonora Duse, di cui conosciamo quasi esclusivamente le lettere di lei – appassionate, verbose, a volte magniloquenti, spesso minimaliste. Il consenso generale è che la somma attrice sia stata sfruttata e poi calpestata e umiliata da D’Annunzio. Ma il precedente rapporto con Boito (che si è anche abbinato cronologicamente e sovrapposto a quello con il Vate ) causò a “Lenor” non poche mortificazioni e tristezze. Arrigo cercò sempre di tenere il loro amore supersegreto, lontano dal suo giro di amicizie e conoscenze aristocratiche; né nascose mai il suo fondamentale, anche se velato, disprezzo per la professione di lei. L’apporto artistico si limitò al “libretto” confezionato per lei sulla base di Anthony and Cleopatra di Shakespeare, che a noi rimane come copione autografo della Duse limitato alle scene in cui compare la regina egiziana. Vi è anche un “Macbeth di Boito”, mai rappresentato, in cui, forse giustamente, Lady Macbeth acquisisce maggiore importanza del protagonista maschile. Non è quello che aveva fatto anche Piave nel 1847?

Un po’ meno teso e ansiogeno fu il rapporto tra Verdi e Boito negli anni della composizione di Falstaff . Qui Boito ricavò una commedia brillante da personaggi sparpagliati in due testi shakespeariani; l’analisi parola per parola di quel libretto del 1893 mette in luce la sua grandezza di orefice, di distillatore, di ricamatore del teatro. Né mancano sottilissimi riferimenti all’arte propria, come quando Quickly chiama il diavolo, medievalisticamente, “l’Avversiero”, come nel Re Orso di trent’anni prima. “Com’è triste la tua commedia!” gli scriveva la Duse; avvertiva quel senso di vecchiaia umiliata e sconfitta, di fine dell’avventura, che traspare in Shakespeare qua e là e in Boito-Verdi è l’asse portante della storia.

Il capitolo Nerone è il più stancante della carriera produttiva boitiana: non è dato sapere con precisione per quanti anni (quaranta? Cinquanta?) il suo autore l’abbia progettato, scritto e riscritto. Boito morì a Milano nel 1918, lasciando la faticata partitura priva del quinto atto. Tra le sue carte c’era anche una sinfonia in LA min manoscritta. Toscanini e il compositore Vincenzo Tommasini curarono il completamento del Nerone e, come per la postuma Turandot di Puccini, ne fecero eseguire la prima alla Scala nel 1924. Cast strepitoso - Pertile, Journet, Galeffi, Raisa, Pinza – ma nessuna chance di entrare nel repertorio corrente come è invece successo con Mefistofele.

Quattro anni prima della morte di Boito, nel 1914, ”La Lettura, Rivista Mensile del Corriere della Sera” pubblicò il libretto di Basi e Bote. Curiosamente, pur essendo il testo in veneziano, nell’elenco dei personaggi, si legge “Arlecchino Battocchio” anziché Arlechin Batocio. Solo negli anni Venti del Novecento Riccardo Pick Mangiagalli, boemo naturalizzato italiano, mise in musica questo testo con pochi cambiamenti, e lo portò in scena al Teatro Argentina di Roma nel 1927. Tradotta in tedesco come Küsse und Keile l’operina ha avuto una sua vita scenica nelle città germaniche.

Negli ultimi trent’anni Arrigo Boito è stato tra i personaggi di due testi teatrali contemporanei: nel 1985 in After Aida, eseguita nel Galles e a Londra con attori e cantanti lirici; nel 2001, in Tell Giulio the Chocolate is Ready, commedia radiofonica di Murray Dahm, trasmessa da Radio New Zealand. In entrambi i casi l’argomento era la “circonvenzione” di un Verdi stanco e demotivato da parte di Giuseppina Strepponi, Giulio Ricordi e Boito affinchè si scuotesse e scrivesse l’Otello. Missione compiuta, Arrigo !