Di flagellar l'incarco

 di Roberta Pedrotti

In occasione dell'apertura della stagione della Scala con Attila, alcune riflessioni sull'opera verdiana


Attila, luce e natura

 

Quando Verdi si accinge a comporre Attila, tratto da un dramma di Zacharias Warner, è un baldo trentatreenne con alle spalle otto debutti operistici tutti in teatri prestigiosi. Con l'eccezione della commedia Un giorno di regno, tutti soggetti storici o esotici, spesso con importanti presenze corali, in cui il tratteggio di regnanti, banditi, nobili e guerriere ha offerto un'eccellente palestra per affinare gli strumenti per sondare l'animo umano, i rapporti familiari, affettivi, sociali e politici. E il tema politico ricorrente nell'Ottocento romantico che si prepara al Risorgimento è quello dello scontro fra oppressi e oppressori, possibilmente vigilato da una manzoniana Provvidenza e non dalla disincantata e disinteressata Natura leopardiana. Ma proprio alla Natura ricorre con un'attenzione finora inedita il giovane Verdi nel 1846 nel progettare il suo Attila per il teatro La Fenice di Venezia. Anzi, alla messa in scena comincia a prestare un'attenzione maniacale, intuendo che quella spettacolarità che è sempre stata parte integrante e fondamentale dell'opera lirica si sta evolvendo verso una nuova idea di teatro. Così studia l'iconografia, si fa inviare copia dell'affresco di Raffaello con l'incontro fra Attila e papa Leone I nei palazzi vaticani per trarne ispirazione (e di fatto la visione nel finale del primo atto descrive esattamente l'immagine nella sala di Eliodoro), ma soprattutto s'interessa alla scenotecnica, alle luci, così fondamentali in rapporto alla musica per restituire l'elemento naturalistico come elemento drammaturgico. La tempesta e l'alba nel finale primo, emblema dei tempi cupi e difficili da cui sorge qual "fenice novella" una nuova speranza, è uno dei momenti a cui tiene di più, come la festa degli Unni illuminata da torce che un soffio di vento spegne improvvisamente balzando la scena nell'oscurità.

Con Attila, Verdi, dimostra, insomma, come la teatralità sia parte integrante del suo linguaggio, di un messaggio affidato alla musica come all'immagine. Il passo successivo, dopo questa ricerca storica e naturalisticha che pure ammette, con l'apparizione di Leone, elementi mistici, sarà Macbeth, per il quale Verdi sonderà la sfera del sovrannaturale fra spettri, visioni, sortilegi che lo spingeranno a svolgere continue ricerche sugli ultimi ritrovati in campo di macchine teatrali, illuminotecnica, lanterne magiche utilizzate in scena come antenate delle moderne proiezioni. Si mette alla prova lo spirito avanguardista di Verdi, che scrive le sue note "belle o brutte che siano" sempre con una ragione e un carattere, e che queste ragioni e questi caratteri li trova nel teatro, nel ritmo incalzante di un'opera per molti versi belcantista che sembra quasi chiudersi su sé stessa, quasi risucchiata dalla rapidità di un dramma che rende ogni atto più breve e fulmineo del precedente. E li trova anche nello scandalo del teatro, con un gobbo in scena, delle streghe gracchianti o l'incantesimo dell'alba dopo la tempesta sulla laguna di Venezia.


I personaggi

Attila, etico e spietato

Cresciuto fra patrizi romani, per uno scambio di ostaggi altolocati pegno in un trattato di pace, l'Attila storico doveva avere una certa familiarità con l'impero e la sua civiltà, come d'altra parte non era infrequente in un'epoca di mutamenti che la tradizione ha tramandato quasi esclusivamente attraverso immagini di selvagge scorrerie, trascurando il lento e fecondo compenetrarsi di culture diverse e un panorama politico sempre più variegato e complesso. Così la tradizione ne ha fatto da un lato un temuto flagello, sinonimo di terrore e devastazione, dall'altro quasi un eroe, quale a tutti gli effetti è nella saga dei Nibelunghi quale secondo marito di Crimilde. Nel dramma di Zacharias Werner (autore che Madame De Staël poneva addirittura subito dopo Goethe e Schiller) Attila, König der Hunnen il protagonista è fortemente idealizzato, un pagano virtuoso che conquista la stima e l'affetto di papa Leone e della devota principessa Onoria, ma che nel suo incrollabile senso di giustizia si trova vittima di intrighi e tradimenti continui, finché non perde tragicamente la vita.

