Diamo i numeri

 di Giuseppe Guggino


Il 7 dicembre è il giorno dell’anno nel quale anche chi non si è mai interessato all’opera vede al telegiornale almeno un brandello di spettacolo con l’inevitabile strascico sui minuti di applausi, sulle presenze e assenze in platea, sulle proteste fuori e dentro. La percezione che si rischia di averne è tanto distorta da cosa è realmente uno spettacolo operistico che probabilmente i più dei non melomani si scandalizzerebbero nel sapere che tutto questo baillame è - in larghissima parte - a carico dei contribuenti; probabilmente le cifre del teatro d’opera in Italia non sono note nemmeno ai melomani osservanti, per cui ogni tanto è bene “dare i numeri”, possibilmente nella loro interezza e complessità. Buona lettura.

Leggi la seconda puntata Fondazioni liriche: comparare e dividere

«L'attività dell'impresa melodrammatica è evento statisticamente improbabile quanto il comportamento piccolo borghese delle famiglie reali» è l’ironico convincimento di un noto manager culturale vergato nelle pagine di un quotidiano nazionale negli anni ’90 e, partendo da queste premesse ideologiche, non è difficile pronosticarne gli esiti gestionali; con altrettanta ironia si potrebbe chiosare che un suo illustre predecessore nel medesimo teatro, un tal Domenico Barbaja, magari assistito dal santo protettore del gioco d’azzardo, sfidava puntualmente le leggi della statistica, avendone peraltro puntualmente ragione. In effetti, però, dalla prima metà dell’ottocento, nel giro di un secolo, il mercato operistico subisce radicali cambiamenti sia in termini di offerta che di domanda. Almeno fino agli anni ’20 del ‘900, i contributi pubblici al teatro d’opera erano minimi, a fronte dell’attività di “impresari” (in genere legati al territorio di appartenenza) dai Visconti di Modrone alla Scala fino ai Florio al Massimo di Palermo; è primo dopoguerra che, con il contributo decisivo del “blocco sociale fascista” degli inizi (tra le cui fila si candida, sebbene con esito fallimentare, anche Arturo Toscanini), la Scala si tramuta in Ente pubblico (1921) seguita dal Teatro dell’Opera di Firenze e di Roma (1932) e, infine, con il Regio Decreto Legge 3 febbraio 1936 n. 438 convertito in Legge n. 1570 del 4 giugno 1936, da tutti gli altri teatri d’opera principali del territorio nazionale.
Nel secondo dopoguerra, confermato in Costituzione l’impegno dello Stato a sostegno della cultura, occorre che il sistema degli Enti teatrali galleggi per 21 anni tra vari provvedimenti temporanei, prima di arrivare ad un assetto organico del sistema di governance (come si direbbe oggi) e di finanziamenti pubblici che è la legge n.800 del 14 agosto 1967. Il dispositivo legislativo, meglio noto come “Legge Corona”, sancisce “l’attività lirica e concertistica di rilevante interesse generale” e opera una suddivisione dei teatri d’opera e istituzioni concertistiche in undici “Enti autonomi” più due “Istituzioni concertistiche” principali (CAPO II, art. 6) e “teatri di traduzione” e “istituzioni concertistico orchestrali” minori (CAPO III, art. 28), assegnando alle prime un contributo annuo di 12 miliardi di lire annui e alle seconde un contributo variabile funzione del gettito dal canone RAI e di altre coperture finanziarie. Non manca ovviamente la prima indulgenza plenaria: all’art. 53 tutti i debiti consolidati al 1966 si trasformano in mutui con ammortamenti in 9 anni con interessi totalmente a carico dello Stato.
Nel 1996-’98 teatri di cui all’art. 6 della Legge Corona si trasformano in Fondazioni Lirico-Sinfoniche con la variazione dell’istituzione Palestrina, divenuto negli anni “Teatro Lirico di Cagliari” e con l’aggiunta del Petruzzelli di Bari (dal 2008) in “promozione” dalla categoria “teatri di tradizione”, diventando così 14. Non c’è mese che passi in cui un Ministro non si lasci sfuggire che 14 fondazioni sono troppe, che con la cultura non si mangia, che la conversione in “Fondazioni di diritto privato” non ha funzionato… il fatto è che una dichiarazione estemporanea d’agenzia non basta a fotografare una situazione critica per varie ragioni, cosa che invece si cerca di fare qui di seguito, con una valanga di numeri.
Partiamo dall’osservare le quantità; il grafico seguente mostra l’andamento del contributo statale per i 13 “teatri importanti” della legge Corona dal 1967 al 2001 confrontandolo, per termine di paragone, allo stanziamento iniziale 1967 di 12 miliardi di lire rivalutati anno per anno secondo la serie storica dei tassi di inflazione ISTAT. Si vede come il contributo statale (in termini reali) sia raddoppiato a fine anni ’70 e praticamente triplicato nei tre anni ’84-’86, il periodo nel quale, per garantire una regia unitaria ai contributi per lo spettacolo dal vivo, si istituisce il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) con una aliquota iniziale destinata ai “13 importanti” pari al 43%, cresciuta poi al 47% ai giorni nostri.

