Violenza e sacro da Polissena a Liù

di  Andrea R. G. Pedrotti Carrara

Personaggio apparentemente marginale in un panorama letterario nel quale non è sopravvissuta nessuna opera che la veda protagonista, la principessa troiana Polissena è, in realtà, figura assai interessante sotto diversi punti di vista e per più aspetti paragonabile alla pucciniana Liù, che a sua volta arriva a contendere un ruolo drammaturgicamente fondamentale all'eroina eponima Turandot.

Nella tragedia greca capita di ritrovare caratteri appena accennati, ma che celano nei pochi versi a loro dedicati un'incredibile intensità di significati, che non sempre si ha la pazienza di analizzare e raccontare a dovere, a causa delle frammetarietà delle fonti a disposizione che li pone irrimediabilmente - per ora - a ricoprire un ruolo subalterno da parte degli studiosi.

Molti ricordano Andromaca, Elena, Ecuba, Penelope, Achille, Agamennone, Neottolemo, Odisseo, ma si scordano di personaggi come Polissena. Purtroppo nessuna tragedia a lei dedicata è giunta fino a noi, almeno al momento. L'unico modo per ricostruire le vicende che caratterizzarono l'esistenza della figlia di Priamo è lavorare, alla maniera degli antichi rapsodi, sulle differenti testimonianze a disposizione, anche assai distanti fra loro e che per Polissena spaziano da Euripide fino a Seneca.

Conviene, come omaggio alla giovane principessa troiana, ora ricostruire, secondo tale prassi, una sequenzialità della vita di Polissena, almeno la vita che giunge a noi attraverso il mito.

Polissena, una delle figlie di Priamo, re di Troia, era legata da un affetto assai profondo, a tratti apparentemente incestuoso, al fratello Troilo. Allo scoppio della guerra Triolo fu inviato con gli altri troianai a difendere la città dall'assedio argivo. Secondo una profezia, la morte di Troilo prima del compimento dei vent'anni avrebbe condotto alla caduta di Troia e, per questo, Achille andò a cercare il giovane, uccidendolo e mutilandone il cadavere per il suo rifiuto a un consesso carnale preteso dal figlio di Peleo. L'assassinio avvenne nel tempio di Apollo Timbreo, territorio franco nel conflitto fra achei e troiani. Nel medesimo tempio Achille aveva scorto, in precedenza, Polissena offrire, assieme alla madre Ecuba, un sacrificio al dio, rimanendo profondamente affascinato dalla giovinetta troiana.

In un successivo, celeberrimo, duello Achille uccise anche Ettore, fratello di Troilo, costringendo il vecchio Priamo a domandare la restituzione del cadavere del primogenito. Achille accettò, a patto che il riscatto del corpo di Ettore fosse pagato in altrettanto peso d'oro. Polissena decise di offrire se stessa in pegno, assieme ai preziosi posti sul piatto della bilancia dai troiani. Achille accettò e volle sposare Polissena nello stesso tempio di Apollo Timbreo, ma è lì che sarà Polissena a condurlo a morte, grazie al fratello Paride che, ottenuta la giusta informazione da Polissena medesima, seppe trafiggere il tallone del figlio di Peleo. Così Achille muore, nello stesso luogo ove vide Polissena per la prima volta e ne fu avvinto, nello stesso luogo ove avrebbe voluto sposarla, nello stesso luogo sacro che aveva profanato col sangue di Troilo e che ora era era bagnato dal suo. Il destino dell'eroe argivo ha, così, compimento, ma la pace non sarebbe mai giunta a Polissena, senza il sacrificio.

Con la caduta della città, i comandanti fra gli argivi si spartirono le donne troiane, Elena tornò all'antico marito Menelao, Agamennone scelse Cassandra, Odisseo Ecuba e Neottolemo Andromaca, dopo aver ucciso, scaraventandolo dalle mura, Astianatte, il figlio di lei e del defunto Ettore. Anche Achille pretendeva una donna come bottino di guerra e apparve, sotto forma di spettro, a richiedere che gli fosse concessa Polissena.

Riguardo il sacrificio della troiana le fonti concordano, probabilmente prendendo ispirazione, per quanto riguarda Seneca, non solo da Euripide ma da una Polissena di Senofonte di incerta autenticità e, purtroppo, mai giunta sino a noi.