Attila in Warner ha le mani sporche di sangue, ma sempre rispondendo a un rigoroso codice morale; le stragi che gli vengono imputate sono sempre causate da un giuramento, da un patto infranto dai suoi nemici. Attila è terribile, ma nobile, onesto. Questo, evidentemente, interessa a Verdi, soprattutto perché l'onestà, il rigore morale del nemico, dell'oppressore si contrappone alla disponibilità all'intrigo e al compromesso del generale degli oppressi e delinea così un quadro ricco di sfumature e ambiguità in cui si possono stagliare le figure originali e simboliche della vergine guerriera e dell'eroe fondatore di Venezia.

Ecco, dunque, Attila che "i prodi venera, abbomina il codardo", Attila che si sdegna per le proposte di Ezio e pensa di recare "la fe'" nell'Italia preda di traditori e spergiuri, l'Attila che accoglie di buon grado al suo banchetto gli ambasciatori romani e che, in solitudine, si turba profondamente di fronte a presagi divini. Dare una dignità, un sistema di valori al nemico è fondamentale per costruire il dramma e conferir sostanza politica alla lotta contro l'oppressore. Se, infatti, da un lato è umanamente affascinante la figura di Attila nobile e terribile, è altrettanto importante questa sua caratterizzazione nel sistema ideologico dell'opera. Anzi, il suo echeggiare Giulio Cesare morituro "E tu pure Odabella?" dopo che tutti coloro ai quali ha concesso grazie e benefici li hanno rinnegati rinfacciandogli altri delitti, rammenta l'equiparazione del tradimento di Bruto e Cassio a quello di Giuda nella Divina Commedia, e quindi assume un valore ancor più tremendo, seppur mitigato dalla decisa, repentina (e quanto persuasiva?) proclamazione "Appien son vendicati Dio, popoli e re!". La chiave è resa proprio dalle parole dell'inviato divino, del vecchio Leone (la censura vietò di esplicitarlo come Papa) che lo apostrofa "Di flagellar l'incarco contro i mortali hai solo" e ne chiarisce una funzione provvidenziale segnata dal destino al pari di quella di Odabella: è un esempio e un male necessario per la rinascita dell'alba dopo la tempesta. D'altro canto, il condottiero virtuoso al punto da avvicinarsi al Cristo e al Cesare nell'ideale dantesco circondato da un coro che lo venera come una divinità e lo saluta inneggiando a "urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine e stragi e foco" è un ossimoro solo apparente, in realtà coerente con i rapporti che regolano le dinamiche di un'orda come quella degli unni, un insieme di clan nomadi che vive esattamente di razzìe e saccheggi, quand'anche la classe dirigente si sia raffinata e avvicinata anche ad arti diplomatiche. Ma la storia degli Unni a Verdi non interessa per nullanulla; gli interessa, ed è chiaro, rappresentare una figura complessa di antieroe degno, comunque, di stima, rappresentare i contrasti interiori di un condottiero orgoglioso di fronte all'inconscio e all'irrazionale, di fronte al tradimento; contrapporre un modello di integrità alla decadenza morale che ha generato la decadenza politica degli oppressi (sulla falsa riga dell'elogio delle virtù barbariche che traspare in Cesare e in Tacito); rappresentare la necessità stessa del tradimento nei diversi volti di una riscossa di fronte alla violenza dell'oppressore. 

Ezio il politico spregiudicato

L'Ezio storico, Flavio Ezio soprannominato "l'ultimo dei romani", era nato nell'attuale Bulgaria da una nobildonna romana e un generale di probabili origini gotiche, a dimostrazione del carattere cosmopolita che l'impero aveva mantenuto e accresciuto nella sua espansione. Generale di Valentiniano III, divenne, di fatto, uno degli uomini più potenti dell'impero, destreggiandosi fra alleanze e scontri tra le diverse potenze che agivano nell'Impero morente, o comunque in trasformazione. Toccò il vertice della sua carriera politica e militare sconfiggendo Attila nella battaglia dei Campi Catalaunici (451), ma in seguito il suo prestigio decadde: non riuscì a fermare la calata degli Unni in Italia - arrestata, invece, dall'ambasciata guidata da papa Leone I - e morì in una congiura di palazzo cui partecipò lo stesso Valentiniano.