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L’andamento del FUS destinato ai “13 importanti” subisce un sostanziale arresto nel 2002 e una sostanziale stabilizzazione nel decennio successivo, come si vede dal grafico seguente dove, oltre al FUS destinato ai 13 (14 dal 2010, con il Petruzzelli in aggiunta), sono rappresentati i contributi aggiuntivi straordinari (già, perché il Fondo Unico non è propriamente “unico” come semantica vorrebbe) destinati annualmente alla Scala e a all’Opera di Roma in relazione alla loro importanza, nonché il contributo annuale aggiuntivo al Carlo Felice (dal 2004) che è notoriamente “messo male” e un contributino aggiuntivo a tutti per la vigilanza antincendio.

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Per chi non avesse dimestichezza con i grafici e preferisse i valori tabellati ecco, nell’ordine, il riparto del FUS nell’ultimo decennio, nonché la distribuzione degli extra-finanziamenti statali.

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La somma delle due tabelle fornisce, per anno, l’entità ripartita del contributo statale complessivo.

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Il grafico seguente propone una cumulazione dei contributi statali (per gli ultimi 11 esercizi), ripartiti per singola fondazione in maniera da individuare immediatamente chi ha avuto di più e chi di meno; il valore del Teatro Petruzzelli non fa testo in quanto attinge a questa porzione di FUS solamente dall’anno 2010.

