L’Ape musicale

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Nota artistica

We Have a Dream - A j ò fat un sogn

«I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin, but by the content of their character. I have a dream today!»

«Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene. Io ho un sogno oggi!»

I have a dream (Io ho un sogno) è il titolo del discorso tenuto da Martin Luther King il 28 agosto 1963 davantial Lincoln Memorial di Washington, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili nota come Marcia suWashington per il lavoro e la libertà: in esso il Reverendo King - con una cadenza da profeta biblico e rimandi aLincoln e Gandhi - espresse la speranza che un giorno la popolazione di colore avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi. Fra i più famosi discorsi del XX secolo, I have a dream è diventato simbolo della lotta contro il razzismo non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, compendio di quella vita che il Reverendo King dedicò alla libertà e all’uguaglianza nel credo della non violenza, e che si concluse drammaticamente con il suo assassinio il 4 aprile 1968 a Memphis, cinquant’anni fa.

We Have a Dream prosegue il percorso iniziato dal Festival con l’edizione 2014, dedicata alla scoppio della GrandeGuerra, con il quale si esplorano eventi cruciali e icone del secolo scorso nell’intento di comprendere meglio chi siamo - e anche: perché siamo diventati così. In questo momento di smarrimento e inquietudine, grandi uomini come Luther King possono rappresentare guide e punti di riferimento, per non dimenticare errori e orrori passati, né lo spirito dell’Utopia, la forza del Sogno condiviso capace di sottrarci a visioni apocalittiche e distopiche.

Da sempre tra i più coraggiosi sogni che il Festival ha saputo sognare, il ponte di fratellanza de Le vie dell’amicizia raggiunge quest’anno Kiev: Riccardo Muti sarà sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera Nazionale d’Ucraina e dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini per il doppio concerto che unirà Ravenna a una delle più antiche città dell’Est Europa. Un viaggio già illuminato dall’oro dei mosaici: simbolo di Kiev è infatti ancora oggi la Cattedrale di Santa Sofia, modellata su quell’Hagia Sophia di Costantinopoli le cui suggestioni si ritrovano anche nella ravennate San Vitale.

Accanto al concerto dell’Amicizia, Riccardo Muti dirigerà nella “sua” Ravenna, a 50 anni dal proprio debutto fiorentino, l’Orchestra del Maggio Musicale e un prestigioso cast vocale (Luca Salsi, Vittoria Yeo, Francesco Meli, Riccardo Zanellato) nel Macbeth di Verdi in forma di concerto. Il programma sinfonico si completerà con grandi orchestre e direttori: mentre alla guida dell’Orchestra Cherubini si alterneranno Wayne Marshall, Dennis Russel Davies e David Fray, Valery Gergiev e James Conlon guideranno rispettivamente l’Orchestra del Teatro Marinskij e l’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI; a L’arte della fuga di J. S. Bach sarà invece dedicato il concerto di Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone. Per la danza, tornano al Festival Bill T. Jones ed Emio Greco, quest’ultimo - che dirige il Ballet National de Marseille assieme a Pieter G. Scholten - con il nuovo lavoro Apparizione, incentrato sui Kindertotenlieder di Gustav Mahler.

E se il programma sarà scandito dal susseguirsi di nomi prestigiosi e amatissimi dal pubblico, il Festival non dimentica la voce stessa della città, con la quale continua a sognare una manifestazione capace di celebrarne il patrimonio unico al mondo. Quel patrimonio protagonista degli eventi quotidiani Giovani artisti per Dante, che celebrano il Poeta nei Chiostri accanto alla sua Tomba, e Vespri a San Vitale, gli appuntamenti nella più iconica delle basiliche cittadine; queste ultime accolgono inoltre, come ogni anno, concerti di raffinati interpreti e le liturgie domenicali della rassegna In templo Domini.

Di fronte alla polifonia di temi, suggestioni, visioni di questa XXIX edizione, che da un lato scorre Nelle vene dell’America - la terra del sogno per eccellenza - e dall’altro celebra con Il canto ritrovato della cetra la resilienzadella musica e dell’arte, come non esclamare A j ò fat un sogn?