Le necessità drammatiche, ovviamente, condensano le vicende e accrescono l'importanza di Ezio nelle fasi finali dell'impresa di Attila e della sua stessa vita, ereditando dal dramma di Werner quella tendenza all'inganno e al tradimento che nel dramma tedesco sembra circondare il protagonista per farne risaltare la statura morale. Sarebbe, però, un errore considerare l'Ezio verdiano solo nell'ottica suggerita da Attila "l'eroe più valido è traditor, spergiuro" soffermandosi per di più solo sulla conclusione. Ezio è un eroe valoroso, questo è un dato incontrovertibile nel contesto dell'opera. Il suo comportamento politico è spregiudicato e se un uomo dall'integrità perfino rude qual era Verdi non potrà che guardare con sospetto il suo venire a patti con il nemico, l'intelligenza del drammaturgo indagatore dell'animo umano lo mette al riparo da giudizi troppo netti. A ben guardare - e ascoltare - il duetto del prologo, più che un tentativo di spartizione del mondo, suona come un piccolo gioiello, seppur fallito, di diplomazia politica da parte del generale romano: "L'orbe intero Ezio in tua man vuol dar" suona troppo sfrontato per essere sincero, mentre assume ben altra logica se si pensa che il romano presuma di persuadere Attila con un'offerta allettante e e di dirgli ciò che vuol sentirsi dire. Ragiona secondo una politica dell'opportunità assolutamente machiavellica, calcola quale sia il risultato che ragionevolmente può ottenere (la rinuncia di Attila alla conquista dell'Italia) e pone sul piatto un'offerta che considera allettante per un re barbaro, cercando anche di accattivarselo delineando in aria di confidenza il quadro dell'impero fra Occidente e Oriente. Fallisce perché Attila non è un politico di palazzo, ma il condottiero di un'orda coalizzata di clan (lo esplicita quando convoca "i druidi, i duci, i re") e dunque l'onore, la fedeltà sono valori su cui non può transigere, pena la perdita delle basi stesse del suo potere. Tuttavia il discorso di Ezio è sensato, ancorché viziato dall'ambizione personale, ma è qui che risiede la grandezza di Verdi, nel saper conferire sincerità e nobiltà, anche buona fede, al canto del generale che rimpiange "gl'immortali vertici" di Roma e che sogna di rinnovarli, anche se ciò si concretizza anche a prezzo di azioni spregiudicate, anche se si mescola con una personale sete di potere. Per di più, che l'agire di Ezio non fosse, ai tempi di Verdi, percepito in modo così negativo, ma di certo ambiguo, lo confermano le citazioni nella Accademia musicale comico, seria, storica, politica, militare, diplomarica ecc. ec. eseguita a Torino nel 1859, uno spassoso collage di citazioni operistiche rivisitate a raccontare le vicende risorigimentali: qui Vittorio (Emanuele II) prende il posto di Ezio, Custoza di Chalons, ma in seguito lo scambio fra universo e Italia diviene fra Venezia ed Etruria con Napoleone III/Ezio che si rivolge all'Austria ai danni dei patrioti italiani.

Considerare Ezio un "traditor spergiuro" assetato di potere può non essere del tutto errato, ma non considerarne anche la natura complementare di "eroe più valido" significa fare un torto a Verdi che, alla vigilia della prima stesura di Macbeth, realizza in Attila forse la sua prima grande riflessione sul rapporto anche corruttore del potere sulla natura umana. 