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Tornando ai dati del solo 2012, un investimento di 201 milioni di euro nei maggiori centri operistici italiani in un anno praticamente è la somma che ci vuole per costruire una decina di chilometri di Autostrada Salerno - Reggio Calabria (l’equivalenza non è seria in quanto il costo di un’infrastruttura dipende fortemente dalle opere d’arte necessarie tra gallerie e viadotti, ma l’ordine di grandezza è comunque sufficiente per una visualizzazione tangibile dell’entità economica), ossia un investimento pro-capite di 3,39 € a cittadino, sostanzialmente meno della metà di quanto costa all’anno il Senato della Repubblica (8,78 €), giusto per riferirlo al più inviso dei costi della democrazia. Messa così, in effetti, vedere “come va a morire la baldracca”, per citare la fortunata e calzante parodia di un ex ministro dell’economia, non sembrerebbe poi così insostenibile.
E invece il conto è sbagliato in difetto, per tante ragioni. La prima è che ai contributi statali tutte le Autonomie locali aggiungono i loro contributi quindi, tra Comuni, Provincie (che adesso non contribuiscono più) e Regioni, ai 201 Mln€ del solo 2012 dovremmo sommarne altri 110 Mln€ circa, e parliamo solamente dei maggiori centri operistici del territorio nazionale, lasciando fuori importanti realtà con complessi stabili. I conti sarebbero questi se tutti i magnifici 14 finissero l’esercizio in pareggio e se avessero un patrimonio netto stabile che non necessitasse di continue ripatrimonializzazioni o ricapitalizzazioni. Inoltre è ormai praticamente impossibile cumulare quanto lo Stato ha speso caricandosi gli interessi passivi sui mutui stipulati dai teatri dal 1967 fino all’istituzione del FUS e, se mai si riuscisse a fare un conto, si dovrebbe aggiungere la spesa una tantum della moratoria di quasi 300 miliardi di Lire del 1984 che ha fatto transitare al Ministero del Tesoro tutti i debiti accumulati dai magnifici 13 fino ad allora. Quindi alla domanda “quanto ha investito (o speso) lo Stato nella lirica?” la risposta più seria dovrebbe essere “boh?”; e non è uno scherzo, purtroppo.
La riflessione che l’opera sia una forma d’arte per sua natura dispendiosa in quanto necessita la presenza di un numero di lavoratori in rapporto ai fruitori di circa 1 a 10÷15 ad ogni alzata di sipario porta negli anni ’90 alla consapevolezza del bisogno di nuove forme di mecenatismo (a dire il vero, già contemplate nella Legge Corona all’art. 16 lettera b), possibilmente coniugate a logiche di ottimizzazione dei costi. L’idea è quella di trasformare gli Enti in un’entità giuridiche di diritto privato in cui, però, la stragrande maggioranza dei soci siano pubblici; nasce così l’idea della “Fondazione” organizzata con un consiglio di amministrazione (CdA) i cui membri (in rappresentanza dello Stato centrale, della Regione, del Comune e degli eventuali soggetti privati) nominano un sovrintendente avente pieni poteri esecutivi esercitati dietro approvazione del CdA. Praticamente è un cambiare tutto per mantenere la medesima governance dei vecchi Enti lirici, giacché il know-how aziendale che si era certi i privati avrebbero portato in dotazione praticamente non è mai arrivato; anzi, i privati, come vedremo nei numeri non sono arrivati affatto e, spesso il know-how aziendale richiesto ai sovrintendenti si è tradotto omofonicamente in un “no-how”, almeno in un numero di casi straordinariamente alto. L’unica vera modifica sostanziale introdotta con il decreto legislativo n. 367 del 1996 è l’applicazione alle fondazioni del bilancio civilistico, con l’obbligo di deposito alla Camera di Commercio competente territorialmente: la misura che consente le comparazioni seguenti, ad esempio.
Prima di esaminare comparativamente i conti esercizio, le voci aggregate di spesa, gli stati patrimoniali, dei “magnifici 14”, preveniamo i rilievi di chi, temendo confronti, storcerà il naso in virtù del fatto che ogni teatro ha la sua specificità, il suo bacino di pubblico e altre pedanterie consimili: sì, tutte potenziali osservazioni di raro acume, ma compariamo ugualmente. Si esclude dalla comparazione l’Accademia di Santa Cecilia per specificità dell’offerta (che ha una situazione artistica invidiabile e una situazione economica discretamente tranquilla, grazie alla presidenza di Bruno Cagli) e l’Arena di Verona, per la specificità di numero di spettatori a recita all’aperto. Tutto il resto è comparabile, con buona pace dei sottilizzatori.


L’esame comparato della struttura dei contributi articolati in “dallo Stato”, “dagli Enti locali” e “dai Privati” è sintomatica della scarsa attrattività di una Fondazione rispetto a privati e sponsor.

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Dai contributi cumulati si osserva che il campo annuo all’interno del quale ogni teatro deve muoversi è piuttosto ampio: dai 59,7 Mln€ annui della Scala ai 46,6 Mln€ dell’Opera di Roma (i più ricchi) alle cenerentole che sono il Verdi di Trieste (15,4 Mln€) e il Petruzzelli (12,9 Mln€); la media è intorno ai 26 Mln€ ed rappresenta la voce più corposa in ingresso del Valore della produzione annuo. La Scala si conferma l’unico teatro capace di finanziarsi con sponsor e sostenitori per più del 30 % (la serata Mapei sarà terribilmente cafona, ma evidentemente serve), seguono Venezia, Torino e Firenze con percentuali decrescenti tra il 15% e il 10%, mentre tutti gli altri sono abbondantemente al di sotto del 10% con Palermo fanalino di coda (praticamente al 2012, dopo l’uscita dalla fondazione dell’unico privato Unicredit, dai privati prende soltanto il 5‰ di contribuzione volontaria nelle dichiarazioni dei redditi). La Regione più generosa, invece, è la Sardegna che, assieme al Comune di Cagliari, supporta il Lirico per più del 50%.

