Mi lagnerò. Tacendo?

 di Giuseppe Guggino

 Appunti sparsi per un ascolto del Rossini post-operistico.

Come è noto, con la prima del Guillaume Tell il 3 agosto 1829 al Théâtre de l'Académie Royale de Musique il trentasettenne Rossini pose intenzionalmente fine alla propria parabola artistica di operista proprio in corrispondenza del punto di massimo successo. Ottenute assicurazioni per una pensione dal governo di quel Carlo X di cui, cinque anni prima, aveva salutato l’ascesa al trono con la cantata Il viaggio a Reims oggi universalmente riconosciuta per il capolavoro che è, fece ritorno in Italia per quasi un anno; ma sopraggiunse la rivoluzione di luglio del ’30 che destituì Carlo X il quale, abdicando in favore del nipote di dieci anni – tecnicamente Re per una manciata di giorni – diede pretesto al Senato per un’ulteriore destituzione in favore di colui che divenne Luigi Filippo I, già duca d’Orleans, monarca sì, ma espresso della nascente borghesia. E allora Rossini si precipitò in Francia a mantenere i propri redditi, prima ancora di esercitare il ruolo di «direttore di musica e di scena» al Théâtre Italien, assegnatogli già a partire dal 1824, al suo primo arrivo in terra di Francia.

La scomparsa della madre prima, la psicosi di non riuscire più ad eguagliare sé stesso, l’indole paurosa di fronte ai rivolgimenti politici in un’Europa così mutevole, l’ormai deteriorato rapporto con la consorte Isabella Colbran, l’amore per il gentil sesso il cui libero esercizio era sempre più ostacolato non tanto dai doveri coniugali quanto dalla comparsa dei sintomi patologici di un’uretrite, possono aver determinato – non capiremo mai in quali rapporti reciproci – la deliberata scelta per il silenzio compositivo. Sebbene non si sia trattata di una scelta al riparo da ripensamenti, stante i documentati progetti caldeggiati per un’opera derivata dal Faust di Goethe nonché quelli una Giovanna d’Arco (poi concretizzatosi in una meno impegnativa cantata per contralto e piano), è la reggenza del Théâtre Italien e le serate nei salotti della Parigi bene che occupano appieno le giornate del Pesarese negli anni ‘30.

Il 1832 è l’anno dell’incontro con la bella Olympe Descuillieres (così all’anagrafe, col cognome materno), figlia non riconosciuta di un certo Pellicier e, col nome di Olympe Pélissier, già nota concubina di potenti finanzieri (grazie ai quali, complice la sua oculatezza amministrativa, divenne benestante) e poi compagna di personalità artistiche di primo piano in vari ambiti, quali Vernet, Sue e Balzac. È proprio una lettera del trentaduenne Sue che la descrive come una donna, ancorché ventiseienne, già “in uno stato di salute spaventoso”, profondendosi in dettagli dai quali la si può supporre sofferente di dispareunia.

Se si eccettuano i sei su tredici numeri scritti durante un viaggio in Spagna su pressione del banchiere Aguado per uno Stabat Mater “privato” richiesto dal prelato don Manuel Fernandez Varela (gli altri sette furono delegati all’amico Giovanni Tadolini), la conoscenza tra Rossini e la Pélissier segna una sorta di sodalizio fra i due che va oltre l’amore (probabilmente più platonico che di diverso tipo, visti i reciproci disturbi) e il dirottamento dell’esercizio compositivo del Pesarese esclusivamente verso la musica da camera; a ben vedere la lirica da camera è forse l’unico genere praticato con singolare costanza sin da prima degli esordi operistici, con quella «Se il vuol la molinara» dedicata a Vincenzina Viganò-Mombelli. Se della cantata Giovanna d’Arco, datata appunto 1832, è dedicatario il nuovo affetto, la raccolta di dodici ariette assemblata – parrebbe – per scommessa con Troupenas e da lui èdita nel 1835, sotto il nome di Soirées musicales, attraverso una scorsa ai dedicatari dei singoli morceaux, offre un panorama delle frequentazioni rossiniane di quegli anni. [link immagine]