Polissena venne preparata per quello che, nella forma, doveva essere un rito coniugale, con tutti i rituali preliminari a uno sponsale affidati a Elena. Nessuna delle fonti giunte fino a noi racconta direttamente che cosa accadde: se ne parla nelle Troades di Seneca, nelle Troiane di Euripide, ma chi fornisce meglio la descrizione è l'araldo Taltibio nell'Ecuba, sempre di Euripide, la tragedia che a Polissena concede il maggior numero di versi.

Taltibìo narra di Polissena condotta alla tomba di Achille da Neottolemo. Qui il figlio di Achille offrì libagioni al defunto padre e si apprestò a uccidere la fanciulla, fino a quel momento tradotta a forza e descritta da Euripide come simile a una giumenta. Fu in quell'istante che Polissena chetò il dibattersi e si rivolse agli Achei domandando che le fosse concesso di morir da regina ed ella avrebbe offerto se stessa al fendente, perché mai avrebbe potuto accedere al regno degli inferi da schiava. Tutti gli argivi plaudirono a Polissena e Neottolemo ordinò che fossero sciolti i ceppi. La giovane, dunque, strappò il peplo fino all'ombelico e, rivolgendosi a Neottolemo, lo intimò a scegliere la gola o il petto. Polissena venne colpita dal figlio di Achille e, mentre si accasciava a terra, badò a ricomporre l'abito nuziale che le era stato imposto. Un rivolo del suo sangue - minuziosamente descritto in molte fonti - bagnò il terreno. Esalato l'ultimo gemito molti fra gli achei resero omaggio alla fanciulla sacrificata, intimando chi non faceva lo stesso a imitarli.

Questa macabra concezione delle nozze, anche nello schema rituale, è ricorrente in molte culture: la ritroviamo nelle leggende ebraiche, parimenti a quelle dell'estremo oriente sino-giapponese.

Nella morte di Polissena troviamo il cosiddetto concetto del doppio-mostruoso, come accade in forma ancor più esplicita a Ifigenia, anch'esso iconico, nella similitudine, di uno schema sacrificale, parimenti a una ritualità coniugale. Sebbene la verginità non fosse una virtù, semmai un indice di inesperienza, per gli antichi, nel caso di una “sposa cadavere” viene utilizzato il simbolismo del rivolo di sangue che sgorga in seguito alla penetrazione della lama, in esplicito e volontario parallelismo con un atto sessuale e la rottura dell'imene. Il consesso carnale non può avvenire in praesentia fisica di entrambi i coniugi, perciò l'amplesso avviene per procura della lama e il sangue sul terreno ne è naturale conseguenza e prova, non necessaria in un matrimonio fra vivi.

La concettualità di Violenza e Sacro è stata considerata come atto sacrificale originata da una pulsione e che nel sacrificio vero e proprio vede il proprio sfogo, lo stesso che Freud indicava nella sessualità.

Se pensiamo all'ultima parte del secolo XIX e al principio del XX, troviamo un'autentica riscoperta della classicità nelle sue tematiche più autentiche e meno conformiste di quelle che si riscontravano circa un secolo prima, specialmente nelle forme d'arte pittorica e teatrale.

Esiste un'opera italiana che più d'altre rimanda a molte delle tematiche sopracitate, quasi richiamata, con molti secoli d'anticipo da una frase che Euripide assegna al coro nel finale dell'Ecuba: “La speranza mendace ti inganna, ti guida a un Averno fatale”, ossia “la speranza che delude sempre”.

Giacomo Puccini aveva uno stile ben definito, ma non un'orchestrazione definita che adattava alla bisogna drammaturgica. Nel caso di Turandot le infuenze dei lavori di Richard Strauss sono evidenti e sono utilizzate in un'opera che fa della leggenda e del mito, della profezia, del rapporto fra il mondo dei vivi e dei morti struttura portante, una struttura che troviamo sovente sia nei lavori di Strauss, sia nella tragedia greca.

Torniamo a Polissena, perché è in Liù che ritroviamo uno dei personaggi più simili della modernità. Entrambe proteggono un anziano monarca decaduto o prossimo alla disfatta, che per entrambe rappresenta una figura paterna, anche se non legata in entrambi i casi a vincoli di sangue. Entrambe meditano un'azione che le porterà a morte certa, entrambe sono la figura femminile di maggior carattere nelle rispettive drammaturgie. Polissena si contrappone alla madre Ecuba, quasi consolandola della sorte a cui va incontro. Liù quasi rimprovera Calaf e ne segue -non necessariamente costretta- nel suo peregrinare l'anziano padre. L'altra figura femminile, Tuandot, di carattere ne dimostra ben poco, schiacciata dalle profezie degli antenati, esattamente come Ecuba che sognò la fine di Troia cagionata dal frutto del suo ventre (Paride), l'uccisore di Achille in accordo con Polissena. Achille che uccise Troilo, colui che, se fosse morto prima dei venti anni, avrebbe consentito la caduta di Troia. Achille, che questa caduta mai avrebbe potuto vedere se fosse rimasto vivo, fu ucciso da Paride e la profezia si compie con la caduta di Ilio dopo dieci anni d'assedio e si compie grazie al sacrificio di Polissena che fa da connessione a tutto questo, al pari di Liù. Se Liù avesse rivelato il nome di Calaf, egli sarebbe stato giustiziato e l'assedio a Turandot si sarebbe protratto, come quello alla città di Troia.