Odabella: il mito di Giuditta

Tacito, nel suo trattato De origine et situ Germanorum (Germania), descrive così il ruolo della donna, soprattutto in battaglia, presso i barbari del nord:   "7. [...] cosa che più d'ogni altra sprona al coraggio, la formazione di uno squadrone di cavalleria o di un cuneo avviene non per casuale raggruppamento, ma in base alle famiglie e ai clan; i loro cari stanno nei pressi, da dove possono udire le urla delle d onne e i vagiti dei bambini. Questi i testimoni più sacri; da loro la lode più ambita: presentano le ferite alle madri, alle mogli, che hanno l'animo di contarle e di esaminarle; ed esse recano ai combattenti cibi ed esortazioni. 8. Si ha ricordo di eserciti, ormai sul punto di ripiegare e di cedere, rinsaldati dalle insistenti preghiere delle donne che mostravano il petto e che indicavano loro lo spettro dell'imminente schiavitù; schiavitù che temono per le loro donne assai più che per sé , tanto che si sentono più saldamente vincolate quelle popolazioni dalle quali si pretendono, come ostaggi, anche nobili fanciulle. Attribuiscon o anzi alle donne un che di sacro e di profetico e non ne sottovalutano i consigli o ne disattendono i responsi." È chiaro che i versi di Odabella "Allor che i forti corrono | come leoni al brando | stan le tue donne, o barbaro, | sui carri lagrimando." traggano ispirazione da questo passo, come più oltre l'apparizione delle sacerdotesse "sacre figlie degli Unni"); tuttavia l'immagine viene ribaltata: quella che era una presenza ispiratrice di valore e coraggio diviene emblema, viceversa, di debolezza e viltà nel contrasto con le "donne italiche" che, "cinte di ferro il seno, | sul fumido terreno | sempre vedrai pugnar."

Là dove lo storico latino metteva in guardia dalla potenza crescente dei popoli confinanti e ne confrontava (secondo un topos già presente nel cesariano De bello gallico) le schiette virtù alla decadenza morale dell'alta società romana, Verdi e Solera pongono l'accento proprio sulle virtù eroiche che conducono gli oppressi al riscatto. Naturalmente, con la definizione ideologica e politica di Attila e di Ezio, il quadro che si compone non è affatto manicheo o privo d'ombre e ambiguità. Tuttavia se ai due personaggi storici si contrappongono due giovani invenzioni originali anche rispetto al dramma di Warner, proprio queste di caricano di un forte significato etico e politico. Per Odabella, in realtà, nel dramma tedesco era presente un equivalente in Hildegunde, la quale tuttavia è una principessa burgunda e la storia della sua vendetta è comunque macchiata da un tradimento originale: lo sterminio dei suoi da parte di Attila era la conseguenza di un trattato d'alleanza infranto dai burgundi. Hildegunde è un personaggio fosco, luciferino, che invoca le potenze infernali e spinge Attila al male per affrettarne la perdita. Odabella, viceversa, si ispira dichiaratamente alla biblica Giuditta: "rammenti | di Giuditta che salva Israele? | [...] Rinnovar di Giuditta l'istoria | Odabella giurava al Signor!". La missione di Odabella non è più, dunque, una vendetta privata, ma un riscatto patriottico ispirato dal Cielo; Odabella, vergine guerriera che invoca la "giustizia alta, divina" nell'ora "segnata dal Signor" è erede diretta, più che dell'irruente Abigaille - con la quale condivide sicuramente molte peculiarità vocali - di Giovanna d'Arco.

Come Giovanna d'Arco, nell'opera di appena un anno precedente, Odabella si fa carico del riscatto di una nazione oppressa da un invasore, si sente investita come uno strumento della divina provvidenza, ne sente la responsabilità e il peso. Il suo slancio guerriero fa il paio con ripiegamenti riflessivi e la romanza del primo atto, "Oh! nel fuggente nuvolo", sembra fare idealmente il paio con "O fatidica foresta" di Giovanna, pagine intime e liriche in cui l'eroina depone l'armatura e rivolge alla natura i suoi dubbi, cercando conforti e conferme per vincere la propria fragilità. Entrambe sono in qualche modo ossessionate da questo dovere che nel caso della Pulzella si materializza nelle visioni contrapposte di schiere angelice e demoniache, per la vergine italiana nell'"ombra gigante" del padre che le impone l'omicidio di Attila. Un delitto che costituisce una forma di tradimento per il condottiero che le ha salvata la vita e l'ha eletta come sua sposa e regina, ma che Odabella si rifiuta di compiere con la viltà del veleno (trama ordita da Uldino che, schiavo bretone favorito da Attila, recupera alcuni tratti infidi del carattere di Hildegunde) guardando Attila negli occhi mentre lo sacrifica all'ombra paterna compiendo il volere divino.