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L’altra voce consistente in ingresso di un “Conto esercizio” è quella dei ricavi da vendite e prestazioni ossia l’incasso al botteghino, gli introiti da tournée e gli introiti ricavati dal noleggio di allestimenti propri. Ci sono altre due voci di minima entità (o che tali dovrebbero essere, salvo casi strani) ossia gli “altri proventi” (bookstore, bouvetteria, affitto spazi per conferenze) e gli “incrementi di immobilizzazioni” (che tralasciamo momentaneamente perché è quella su cui si possono fare giochi di prestigio, oggetto delle prossime puntate con esempi tratti dalla realtà, migliore di qualsiasi immaginazione).
Nel “conto” di un esercizio le voci in ingresso appena descritte sono (o dovrebbero essere) in equilibrio con quelle in uscita che sono: costo del personale dipendente (stipendi, straordinari e TFR di masse e tecnici); costo per servizi da terzi (i cachet di direttori, solisti, registi, scenografi, costumisti, compensi a complessi ospiti, compensi agli organi sociali e servizi vari esternalizzati); costi per materie prime (i materiali per i nuovi allestimenti e il materiale di consumo); costi per godimento di beni di terzi (il noleggio di allestimenti da altri teatri e il noleggio di materiale musicale); oneri diversi (IMU, Tares, Tarsu, cancelleria, brochure e minutaglia varia); ammortamenti (quote di costi sostenuti anche in esercizi anche precedenti per l’acquisto di beni a funzionalità pluriennale); accantonamenti (somme da allocare in un fondo rischi per fatti di potenziale verificabilità); le voci di costo più consistenti sono sempre le prime due, ossia il costo del personale dipendente e i servizi da terzi. La differenza tra “Valore delle produzione” (ossia gli ingressi nel bilancio) e “Costi della produzione” si chiama “Margine operativo lordo” dal quale si sottraggono ancora gli interessi da pagare su mutui e prestiti contratti e le imposte d’esercizio (oppure si sommano altri proventi variabili da caso a caso) per pervenire al “Saldo dell’esercizio”: se è positivo l’esercizio è in attivo e l’entità numerica “avanzata” si iscrive nel patrimonio netto, viceversa l’esercizio è in perdita e la somma negativa “erode” o “intacca” - come si dice in gergo - il patrimonio.



È noto che il teatro d’opera non può supportarsi con il solo incasso al botteghino, giacché “proventi da vendite e prestazioni” copre una forchetta percentuale dei costi totali di produzione variabile tra il 34,5% dell’eccellenza Scala al fanalino di coda rappresentato da Cagliari e Palermo rispettivamente con il 7,0 e 7,6%. Buone performance hanno i teatri con i biglietti più cari d’Italia che, oltre alla Scala, sono il San Carlo e La Fenice; ma si può avere una buona prestazione da incasso senza per questo ricorrere a prezzi insostenibili per i biglietti: basta lavorare tanto e bene, ed è il caso del Regio di Torino al 25,3%. Ovviamente qui si potrà tirare fuori la specificità sociale ed economica dei territori, dei contesti, tutte le contestualizzazioni del caso: va bene, vediamo i numeri.

