Il suono del silenzio
testimonianze di Gabriella Sborgi
Strano pensare a un recital e scegliere i pezzi più in base al riverberarsi del silenzio che al propagarsi dei suoni, più a ciò che viene evocato che a ciò che viene effettivamente pronunciato.
Sarà che c'è tanto rumore intorno, già tante parole.
Forse sono stata influenzata dal Peter Grimes di Benjamin Britten, opera in cui ero immersa nel momento in cui mi è stato commissionato questo concerto, opera in cui ha voce il mare e la sofferenza e i sogni del protagonista non si estrinsecano in acuti e forme chiuse, bensí in frammenti, sussurri, falsetti, echi, sottovoce. Sarà che penso a questa serata come un'esperienza di ascolto condiviso in cui ognuno, non solo chi canta, si fa strumento per far risuonare il proprio essere e la propria immaginazione.
E poi c'è la fascinazione che la musica da camera e il Novecento hanno da sempre su di me: la ricerca, il gettarsi nell'abisso per non volersi accontentare della superficie, il plasmare la vocalità secondo l'urgenza espressiva, il confondersi del torbido con la purezza, il mettere la propria umanità al servizio della poesia e la poesia al servizio dell'umanità.
Così Gabriella Sborgi introduce il senso e l’ispirazione che l’hanno portata, insieme con Federico Nicoletta, a dar forma a questo Recital, che esprime anche una sorta di sintesi di un percorso artistico che viene da lontano e guarda sempre avanti, in un’inesauribile curiosità.
Masì, diciamo che con questo concerto posso, voglio festeggiare.
Sebbene avessi già pubblicamente cantato, sugli scogli in spiaggia, con la chitarra, a scuola o in pullman con i compagni di classe, nel giugno del 1987 ho messo per la prima volta piede sul palcoscenico della American School of Milan, nei panni della protagonista Polly nel musical inglese The Boyfriend, scritto negli anni ’50 e ambientato sulla Costa Azzurra degli anni ’20. Fu il mio maestro di musica Larry Detwiler a scegliermi per il ruolo e a indurmi successivamente a fare l’audizione per il Conservatorio di Milano. Mi fece studiare le arie antiche, ma alla fine feci l’esame di ammissione con la Maddalena di Jesus Christ Superstar. Ricorderò sempre gli occhi sgranati e la mascella abbassata dei docenti in commissione quando scandii il titolo del pezzo che avevo deciso di portare.
Mi presero ma non ne fui felicissima: mi mancava l’apertura mentale, l’interdisciplinarità e la dimensione internazionale che avevo vissuto all’ASM, ma fui fortunata: in meno di tre anni ebbi modo di mettermi alla prova anche lì. L’allora direttore del Conservatorio, Marcello Abbado, incoraggiava scambi e progetti su larga scala e realizzò produzioni col Giappone, con l’Albania, con teatri e associazioni concertistiche quali i Pomeriggi Musicali, Milano Musica, la Scala, il Conservatorio di Parigi e New York. Fatto sta che nel giugno del 1989, non ancora maggiorenne, debuttai nei panni della navigata protagonista di Ascesa e Caduta della Città di Mahagonny di Kurt Weill e Bertolt Brecht, Leokadja Begbick, con la folgorante e indimenticabile regia di Virginio Puecher che lasciò un’indelebile impronta nel mio codice genetico.
Da allora non ho mai smesso di muovermi turbinosamente in un intrico di autori, epoche, lingue e stili, dai Lieder di Maria Stuarda di Schumann a Stripsody, dall’Incoronazione di Poppea con Ronconi al Cosi Fan Tutte con Strehler fino a Janàcek con Valčuha. Ai concorsi portavo Werther, il mio titolo francese preferito, e Dorabella, la mia amata Dorabella, birichina, appassionata, sincera, testarda e spregiudicata, attraverso la cui interpretazione ho trascorso fra le più eccitanti e istruttive esperienze della mia vita, artistica e personale. Si trattava di diventare donna e professionista.
Nel mio intimo, ancora dico grazie a quelle figure di riferimento del panorama musicale di allora come Carlo Mayer, Cesare Mazzonis, Christine Bullin dell’Opera Studio di Parigi che credettero in me e sostennero i miei primi debutti. E poi, un giorno, Daniele Abbado mi chiese di affrontare con lui una sfida, di fare parte del cast di un’opera di Britten, The Rape of Lucretia. Accettai. Era il 1999, e da allora continua la mia dialettica storia d’amore con Benjamin Britten che mi ha portato ad interpretare quasi tutte le sue opere perfino in Germania, Spagna e, per la prima volta nella storia cinese, a Pechino.
Proprio in Costa Azzurra, a Nizza, (dove si ambientava il musical della scuola americana!), con l’ineguagliabile Dalton Baldwin, conobbi l’estasi dei flutti della musica di Hahn e Fauré, mentre fu grazie a Martha Argerich e Diego Fasolis che scoprii il Liszt vocale mistico ed eclettico dello Stabat Mater che eseguii alla RSI di Lugano in occasione del concerto di inaugurazione del Festival Argerich.
Sempre d’estate, invece, molti anni fa, fui avvinta da Mahler nel corso della preparazione di un concerto a Messina dedicato a Sinopoliin cui cantai i Lieder eines Fahrenden Gesellen nella versione cameristica di Schoenberg. Studiai nel soggiorno della casa al mare e, nonostante la brezza, il caldo mi sembrava incompatibile col clima di quella musica (lo sapevo, mia madre nacque a Dobbiaco e fui forgiata dalle lezioni di Quirino Principe al liceo), eppure fui spinta come da una marea irresistibile e implacabile fino agli abissi sublimi della sua musica che non mi ha più lasciato e mi ha portato lontano, fino ad eseguirla per la prima volta in Siberia, e ad approdare poi a Wagner, Webern e ai Lieder di Schoenberg, Berg, Zemlinsky che ho da poco inciso in cd.
In verità sono loro, i compositori e la loro musica ad avere inciso e tracciato solchi in me.
Tutte queste suggestioni, queste esperienze, poi come si sono concretizzate nell’organizzazione del programma del concerto?
Nell’osservare i pezzi scelti, nel lasciarli “parlare”, in controluce mi sono apparse trame, fili sottili di collegamento tra i testi, nello sviluppo emotivo, nelle immagini, tra i poeti. Nella seconda parte, così, ho deciso di rompere lo schema della sequenza per autori e ho lasciato che i brani si mettessero in ordine “da soli” come a creare un ciclo, una drammaturgia, un unico racconto che procede per assonanze poetiche, per affinità e per contrasti. Temi cari al romanticismo ricorrono transustanziati nelle armonie di questi padri del Novecento. I fiori, gli occhi, lo sguardo, il sonno, la notte, le campane … evocano e si rivelano cangianti, incerte metafore della vita e dello spirito.
Per concludere, un’ultima parola in vista di questo recital?
Ringrazio i miei folli e sensibili complici in questa avventura: la mia famiglia, Luisa Castellani, Federico Nicoletta e il Conservatorio di Bergamo, insieme a chi ha ideato e realizzato questo ciclo di concerti.