Alcune fonti ritengono che Polissena potesse ricambiare l'amore di Achille, altri che ella nutrisse un incestuoso affetto per Troilo. Sicuramente la descrizione dei caratteri che fa la tragedia greca si mantiene inquadrata in schemi piuttosto rigidi e codificati, rispetto all'evoluzione che troviamo, restando sul tema specifico, in una autore latino come Seneca, quindi è piuttosto arduo ritrovare un sentimento che vada oltre un sistema di valori, oltretutto privi una tragedia a Polissena specificatamente dedicata, ma si possono certamente fare più ipotesi interpretative, tutte plausibili.

Liù è una successiva evoluzione, incredibilmente simile al modello originale; ella prova un sentimento non corrisposto verso Calaf, che la porta a un continuo sacrificio, presumibilmente derivato da una pulsione amorosa priva di uno sfogo. È da notare, infatti, come lei soffra il fatto che il principe non la ricambi e come appaia ben più fredda nella decisione quando le si prospetta l'opportunità di dare effettivo sfogo a questa pulsione con un sacrificio. Polissena fa lo stesso: soffre per la morte di Troilo, ma affronta con straordinaria freddezza tutte le azioni che ne conseguono e tutte le azioni sono volontarie, poiché è una sua libera scelta, per esempio, offrirsi ad Achille come riscatto del cadavere di Ettore.

Il momento più emblematico è proprio la morte di Liù che si sviluppa su tre momenti specifici, esattamente come quella di Polissena. Liù è sottoposta a una tortura (i ceppi con cui Polissena è trascinata all'altare) e rischia di essere uccisa come al pari di un animale (torna il doppio mostruoso, sebbene non venga esplicitamente citato). Ora accade il momento meno realistico dal punto di vista dell'azione vera e propria, ossia la possibilità di rivolgersi ai proprio carnefici (“Tu che di gel sei cinta”) , dopodiché si compie il rito. Liù compie un atto d'amore salvando la vita a Calaf, penetrandosi con un pugnale, secondo la sua volontà e il suo desiderio, quindi non da schiava (come Polissena) e compie, così, la medesima ritualità descritta per la figlia di Priamo. Da notare che muore con dignità, senza rivolgersi mai a Calaf che considera perso, sconfitta da Turandot nella tenzone d'amore. Polissena, allo stesso modo, inaugura il suo discorso agli Achei, nomandoli come i distruttori della sua città e della sua famiglia, con dignità, pretendendo dignità, ma senza ostilità nei loro confronti, parimenti a Liù.

Un ultimo parallelismo è la terza parte del sacrificio: Liù muore per sua mano suscitando un turbamento in Ping, Pong e Pang, assai simile a quello che Polissena suscita negli argivi tutti. Ping, Pong e Pang -senza voler essere dissacranti- rassomigliano molto a due figure che intervengono con ostentata malvagità nella vicenda di Polissena. Odisseo in Euripide è di una fredda crudeltà, che, in alcuni versi -specialmente nel dialogo con Ecuba prima del sacrificio di Polissena-, rasenta un subdolo sadismo di gran lunga superiore a quello di Ping, Pong e Pang in Puccini. Odisseo, infatti, in Euripide, non è un personaggio tutto sommato positivo come nel secondo poema omerico, ma un monarca dedito all'utilizzo dell'astuzia per l'inganno, senza particolari meriti d'onore sul campo di battaglia. Tale ingrato compito viene assegnato da Seneca a Pirro (il nome latino di Neottolemo), che in Euripide a un ruolo più marginale.

Questa sommaria analisi fra due personaggi che, apparentemente, non hanno nulla in comune, è solo un'ulteriore prova di come i classici vivano ancora fra noi, non solo nell'arte, basta saperli e volerli cercare in un'umanità che muta le forme espressive, ma non cambia nelle strutture dell'animo.