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Non siamo i soli a guardare così i numeri: con cadenza (in genere) biennale la Corte dei Conti vaglia i bilanci delle fondazioni e calcola tre indici di produttività (e questo è il primo dei tre), poi trasmette la relazione finale ai presidenti di Camera e Senato, nella speranza che qualcuno la legga.
Per quanto riguarda i costi, invece, occorre osservare che la contrazione dei finanziamenti pubblici negli ultimi 10 anni ha ridimensionato in una certa misura lo star-system che a fine anni ’90 aveva toccato e superato i confini dell’immoralità e dell’irrazionalità. Poteva capitare nel 2000 di imbattersi in un’Anna Bolena nella quale il soprano nel ruolo eponimo, per quanto modesto, fosse pagato meno della Seymour e addirittura circa la metà di Percy, nonostante questi ricorresse all’abbondante scorciatura della prima aria, all’asfaltatura dei relativi “do” e al taglio gavazzeniano dell’intera seconda aria; oppure, stesso anno e stesso teatro, compenso “onesto” ad un giovane direttore (ma già apprezzatissimo direttore ospite a Bologna, oggi entrato di diritto nello star-system) alle prese con Jenufa e compenso circa una volta e mezza per il direttore di Carmen (oggi di casa a Salerno). Lo star-system di oggi, anche grazie alle contrazioni del finanziamento pubblico, si è sgonfiato e sopravvive stabilmente in Italia solamente alla Scala (per fare un esempio, il costo del cast del Lohengrin ambrogino 2012 era di 188˙906 € a recita), mentre altrove si cerca di fare cultura puntando più su artisti dal potenziale artistico forse più interessante e certamente meno esosi: in tal senso il confronto tra i recenti Simon Boccanegra della Scala e de La Fenice è indicativo.

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Quello che invece ha caratteristiche di inelasticità nel bilancio di una fondazione è il costo del personale dipendente, ed è una quota estremamente significativa del totale. Si va dal 67% del Comunale di Bologna ai 62% di Roma e Cagliari tra i più incidenti; al Maggio Musicale con incidenza nel 2012 è del 56% (ma fino all’anno precedente si vagava anno per anno tra il 60 e il 70%!!!). Chi è riuscito negli anni recenti a mantenere il controllo sui costi dei dipendenti è certamente il Regio di Torino che si mantiene tra il 50 e il 55 % (la prestazione sul personale del Petruzzelli è un dato in assestamento, molto variabile negli anni, quindi non del tutto significativa). L’incidenza degli stipendi dei dipendenti sui costi totali è il terzo degli indicatori valutato dalla Corte dei Conti per qualificare la produttività dei Teatri; le tabelle seguenti fanno la classifica dal migliore al peggiore per l’indicatore di “ricavo” e per l’indicatore “costo personale”.

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Il personale, il contratto nazionale (finalmente rinnovato nel 2014 dopo quasi un decennio di contrattazioni), l’integrativo aziendale, il blocco del turn over, le piante organiche straordinariamente sovradimensionate varate quasi vent’anni fa, sono tutte questioni che stralciamo al momento, riproponendoci un futuro apposito articolo. Certamente si deve dire va “contro la musica” un’estremizzazione dell’approccio sindacalizzato delle masse artistiche prevalso nell’ultimo decennio; giusto per fare un esempio, se un teatro piuttosto defilato mette in piedi dei Puritani con un cast praticamente ideale (cosa che porta nella città defilata un bel po’ di turisti in più e un incasso al teatro ben superiore rispetto al suo standard medio), non è possibile minacciare lo sciopero fino al giorno prima e dover mutilare l’opera con tagli da anni ’40 perché altrimenti la durata dello spettacolo sommata alle ore di prova mattutina per un concerto (ancorché nel limite delle 122 ore mensili per gli orchestrali) avrebbe sforato di qualche minuto i limiti consentiti e avrebbe comportato oneri straordinari insostenibili per una fondazione in situazioni economiche delicate (per essere gentili).
Anche la questione “scioperi selvaggi” è rinviata al successivo approfondimento, ma è sempre legata al tipo di rapporti dei lavoratori con il management del teatro; anche qui si fa un esempio, giusto essere un po’ i passatisti. Quando a Palermo reggeva le fila del Teatro “il Dottore” (a Palermo in teatro basta dire così ancora oggi, senza aggiungere il cognome, ché chi lo ha conosciuto ha come il riflesso incondizionato di accennare un inchino) che era persona capace sia sul terreno di bilanci che sul terreno artistico (non a caso aveva sposato la più grande Alice Ford di tutti i tempi, soprano fortunatamente assiduo al Massimo tra una Beatrice di Tenda nel ’55 e una Donna Elvira nel ’71) si ha memoria di uno sciopero che comportò il rinvio della prima ripresa moderna dell’Elisabetta Regina d’Inghilterra nel ‘70 e di Der Traumgörge eseguito con orchestra dimezzata nel ‘96. Dopo che “il Dottore” fu (poco) gentilmente messo alla porta nonostante una vita di onorato e prezioso servizio (effetti collaterali dei cambi di stagione, dall’inverno alla primavera), si è perso il conto degli spettacoli saltati per sciopero a Palermo (Wozzeck nel 1998, e poi a seguire Manon Lescaut, Moses und Aron a ranghi ridotti per tutte le recite, una Norma completamente cassata per tutte le recite, innumerevoli concerti, Anna Bolena con una memorabile gazzarra in teatro, il dittico raveliano e si è certi di incorrere in numerose dimenticanze). Eppure, dalla conversione degli Enti in Fondazioni, non c’è stato un solo licenziamento né per motivi economici né per motivi disciplinari, ma soltanto esodi incentivati, non c’è stata nessuna fondazione messa in liquidazione (nonostante oltre un terzo hanno superato la soglia per ricadere nella fattispecie) e allora per cosa si sciopera? La tabella seguente mostra il personale in carico alle fondazioni al 2012; è aggiunto costo annuo procapite del singolo dipendente (valore medio di cui si potrà contestare il rigore metodologico non senza elementi di fondatezza, ma pur sempre termine di paragone tra una fondazione e l’altra).

