Quando gli opposti turbano e attraggono

 di Carla Monni

The Cleaner di Marina Abramovič al Palazzo Strozzi di Firenze e Una testa, un volto. Pari nelle differenze di Steve McCurry al Palazzo D'Accursio di Bologna: due mostre visitabili ancora sino a gennaio 2019, che raccontano realtà e metafore di storie umane.

Bologna e Firenze, settembre 2018-gennaio 2019 – Cosa hanno in comune i lavori di un'artista serba, la cui arte ha da sempre esplorato il contrasto tra i limiti e le potenzialità di espressione del corpo e le possibilità della mente, e un fotoreporter americano che ha fatto della sua fotografia una testimonianza di conflitti internazionali, quali le guerre in Iran-Iraq, in Afghanistan e in Cambogia?

Vengono da mondi diversi Marina Abramovič e Steve McCurry, i due artisti – quasi coetanei – protagonisti delle mostre attualmente esposte a Firenze e a Bologna e che hanno raggiunto già numerosi visitatori. Lei – nata nella soffocante Belgrado comunista – emblema della performing art, lui – nato nei sobborghi di Philadelphia – maestro della fotografia contemporanea. Le loro opere – provocatorie e avvincenti – sono sinonimo di curiosità estrema, di un minuzioso studio dell'umano e di un'assidua ricerca di tradizioni e culture. Sono artisti senza confini che si sono spinti con la loro arte, diventata un punto di riferimento per un numerosissimo pubblico, il quale nelle loro opere riconosce un modo trasparente e autentico di guardare alla storia e all'attualità, e che in qualche modo si identificano con essi.

Lei – controversa – esordisce come pittrice figurativa e poi astratta, lui – spavaldo – dopo la laurea in teatro si interessò alla fotografia quando iniziò a realizzare gli scatti per un quotidiano locale. Pluripremiati, avventurosi e viaggiatori del mondo, a partire dagli anni Settanta hanno rappresentano immagini e performance: la Abramovič attraverso l’utilizzo esplicito del proprio corpo e McCurry attraverso lo sguardo diretto dei luoghi dove si scatenano conflitti di popolazioni obbligate a scappare dalle proprie terre.

Ciò che li accomuna è in primis una messa in scena della sofferenza, manifestata in maniera diversa e multiforme per stile e comunicazione, ma in entrambi estesa in un determinato spazio e tempo.

Le performance dell'artista serba richiedono non solo una forza emotiva e fisica di chi le mette in scena e di chi le osserva, ma si appoggiano a un uso performativo del corpo, spesso sarcastico e masochistico. Si pensi a The Onion (1995) in cui l'Abramovič addenta un'intera cipolla cruda fino a mangiarla totalmente, rappresentazione dal forte carattere simbolico dell'angoscia della vita, che sfocia in una catarsi finale, e in cui il pubblico assiste come per sfida a guardare la scena, cercando di resistere a un senso di disgusto assieme all’artista. O Luminosity (1997) in cui per trenta minuti la performer, nuda, resta in equilibrio “a stella” su un sellino di bicicletta, controllando movimento, ritmo e gestualità, simbolo che la spiritualità può vincere sulla fisicità corporea.

Mentre nelle sue performance l'Abramovič mette alla prova il proprio corpo – metafora spesso di amarezza –, nelle opere di McCurry il corpo umano è una chiara raffigurazione della disperazione, che non richiede però alcuna estremizzazione. L'artista americano infatti ritrae storie di sopravvivenza, cattura corpi – con segni e cicatrici indelebili – di uomini, donne e bambini che vivono quotidianamente nella povertà e terrorizzati dalla guerra. Sono ritratti attoniti in cui è evidente la stanchezza nelle rughe di una donna cubana, lo spavento negli occhi di un bambino di Mumbai solito a chiedere la carità, o ancora lo sgomento di Punkti, la figlia di un pastore nel Rajasthan, abituata a vivere sotto le stelle, rimanendo vicino ai suoi animali. Ma sono anche sguardi di speranza, come quella negli occhi smeraldo di colei che è diventata l’icona di un nuovo “orientalismo”, non più coloniale ma globalizzato, la ragazza afghana. O sorrisi, come nel caso dell’uomo intento a salvare la sua macchina da cucire – dopo aver perso tutto – a causa di un monsone che ha colpito il suo Paese.

Circa 40 immagini – rubate o cercate – potenti, eloquenti e vive, dove si stagliano dolori, paure e dove si celebra la bellezza del genere umano in tutte le sue sfaccettature. Dall'America Latina sino all'Africa per poi dirigersi verso l'Asia, lo spettatore diventa parte integrante dell'esposizione, grazie anche alla sua immagine riflessa negli specchi installati tra una scatto e l'altro, pensati da SudEst 57 e Biba Giacchetti che ne hanno curato l'allestimento. Attraversando ben sei Continenti il visitatore può ammirare un tripudio di colori – dalle tinte intense di giallo zafferano, rosso ciliegia, nero corvino, oro martellato, verde petrolio – di culture contemporanee, di tradizioni antiche, di anime e volti umani che parlano con il proprio corpo, invitando al rispetto e al boicottaggio di razzismo, pregiudizio e intolleranza.

Quelle stesse antiche tradizioni che nell'Abramovič sono legate in particolar modo al suo mondo balcanico, espresse in opere come in Balkan Erotic Epic (2005), costruita sulla base dei suoi studi sulla cultura popolare e sull’uso dell'erotismo.

Cruciali inoltre, sono la continua ricerca esistenziale e le tematiche legate alla guerra, come gli scatti di profughi ed emigrati nel caso del lavoro di McCurry, o rappresentate dall'Abramovič in opere come Balkan Baroque (1997) – performance premiata con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia – in cui per una decina di giorni l'artista rimase in un sotterraneo a lavare centinaia di ossa bovine insanguinate, metafora delle migliaia di vite spezzate nella sua patria.

Due scenari lontani tra loro insomma, ma entrambi carichi di umanità, intensità e spiritualità, e in cui i due artisti riescono a risvegliare nel pubblico anche i sentimenti più nascosti. In questo modo le immagini di McCurry creano un'empatia visuale con gli spettatori, una sorta di visual storytelling con l’obiettivo di garantirgli un’esperienza avvolgente e totalizzante. Mentre le performance dell'Abramovič rivendicano nello spettatore un'azione. Si pensi aImponderabilia,rappresentata nel 1977 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna – assieme all’artista tedesco, che è stato anche suo compagno di vita, Ulay –, dove il pubblico era costretto a entrare nel museo oltrepassando i corpi dei due artisti. Nudi, immobili e uno di fronte all'altro, l'Abramovič e Ulay facevano da colonne a uno stretto passaggio, in cui il visitatore aveva l'obbligo di scegliere se rivolgere il suo sguardo verso l'uno o l'altro, poiché impossibilitati a guardare davanti a loro.

Quella di McCurry e dell'Abramovič è un'arte impressionante, che pone domande e fa riflettere, sdoganatrice di tabù; un'arte che racconta la storia senza perdere di vista l'attualità e che mette al centro l'uomo e le sue debolezze. D'altronde, per dirla alla Charles Bukowski, «la gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto». A Bologna e a Firenze il biglietto si paga, almeno sino a gennaio 2019, ma ne vale davvero la pena!