Copertina dell’edizione a stampa con un’incisione di Charles Formentin

L’importanza di questi dodici morceaux canto e piano, al di là del valore musicale intrinseco comunque non ordinario per dei fogli d’album, sta in una ricercatezza (rintracciabile forse in misura anche maggiore nei pochi pezzi di salotto scritti nello stesso periodo a Parigi da Bellini) dalla quale si diparte lo sperimentalismo verso i risultati più curiosi della produzione rossiniana dell’ultimo decennio 1857-1868. [link immagine]

Morceaux dei Soirées Musicales

Niente meglio di questi pezzi strofici, tinte pastello su orditi metrici ternari, siano essi semplici o composti, di carattere ora brillante ora patetico, esemplificano l’ideale di belcanto nell’orizzonte rossiniano. Una posizione concettuale, prima ancora che estetica – questa – mantenuta ferma ancora per altri trentatré anni e più, come dimostra una delle sue ultimissime lettere (1868), indirizzata al critico musicale Filippo Filippi: «Io resterò inébranlable [irremovibile, n.d.r.] nel ritenere l’arte musicale italiana (specialmente per la parte vocale) tutta ideale ed espressiva, mai imitativa».

Il piccolo gioiello confezionato con i Soirées non segnérà svolte nella storia della musica, ché un incipit quale quello della Serenata (No. 11) potrebbe star bene nell’ugola di Alaide ed Arturo della Straniera (anzi, a ben vedere, è da lì che pare preso di peso!), né ha la pretesa di farlo. Ed è esattamente questo elemento a far ritenere i Soirées punto di svolta verso i Péchés de vieillesse: l’idea di fare innocua musica come una sorta di esercizio dell’anima, balsamo per i malanni fisici e meno fisici: musique anodine, con l’ambivalenza semantica dell’aggettivo, per l’appunto, probabilmente per questo molto usato dallo stesso Rossini. [link immagine]

Frontespizio autografo con dedica di Musique anodine

Non a caso Musique anodine – e questa volta in maiuscolo – è anche il titolo di una singolare raccolta di pezzi che, simbolicamente, segna il ritorno di Rossini alla composizione. La dedica di uno degli ultimi lavori precedenti la crisi – la cantata Giovanna d’Arco – e quello ancora più affettuoso di questa raccolta alla Pélissier sono sintomatici della sua importanza nelle travagliate vicissitudini biografiche dell’ultimo trentennio di vita del Pesarese. Ciò che accade nel silente ventennio ’35 – ’55 è un non poco ammantanto di mistero; si sa per certo che Rossini, rientrato a Bologna con un viaggio in treno che lo turba alquanto (e di cui terrà memoria per molti anni prima di raccontare l’esperienza in un curioso pezzo per pianoforte), cerca di stabilirsi in città con la Pélissier, nonostante la presenza di Isabella Colbran, e vi riesce, non senza difficoltà, grazie all’accordo tacito secondo il quale, nonostante la separazione legale, non vi sarebbero state nuove nozze. Nel ’38, sebbene a distanza, è prostrato dal rogo del Théâtre Italien nel quale perde il caro amico Carlo Severini, l’anno seguente perde anche il padre; poi – unico lavoro compositivo di un certo spessore, nel ventennio di silenzio – decide di completare lo Stabat Mater del ’31 sostituendo tutti i numeri allora affidati nel ’31 a Tadolini. Nel 1846, dopo la morte di Isabella Colbran, convola a nozze con Olympe Pélissier mantenendo la residenza bolognese per altri due anni, fino ad una rocambolesca fuga notturna a Firenze, dopo una sorta di assalto del suo palazzo durante i moti risorgimentali del ’48 da parte di patrioti in cerca di danari. Nella principale città del granducato di Toscana i coniugi risiederanno quasi stabilmente fino al ’55, quando il lento ma costante declino fisico di entrambi (a quanto pare, indotti entrambi al bulimico consumo di alimenti, nella cornice quotidiana dell’asfittica provincia italiana) e l’avvitamento depressivo suggerirono l’opportunità di una rentrée parigina. Scelta che, dopo le rinfrancanti estati trascorse a Trouville e alle terme di Wildbad (rispettivamente 1855 e 1856), si rivelò vincente: Rossini, ossessionato da una sorta di nevrosi che gli faceva paventare la sua caduta nell’oblio, nonostante la mutata situazione istituzionale che poteva risultare non poco scomoda per un musicista compromesso quale emblema della corte di Carlo X, agli occhi della Seconda Repubblica già trascolorata nel Secondo Impero, fu accolto con gli onori del caso.