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E vediamo cosa si produce nei teatri, almeno in termini quantitativi. La tabella seguente mostra l’elenco delle alzate di sipario distinte per tipologia; al fine di fare i relativi confronti abbiamo provato a definire un’alzata virtuale di sipario ragguagliata ad opera, omogeneizzando i balletti con coefficiente 0,60 i concerti con coefficiente 0,20 (giacché sono misti tra sinfonico corali, solo sinfonici e recital) e 0,05 per le “altre manifestazioni” (dalle formazioni da camera, al cross-over, all’attività divulgativa). Anche in questo caso il rigore metodologico potrà essere contestabile nell’arbitrarietà del ragguaglio, ma è l’unico modo per confrontare gli ordini di grandezza, quindi si procede.

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A questo punto è irresistibile la tentazione di comparare tra un teatro e l’altro quanto costa (complessivamente e di solo personale fisso) una produzione ad alzata di sipario ragguagliata; ovviamente qualcuno potrà obiettare ancora sul rigore metodologico perché alcune produzioni saranno nuove di zecca, altre provenienti da altri teatri (cose che peraltro si tende a bilanciare nell’arco di una stagione, o almeno così fa una gestione non dissennata) ma è l’ordine di grandezza quello che si vuole valutare.

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Anche in questo caso la Scala batte tutti con un costo complessivo di 720mila € ad ogni alzata di sipario; l’alzata di sipario più economica è quella del Carlo Felice, dove peraltro si registra il minimo costo del personale “a serata”. Il costo del personale più alto a spettacolo è dell’Opera di Roma (eccellenza Scala a parte) quindi è ragionevole chiedersi perché tra Roma e, ad esempio, Palermo (che hanno complessi di qualità paragonabile se non con i secondi in prevalenza sui primi) ci debbano essere differenze di 131 mila euro a serata! La risposta può essere cercata nel numero di dipendenti: a Roma sono 630, quasi il doppio di una qualsiasi altra fondazione di una fondazione ad essa assimilabile: una cosa incredibile! Le migliori prestazioni economiche dei complessi ricavate da questa valutazione sembrano appartenere a Bologna, Genova, Palermo e, manco a dirlo, Torino e Venezia. Le peggiori (presunte eccellenze a parte), manco a dirlo, a Roma e, con distacco, Firenze e Cagliari.


Passiamo quindi al confronto tra valore della produzione e costi nell’anno 2012, che riassumono in un numero solo tutte le componenti singolarmente osservate fino ad ora.

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Le eccellenze sono tali in tutto, anche nelle perdite, e infatti la Scala perde quasi 6 milioni di euro. Il Maggio Musicale Fiorentino ne perde addirittura 10,3 di milioni in un solo anno. Roma sarebbe in perdita col margine operativo ma attinge a proventi straordinari, così come fa Trieste e chiudono entrambi in pareggio di misura; poi c’è il caso di Palermo che chiude in perdita (apparente) nonostante abbia dei buoni indicatori (eccezion fatta per quello sull’ingresso al botteghino), ma lì i numeri sono da vedere meglio e lo faremo alla prossima puntata specifica, ripercorrendo nel dettaglio tutti bilanci dal 1999 al 2013; la positività della gestione palermitana, almeno fino al bilancio 2011, si apprezza comparando i dati degli ultimi saldi del conto esercizio nel seguente grafico dal 2006 al 2012.