Foresto: il fondatore

L'altro personaggio introdotto da Verdi e Solera rispetto e alla storia e al dramma di Werner, è Foresto, l'amato di Odabella creduto morto per mano degli Unni. Come Odabella è un personaggio fortemente simbolico; per i più il suo ruolo nella vicenda non è fortemente attivo e propulsivo come quello della vergine guerriera, viceversa deve rappresentare virtù e stabilità ben definite e strutturate nel suo ruolo di fondatore della città di Venezia, e idealmente di una nuova civiltà italiana dalle ceneri della Repubblica romana degenerata in età imperiale. Foresto dimostra un estremo rigore morale nel preferire l'idea dell'innamorata morta piuttosto che ridotta in potere di Attila, rifiutandola poi con sdegno allorché la crede prossima alle nozze con il nemico. D'altro canto è un innamorato tenero e sofferente, e soprattutto riconosce la superiorità morale della donna che sceglie di agire per vendicare gli oppressi e compiere il volere divino ("Odabella, a' tuoi piedi mi prostro"). Tuttavia ogni suo scrupolo etico, ogni rigore, cade di fronte all'obiettivo ultimo della sconfitta di Attila: Foresto, a differenza di Odabella, accetta il piano del traditore Foresto, poi si accorda con Ezio per attirare il condottiero unno in un tranello. Non potrà essere lui a compiere la missione celeste, perché nessuna sua azione nasce da un'iniziativa propria, ma sempre appoggiando un progetto altrui; l'unico suo atto è la proclamazione della rinascita della civiltà dagli insediamenti dei profughi nella laguna: qui trova un senso il rigore dei suoi valori, che invece non riescono a concretizzarsi nella lotta contro l'oppressore. Non per nulla la citata, patriottica, Accademia ha proprio inizio con la cabaletta di Foresto che chiude il prologo intonata da cavourVittorio Emanuele e Garibaldi, con gli Italiani di ogni provincia. A lui spetta di scegliere il sito per l'approdo dei profughi di Aquileja, di proclamare il riferimento alla "croce" e all'"altar" e il legame con la natura "in quest'incanto di cielo e mar", di stabilire in sostanza principi fondatori e punti di riferimento che, nel 1846, sembrano ammiccare al neoguelfismo di Gioberti. Sebbene Verdi non aderisse a questa corrente risorgimentale, al momento dell'ascesa al soglio pontificio di Pio IX, che tante speranze andava destando, lo sguardo del patriota poteva volgersi a San Pietro con indubbio, fondato interesse.


 

Galeotto fu Rossini

Dell'incontro fra Rossini e il giovane Verdi, propiziato dal pittore Deogratias Lasagna, il giovane bussetano riferì vividi, entusiastici ricordi. Meno espansivo risulta il Pesarese, che tante e tante visite riceveva a Parigi e difficilmente si scomodava a lasciar traccia delle sue impressioni per ogni pellegrino. Tuttavia l'ingegno verdiano non doveva essergli stato indifferente se in una delle sue soirée propose il terzetto dell'Attila e, addirittura, schizzò per l'occasione alcune battute pianistiche dette scherzosamente " Ritournelle por l'Adagio du trio d'Attila Sans permission de Verdi". Di più fece, però, quando sollecitò al collega un occhio di riguardo verso un suo protetto, il tenore russo Nicola Ivanoff,  che a Trieste, nel 1846, si trovò beneficiato di una nuova aria per il terzo atto, “Sventurato! Alla mia vita”, irta di si bemolle a valorizzare la facilità in acuto del cantante. Parimenti, quando nello stesso anno l'opera approdò alla Scala, Foresto era un divo del belcanto romantico, Napoleone Moriani, detto il "tenore della bella morte" per la sua interpretazione di Edgardo in Lucia di Lammermoor. Anche senza le pressioni di un Rossini,Verdi non poté esimersi anche questa volta dal rimetter mano all'assolo finale dell'innamorato di Odabella e confezionare per Moriani una nuova aria "Oh dolore!". Proprio questo brano tornerà a risuonare nel teatro milanese per la produzione inaugurale della stagione 2018/2019.