Dal felice rientro a Parigi, da quel 15 aprile 1857 annotato nella dedica «come semplice testimonianza di gratitudine per le intelligenti ed affettuose cure delle quali fu prodiga durante la mia lunghissima e terribile malattia» decorrono gli ultimi undici anni creativi, cosiddetti “dei péchés”. La specificità di tale fase creativa, il rapporto inestricabile fra il sostrato psico-biografico e la produzione la produzione artistica di questa fase rappresentano quasi un unicum nella storia della musica: non si può comprendere appieno la cifra intima, istrionica, sorniona di queste caramelle da scartare una dopo l’altra in sede di ascolto, senza un’idea del come siano state incartate. Si tratta di un vastissimo assortimento di gusti, 237 secondo il catalogo ufficiale [visualizza], al quale se ne potrebbe aggiungere qualcun altro, per tutte le gradazioni di sapidità, dall’iperglicemico al caustico; né il ricorso al palato deve stranire giacché, alcune di queste composizioni recano come titolo l’allusione a pietanze, quali Ouf! les petits pois (i pisellini) o Hachis romantique (polpettone romantico), per non tacere di un’intera raccolta di due gruppi di pezzi pianistici (vol. IV), intitolata Quatre mendiants (assortimenti di frutta secca) et quatre hors d’œuvres (antipasti).

Il catalogo di queste composizioni da camera è piuttosto sfuggente ad ogni logica classificatoria; a pezzi estremamente lapidari (non più di una quarantina di battute) possono fare da contraltare morceaux anche di grande respiro, né a miglior partito si approderebbe operando “per organici” giacché si annoverano pezzi con pianoforte solo, arie da camera canto e pianoforte, cori a cappella, cori con pianoforte, come si addice ad una produzione sgorgata dalla vena creativa di Rossini senza un disegno preordinato. Né, in realtà, si tratta sempre di lavori da ascrivere a questi ultimi undici anni di vita, giacché vi si ritrovano sparuti casi di brani anche databili anteriormente al 1857. La finalità con cui questi pezzi sono scritti, oltre che come “cura omeopatica” per chi li compone, esattamente come nel caso dei Soirées musicales, è la circolazione nella dimensione semi-privata del salotto. Rossini e la Pélissier, infatti, stabilirono in quegli anni la loro residenza invernale alla Chaussée d’Antin e quella estiva a Passy, dove tenevano soirées, frequentati da i massimi artisti dell’epoca (Saint-Saëns, la Patti, la Alboni, per non fare che qualche illustre nome) nonché dai facoltosi amici della coppia, nelle quali estratti da opere (rossiniane e del momento, da Attila al Ballo in maschera verdiani) eseguite canto e piano erano inframezzate da péchés, così come sappiamo con certezza da resoconti della stampa coeva.

I péchés sono summa dell’arte compositiva di Rossini e, in quanto tali, contengono anche tutte le nevrosi e le idiosincrasie rossiniane: una produzione “estrema” che, pur nella levità del lavoro salottiero, può esprimere anche ossessioni. Una di queste, ad esempio, è il testo metastasiano di un’aria dal Siroe, re di Persia “Mi lagnerò tacendo” che Rossini, a partire dagli anni ’20, elesse a vero e proprio feticcio da rivestire ciclicamente con nuove intonazioni; l’ossessione per il testo, per la verità piuttosto insignificante, peraltro adottato in una versione abrégé:

Metastasio

Mi lagnerò tacendo

Del mio destino avaro;

Ma ch’io non t’ami, o caro,

Non lo sperar da me.

Crudel! In che t’offendo

Se resta a questo petto

Il misero diletto

Di sospirar per te?

Rossini

Mi lagnerò tacendo

Della mia sorte amara

Ma ch’io non t’ami, o cara,

Non lo sperar da me.

Crudel! In che t’offesi

Farmi penar, perché/così?