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I perditori critici si rivelano, ancora una volta, la Scala (perdite d’eccellenza quasi mai inferiori a 5 milioni e spesso più prossime ai 10), il Maggio Musicale e il Comunale di Bologna; chi sta invece costantemente sopra lo zero è il Massimo di Palermo, almeno fino al 2011.



Adesso si è anche diffusa la moda della certificazione del bilancio, che ammanta di autorevolezza un risultato e, sebbene non obbligatoria (la inserisce in statuto come obbligatoria solamente la Scala) e peraltro inutile (capriccio che costa circa una ventina di migliaia di euro) poiché la governance delle fondazioni prevede un Collegio dei revisori, è ampiamente impiegata ovunque tranne che a Bologna, Cagliari, Genova e Trieste. In ogni caso andrebbe sempre letto quello che le società di certificazione scrivono, anziché brandire semplicemente il pezzo di carta a suggello di virtuosità di gestione, ed ecco che ci si imbatte anche in pirandelliane certificazioni dell’incertificabilità.

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Sul piano della trasparenza, sembra esserci una rinnovata esigenza di moralità, un po’ esibita per assecondare i tempi un po’ per ottemperare a nuovi obblighi di legge: assodato che le fondazioni di diritto privato di veramente privato hanno poco, si sta cercando di uscire dall’ambiguità sull’uso o meno delle procedure di evidenza pubblica per servizi e forniture (solo di recente è stato chiarito, ad esempio, che è obbligatorio il ricorso al codice degli Appalti) e sugli obblighi pubblicistici riguardanti i consulenti, con l’indicazione dei compensi lordi. Tutte le fondazioni si sono allineate nel 2013 con la pagina “Amministrazione trasparente”, sebbene alcuni non dichiarino ancora il compenso del sovrintendente come nel caso di Bianchi a Firenze (il dato riportato nella tabella seguente si riferisce alla ex sovrintendente Colombo), Roi a Genova (insediato da poco, il dato riportato si riferisce a Pacor), Lissner (il dato riportato è quello diffuso dal MiBACT e si riferisce al 2012). Il più economico è Fuortes a Roma con 13 Mila, contro i 190 Mila del suo predecessore Catello De Martino.

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Fuori dalla tabella è l’Arena di Verona, mai considerata nelle precedenti comparazioni, ma almeno il compenso del sovrintendente lo compariamo, giacché Girondini si attesta a 200 Mila€ più 50 Mila€ legati a obbiettivi.



Non apparteniamo alla vulgata che vorrebbe i compensi per una posizione apicale così delicata ridotti al livello di un commesso, a patto però che le figure scelte, per la grande responsabilità che hanno nel gestire valore della produzione annuo di qualche decina di milioni di euro, abbiano competenze e onestà. Non siamo ammalati neanche di “curriculite”, non abbiamo mai creduto che il nome di Pereira, abbondantemente annunciato alla Scala, sia stato scelto con un’accurata comparazione della storia professionale, non siamo neanche fissati con i “titoli” anche perché non esiste un corso di laurea in sovrintendologia (ma prima o poi – siamo certi – qualcuno riuscirà ad inventarlo se non altro per riciclare come docenti i peggiori sovrintendenti della storia); tuttavia è indubbio come un curriculum come quello seguente, formattato secondo i canoni estetici del cubismo, esaminato per una posizione aperta da semplice segretario e non per un ruolo apicale, transiterebbe dalla scrivania del responsabile risorse umane al cestino nel giro di sette secondi.

