Il compositore polacco si è spento nella sua Cracovia

di Luca Fialdini

Un ricordo del compositore e direttore d'orchestra Krzysztof Penderecki (Dębica, 23 novembre 1933 – Cracovia, 29 marzo 2020)

Serialista, postserialista, avanguardista, sperimentatore, reazionario: queste sono alcune delle etichette che, nel corso dei decenni, sono state cucite addosso a Krzysztof Penderecki, spentosi il 29 marzo nella sua Cracovia all'età di ottantasei anni. Al netto della giustezza o meno delle molte definizioni, il loro insieme fornisce un ritratto quanto mai veritiero: con Penderecki muore anche uno dei più poliedrici interpreti del secondo Novecento, che ha saputo fissare sulla carta come pochi altri le inquietudini e le paure che hanno attraversato il Secolo breve.

I suoi esordi sono legati alla scuola di Darmstadt, i cui echi permarranno a lungo nel linguaggio compositivo, ma si tratta solamente della prima tappa di un percorso artistico e umano contorto, mutevole, un percorso in cui lo sguardo del compositore ha abbracciato molteplici prospettive, mostrando apertamente tutta l’irrequietezza intellettuale di Penderecki: se da una parte presenta lavori come la Polymorphia per 48 archi (1961) o la Trenodia per le vittime di Hiroshima per 52 archi (1961), che rimandano ancora alla linea della scuola di Darmstad e presentano una particolare tecnica d’impiego degli archi, che producono effetti simili a quelli della musica elettronica, dall’altra compone il Capriccio per oboe e undici archi (1965), scritto - per ammissione dell’autore stesso - nel suo «periodo di ricerca musicale in reazione al neoclassicismo di derivazione stravinskiana». Negli anni ’80 Penderecki addirittura abbandonerà i lidi della musica d’avanguardia, andando a recuperare alcune forme classiche (sebbene proposte secondo la propria visione), componendo una musica che egli stesso definiva «più mia».

Se la prospettiva da cui Penderecki osserva e studia il mondo è in continua mutazione, due punti-cardine rimarranno fissi nell’arco della sua vita: il primo è l’attenzione per una ricerca materica, tale da trascendere ogni radicalismo strutturale, e tesa alla più diretta, pura, comunicazione espressiva; il secondo è la grande sensibilità religiosa, che impregna ogni pagina del suo catalogo, a cominciare dalla grandiosa Passio et mors Domini Nostri Jesu Christi secundum Lucam (1965, vincitrice del Premio Italia nel 1967), passando per il Dies Irae (1967), la «sacra rappresentazione» Paradise lost (1975), basata sull’omonimo poema di John Milton, Il risveglio di Giacobbe, il Magnificat (entrambi), fino ad approdare a tutta la produzione successiva.

Il tema del sacro, come già detto, percorre trasversalmente la produzione di Penderecki, ed è interessante perché è perfettamente in linea con la sua musica: la religiosità è istintiva, non è ponderata o - peggio - costruita, esattamente come le sue composizioni. È anche una religiosità di derivazione cattolica, che conferisce ai suoi lavori una dimensione di universalità, di drammaticità collettiva, tanto nel dolore quanto nella redenzione; tale dimensione è sempre stata parte essenziale dei lavori di Penderecki, e nel secondo periodo della propria attività si è ripresentata con rinnovato interesse: tra i primi - significativi - esempi di questa nuova stagione si annoverano le composizioni per coro a cappella Agnus Dei (1981) e il finissimo Canto del Cherubino (1986), la Sinfonia n. 7 “Le sette porte di Gerusalemme” (1996) e soprattutto il Requiem polacco (1984). Nell’opera di Penderecki troviamo così ricerca materica e religiosa, ciò che è tangibile e l’ultraterreno, la voce delle tenebre e della luce, una serie di dicotomie che riassume efficacemente il suo universo poetico

Penderecki ha anche conosciuto una certa notorietà presso il grande pubblico grazie a due cult del cinema, L’esorcista (1973) di William Friedkin e Shining (1980) di Stanley Kubrick, in cui i due registi si sono avvalsi di alcune sue musiche (Kanon per archi e nastro magnetico, Jutrznia, il Concerto per violoncello n. 1, il Quartetto per archi n. 1, Polymorphia e alcuni estratti dall’opera I diavoli di Loudun), tutte degli anni ’60, vale a dire del periodo in cui Penderecki sviluppava il filone più cruento del proprio periodo d’avanguardia e che oggi si è più stabilmente radicato tanto nel repertorio concertistico, quanto nell’immaginario collettivo.

Ridurre l’intero corpus di Penderecki alle composizioni di questo gruppo sarebbe davvero ingiusto, perché significherebbe appianare tutte le irregolarità, i mutamenti e i cambi di rotta di questo autore polimorfo alla sola fase giovanile, rifiutando quindi la maturazione del suo processo artistico, un periodo assolutamente fecondo che ci ha regalato titoli come le opere La maschera nera (1986) e Ubu Rex (1991), l’Inno a San Daniele (1997), la Ciaccona (2005) in memoria di Papa Giovanni Paolo II desunta dal Requiem polacco, il Largo per violoncello e orchestra (2003), le Sinfonie dalla n. 2 alla n. 8 (1980-2005) e le due Sinfoniette (1990-1994), la stragrande maggioranza dei Concerti e Concerti grossi, in sostanza la parte più compiuta della sua produzione, il suo lascito a noi che rimaniamo.