 

probabilmente è da spiegare appunto col suo carattere neutro, adattabile a qualsiasi situazione musicale; a riprova di ciò, dai manoscritti dei péchés emerge in taluni casi l’impiego di questo testo come “riempitivo” per la composizione di alcuni numeri (ad esempio La Grand Coquette o Le Dodo des enfant), poi rivestiti di un nuovo testo modellato ad hoc da Émilien Pacini. È poi curioso osservare come un compositore sottopostosi volontariamente ad un silenzio ventennale avesse maturato, sin dalla gloria degli anni giovanili, una smodata predilezione/ossessione per un incipit che individua nel tacere una via per esternare il malessere! Un’intera raccolta di péchés (vol. XIII) è costituita esclusivamente a sei diverse intonazioni di questi versi, la più breve delle quali (No. IIIII) conta appena 36 misure. [link immagine]

Mi lagnerò tacendo” No. IIIII in Musique anodine

L’altra ossessione o, se si preferisce, “costante” del neoclassico Rossini, tralasciando il capriccio (e la capacità!) di concepire “linee” vocali su una sola o su due note (Elégie sur une seule note, piuttosto che Ave Maria su due sole note, esattamente come ai tempi del Ciro in Babilonia), è l’ossequio per le forme o – per meglio dire – il saper piegare con compostezza un’architettura formale rigidissima ad un disegno espressivo; eppure in una produzione tanto singolare la capacità si conferma, si affina e, forse, si estremizza. Ogni morceau, è concepito secondo sezioni mutuamente collegate; sempre o quasi l’apertura è affidata ad un’introduzione, talvolta anche minima (appena quattro battute bastano!) ma non accade mai che si principii con un tema senza che l’attenzione dell’uditorio sia stata opportunamente preparata. Successivamente lo schema può essere piuttosto variabile, ancorché sempre rintracciabile. Ad esempio il lapidario Prélude per pianoforte (appena 53 misure) posto ad epigrafe in Musique anodine presenta un’introduzione (6 misure), A (8 misure), B (8 misure), A’ (8 misure), ripresa dell’introduzione e coda (8 misure). [link immagine]

Prélude di Musique anodine - Autografo

La semplice vista di un autografo a caso dei péchés è rivelatrice di quale fosse ampia la richiesta di effetti per un “pianist de quart-ordre”, qual si professava – con civettuola finta modestia – Rossini. Una costante della scrittura pianistica e il ricorso a staccati e accenti di vario tipo, funzionali a ricercare nel suo Pleyel un peculiare tipo di suono, anche grazie all’ampia sollecitazione dei gravi con ottave, di tipo orchestrale; la frequentazione ultraquarantennale dell’ambito operistico, e l’aver osservato conseguentemente tutte i trucchi e le diavolerie dei riduttori di partiture a spartiti canto e piano, da Louis Niedermeyer (che gli aveva magnificamente “ridotto” per pf. – fra le altre cose – il Tell) in giù, è la palestra perfetta dalla quale attingere tutti gli accorgimenti necessari per una scrittura che può farsi, alla bisogna, anche molto appariscente. Non capiterà spesso ai pianisti di quart’ordine imbattersi nei glissati discendenti in ottava, più adatti per quelli con discreta familiarità con il terzo tempo della Waldstein o con le variazioni Op. 35 di Brahms (e quindi non proprio di quart’ordine!). È quello che capita nel Petit caprice (style Offenbach) della Miscellanée pour piano (Vol. X, No. 6), uno dei pezzi dalla genesi più curiosa. Nel concepire la sua Belle Heléne (1864),Jaques Offenbach pensò bene di parodiare il terzetto della congiura del Tell, come No. 20: Trio patriotique "Lorsque la Grèce est un champ de carnage", così suscitando in Rossini questo piccolo capriccio di scaramantico ringraziamento nel quale, oltre a parodiare lo stile del Mozart des Champs-Élysées, se ne esorcizzano le presunte capacità iettatorie attraverso un’accorta diteggiatura dell’introduzione, del tema principale e della coda, rigorosamente su secondo e quinto dito di entrambe le mani: [link immagine]

E pare che Offenbach non se l’ebbe a male se, alla morte di Rossini, gli dedicò un Hommage per orchestra e cello che, oltre alla riappropriazione del terzetto del Tell, ne propone la seconda sezione dell’Ouverture, incastonata fra l’aria di Berta e il duetto Figaro-Conte dal Barbiere.