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Sul piano dell’onestà il discorso è certamente più complesso; un buon inizio sarebbe evitare un curriculum con dichiarazioni palesemente non rispondenti alla realtà (a meno di un’interpretazione del concetto di “equilibrio finanziario” esulante dall’esito del conto economico) o reticente sulle motivazioni di conclusione di incarichi pregressi (il Carlo Felice è commissariato nel 2008 e il conto esercizio di quell’anno si chiude con un disavanzo di 10˙433˙507 €):

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Infine sulla valutazione dell’operato dei sovrintendenti, sarebbe auspicabile legare la loro remunerazione ai risultati artistico-economici (qualcosa di un po’ più complesso rispetto al solo risultato del conto esercizio, però, perché – come vedremo nelle prossime puntate – è straordinariamente facile far apparire e comparire perdite senza per questo ricorrere al falso in bilancio, ma mantenendosi in piena legalità e impunità) anche alla luce di un parziale e timido cambiamento dei criteri di ripartizione del contributo statale introdotti nel 2014 in conseguenza al comma 20 dell’art. 11 del Decreto Legge 8 agosto 2013 n. 91 (anche questo oggetto di futuri approfondimenti).
Ancora sulla trasparenza, un’ultima osservazione riguarda la pubblicazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio on line; sebbene non sia un obbligo, è un buon biglietto da visita per attrarre privati in odore di filantropia; infatti procedono tutti ad eccezione di Genova (che però pubblica i vecchi), la Scala (ferma all’esercizio 2012), Palermo e Trieste (questa la ragione per la quale le comparazioni qui svolte si fermano al 2012).
Infine rimane un ultimo aspetto da trattare, ossia cosa ne è dell’avanzo o disavanzo dell’esercizio: si iscrive a patrimonio. Tutte le fondazioni, al momento della loro trasformazione, sono state sottoposte ad una valutazione di stima del diritto illimitato di uso del teatro (formalmente di proprietà del Comune) e di tutte le immobilizzazioni materiali (dal patrimonio di bozzetti e figurini, alle suppellettili) nonché all’elargizione di un gruzzoletto “di dotazione”. Man mano che ad ogni anno si sommano debiti o si accendono mutui e prestiti la parte “netta” del patrimonio si assottiglia. L’assottigliamento a zero è impossibile perché, sebbene le fondazioni siano di diritto privato, non si applica il diritto fallimentare (al limite c’è la liquidazione) e inoltre il MiBAC nel 2010 diramò una nota in cui si dichiara “incedibile” il diritto d’uso del Teatro, per cui la soglia limite dell’assottigliamento è la condizione nella quale il patrimonio netto eguaglia tale riserva “indisponibile”. Se questo accade (e i casi dove questa soglia è superata sono tantissimi) occorre che qualcuno “ripatrimonializzi” (ossia prenda qualche immobile demaniale e lo regali al patrimonio della fondazione) o “ricapitalizzi” (ossia prenda qualche milione di euro e lo versi alla fondazione).

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Al 2012 sono stabili le situazioni patrimoniali di Palermo, Roma (diventata però straordinariamente critica nel 2013, a causa di un risultato economico negativo di 11 Mln€), Torino e Venezia. Nel 2013 il Petruzzelli arriva a patrimonio negativo ma è l’unica fondazione a non avere il diritto d’uso tra le immobilizzazioni immateriali. Sorprendentemente la Scala, nonostante gli ultimi esercizi tutti in forte perdita, non ha uno stato patrimoniale intaccato grazie ad una tradizione ormai consolidata secondo la quale, ad ogni chiusura di esercizio, la Camera di Commercio di Milano (Ente pubblico), assieme ad una fondazione bancaria, versa un contributo in conto patrimonio esattamente pari alla perdita registrata, e si tratta di versamenti consistenti!
Le situazioni più fortemente allarmanti sono quelle nelle quali, già in passato, si è provveduto alle capitalizzazioni più cospicue ossia Genova, Bologna, Napoli e il Maggio Musicale Fiorentino; la tabella seguente ne riassume gli apporti.

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Quindi, chiudendo l’anello sulla quantificazione dell’investimento sulle fondazioni lirico-sinfoniche, si rinvia al lettore la risposta. Buon Sant’Ambrogio a tutti.

 

NOTA di REDAZIONE

Tutti i dati presentati sono ricavati da documenti ufficiali. La redazione è naturalmente disponibile a ospitare un contraddittorio.