La cosa che più sorprende nei pezzi eminentemente pianistici forse in misura maggiore che nelle liriche da camera o negli impegnativi lavori per pianoforte e cello, o violino oppure il corno, è uno sperimentalismo armonico spiazzante; tale dovette risultare al copista, più volte ripreso da Rossini per delle “normalizzazioni” indesiderate, così come raccontava Rossini stesso a Filippo Filippo. Sono gli anni dell’incontro con Wagner che Edmond Michotte, testimone oculare, tramanda come sorprendentemente pacato e colmo di reciproca deferenza; certo è che Rossini in queste pagine usa sovente scalette cromatiche e continue modulazioni per semitoni. [link immagine]

Un rien (pour album) No. 5, da Quelques riens pour album

Il vezzo della falsa modestia rimane però sempre dietro l’angolo, nel battezzare come “inezie” (riens) i 24 brani di un album verosimilmente animato da qualche pretesa poi non mantenuta. Nella stesura di pezzi evidentemente estemporanei, capricciosi, privati è di tutta evidenza come Rossini non avesse una logica di ampio respiro, né le voglia o la volontà di dar luogo ad “album” da dare alle stampe; l’idea di organizzare il vasto corpus di Péchés dovette balenare nell’ultimo anno di vita: il fondo Michotte reca un catalogo quasi definitivo, con segni di vari ripensamenti, ed anche la foliazione dei vari volumi è evidentemente frutto dell’assemblaggio “a posteriori” di carte pentagrammate dai formati più disparati. Nascono così gli otto “album”, tutti rigorosamente composti da 12 morceaux, à la manière de les soirées musicales, ossia l’Album italian (Vol. I), l’Album français (Vol. II), L’Album alla Potrida ou Macédoine, poi rinominato più nobilmente Morceaux réservés (Vol. III), contenente la dedica di un coro funebre con tamburo all’amico Meyerbeer che, seppur molto malato, qualche settimana prima della sua morte, aveva voluto presenziare a tutti i costi alla prima esecuzione della Petite Messe Solennelle a casa del Conte Alexis Pillet-Will, l’Album pour les enfants adolescents (Vol. V), l’Album pour les enfants dégourdis (Vol. VI), l’Album de chaumière (Vol. VII), l’Album de château (Vol. VIII), e l’Album pour piano, violon, violoncello, harmonium et cor (Vol. IX).

Dedica di Quelques mesures de chant funèbre: à mon pauvre ami Meyerbeer

Se si eccettuano Musiques anodine (Vol. XIII) e Quatre mendiants et quatre hors d’œuvres (Vol. IV) dotati di una loro autonomia interna, e i tre volumi di miscellanee (Voll. X, XI, XIV) rimane il volume delle “ ventiquattro inezie” che potrebbe essere l’unico progetto preordinato secondo una logica di ampie proporzioni, anche se poi non portato completamente a termine. Gran parte dei numeri del volume, infatti, è esteso nella medesima carta pentagrammata in verticale; solamente alcuni numeri (prevalentemente nella seconda parte) sono estesi su un formato oblungo in senso orizzontale, così come per pochi numeri non si riescono a coprire tutte e 12 tonalità maggiori e le relative minori sui gradi della scala: potrebbe darsi che Rossini avesse architettato un suo personale Das wohltemperierte Clavier, ripiegando per i Riens mancanti su numeri già pronti. [link immagine]

Rien No. 12 – Danse siberienne

D’altra parte l’ammirazione del Pesarese per Bach era indiscussa e confermata dall’abbonamento alla sua opera omnia; né può dirsi che tra i Péchés manchino i fugati di rigore luterano: anche un pezzo dal titolo eminentemente da scuola tecnico-pianistica quale Gymnastique d'écartement cela al suo interno una curiosa commistione tra la caricatura di uno studio di Hanon e l’omaggio al secondo preludio del Wohltemperierte Clavier. La galleria di parodie potrebbe allungarsi ancora a innumerevoli altri pezzi; ad esempio Mélodie candide fa il verso a certo Chopin, così come Un cauchemar (un incubo) principia come notturno, salvo poi virare in florilegio grottesco sulla tastiera. Ancora una volta, nella carriera del Pesarese, non colpisce l’autenticità dello spunto melodico, ma lo sviluppo a cui viene sottoposto: Amour sans espoir (XI, No. 3), ad esempio prende a prestito il tema del brindisi di Maffio Orsini, subito imprevedibilmente reso irriconoscibile con un’elaborazione che tutto è fuorché prevedibile.

S’è più volte scritto che il Rossini dell’ultimo decennio rinvia all’umorismo di Satie (Rognoni) ed è certamente vero; non a caso uno dei primi pianisti ad interessarsi agli eccentrici péchés fu Aldo Ciccolini, assiduo esecutore di musiche di Satie. S’è anche polemicamente risposto, però, che l’assonanza tra i due è meramente epidermica, limitata a qualche denominazione eccentrica dei pezzi (Carli Ballola), ed in effetti la scrittura dell’ultimo Rossini – specie quella pianistica – forse inconsapevolmente, pare più Spécimen de l’avenir, che non Spécimen de mon temps pur paradossalmente volendo orgogliosamente rappresentare uno Spécimen de l'ancien régime. Come non pensare a Musorgskij di fronte all’uso percussivo della tastiera e agli accordi ipertrofici, o come non pensare a Debussy di fronte al filone di musiche su scale orientali? Il tutto non con la pretesa della ricerca dotta, ma con l’aria canzonatoria di chi, dopo un’esecuzione di L'amour à Pékin: petite mélodie sur la gamme chinoise pare abbia chiosato pressappoco: «in fin dei conti gli amori sono uguali a tutte le latitudini: diesis a salire e bemolli a scendere!». Fra tanto faceto non manca il serio di qualche preghiera, della stessa altissima ispirazione che si ritrova nella Petite Messe Solennelle, considerabile a tutti gli effetti un XV volume dei Péchés (non foss’altro per un O Salutaris trasmigrato), e fra il serio e faceto la Caresse à ma Femme, con un battibecco sospeso fra due tenerissime carezze è la migliore sintesi d’ascolto di quanto tanto ancora si potrebbe scrivere.

Pur essendo Spécimen de l’avenir, non pare che però l’avvenire abbia saputo proteggere la fragilità dei Péchés. Morto Rossini, Olympe donò gli autografi delle varie raccolte (oggi presso la Fondazione Rossini) alla Città di Pesaro, mentre cercò di piazzare sul mercato i manoscritti dei copisti (con correzioni autografe), pervenendo alle stampe, smembrati, per Hutchings and Romer, J.B. Cramer & Co. o Heugel & Fils. Fu in queste versioni che alcuni pezzi finirono nelle mani di Ottorino Respighi che ne trasse il balletto La Boutique fantasque per Diaghilev (coreografie di Massine) e la suite Rossiniana. Alla scrittura pianistica si è interessato pionieristicamente, oltre al citato Ciccolini, anche Dino Ciani che all’approccio antologico preferì dedicarsi a due album completi. Poi il silenzio fino a due diverse integrali pianistiche quasi coeve (su strumenti d’erpoca Erard o Pleyel) dovute rispettivamente a Stefan Irmer e Paolo Giacometti, fino all’integrale in fase di completamento di Alessandro Marangoni che, oltre alla musica per pianoforte solo, include i pezzi vocali e strumentali con accompagnamento del pianoforte.

Né alla scarsa fortuna esecutiva par aver fatto risarcitorio contrappasso una diversa attenzione in sede critica: un attento saggista di musica strumentale ottocentesca quale Charles Rosen non cita mai i Péchés in Musica romantica (c’è da suppore, con la grande approvazione di Rossini), né nell’altro volume suo volume dedicato al classicismo; anche una penna attenta quale quella di Mario Bortolotto, che sarebbe stata ideale per rendere giustizia a questa musica, si sofferma solo fugacemente sull’episodio del Petit caprice Offenbach in Inaugurazione della Casa (p.166). Non rimane che lagnarsene. Anziché tacerne.

Postilla discografica essenziale