Nelle vene dell’America

La figura di Luther King fornisce l’occasione di approfondire l’enorme contributo che gli Stati Uniti, con il proprio unico melting pot di culture, etnie, religioni e lingue, hanno saputo elargire nel corso di quasi due secoli e mezzo di storia, a partire dalla loro indipendenza. Anche limitandosi al solo campo musicale, tutto ciò che possiamo e amiamo ascoltare oggi non sarebbe lontanamente immaginabile senza quel che è stato generato da questo irripetibile terreno di coltura: dal blues al jazz, dal rock al rap e all’hip-hop, senza tralasciare la musica “colta”, pur così originale nel suo affrancarsi e rendersi indipendente dalla tradizione europea.

Il programma del Festival offre molteplici occasioni di ascolto e confronto, a partire da quel capolavoro del teatro musicale e della musical comedy che è Kiss Me, Kate, composta da Cole Porter e portata sulle scene a Broadway giusto 70 anni fa nel 1948, poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Il legame di Porter con Ravenna è noto, al di là della leggenda sul concepimento di Night and Day, e sarà splendidamente celebrato dalla produzione dell’inglese Opera North, già ospite al Festival nel 2005 con un notevole allestimento di One Touch of Venus di Kurt Weill.

Il centenario della nascita di Leonard Bernstein, probabilmente una delle figure più rappresentative e amate della musica americana, sarà ricordato con l’esecuzione, tra le altre cose, della Seconda Sinfonia, il cui titolo The Age of Anxiety (da W.H. Auden) rimanda inevitabilmente anche alla nostra era, così carica di profonde contraddizionie inquietudini.

Tra echi del minimalismo - altra invenzione totalmente americana - nelle musiche seminali dei tre padri fondatori (Terry Riley, Philip Glass e Steve Reich), figure di enorme influenza quali Keith Jarrett, di cui sarà eseguita per la prima volta in Italia la composizione Ritual del 1977, e il raffinato e poliedrico rocker d’avanguardia David Byrne, fondatore dei Talking Heads, non manca un omaggio allo strumento principe e icona della popular music. Alla chitarra elettrica, inventata nel 1931 negli States, è infatti dedicato un articolato affresco sonoro che va da roboanti sinfonie per 100 elementi al solo, anche con composizioni appositamente commissionate ad autori sia americani che italiani, da Michele Tadini a Bryce Dessner, da Glenn Branca a Christopher Trapani. Ospite d’eccezione Thurston Moore, co-fondatore di quei Sonic Youth che sono stati la band che più di ogni altra ha determinato lo sviluppo del rock alternativo americano come lo conosciamo oggi.

Sarà così rievocato con pochi ma incisivi tratti quel sogno sonoro, magmatico, immersivo, che in tanti abbiamo sognato. Un vero e proprio paesaggio immaginario (Imaginary Landscape è il titolo di una visionaria serie di composizioni che l’americanissimo John Cage iniziò a comporre alle soglie del secondo conflitto mondiale) sul cui sfondo compaiono figure fondamentali nel dipanarsi di quella grande avventura che dal pionierismo sperimentale di Henry Cowell e Charles Ives giunge fino ai giorni nostri, con inesausta energia e capacità di rinnovamento. Avventura musicale ma non solo: proprio la presenza di Bill T. Jones con la sua ultima creazione A Letter to My Nephew ci ricorda l’importanza della scena americana in quella che è stata l’invenzione della Modern Dance.

Il canto ritrovato della cetra

Fin dal mito di Orfeo, la cetra è il simbolo della musica stessa: la forza persuasiva del suo suono ha il potere di aprire le porte dell’aldilà e ben richiama la dimensione più misteriosa e metafisica della musica, la sua capacità di entrare in rapporto con la profondità più autentica del nostro essere, penetrare gli abissi della nostra coscienza, far vibrare le corde più intime del nostro io spalancandoci inaspettati orizzonti interiori. Oltre la realtà ordinaria, la musica ci spinge in spazi che hanno il sapore dell’eterno.

A questa forte simbologia si affianca quella altrettanto pregnante, di derivazione biblica, delle cetre appese ai salici: “Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion.
Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. Il celebre incipit del Salmo 136 Super flumina Babylonis si rifà alla tragedia vissuta dal popolo ebraico dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. e il conseguente esilio babilonese. Parodiato da Temistocle Solera nel coro del Va pensiero del Nabucco di Verdi (“arpa d’or dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi?”), esprime l’impossibilità di levare i propri canti di fronte al dolore della perdita della patria. La cetra si fa muta di fronte alla sovrastante devastazione, il silenzio diventa voto di fronte a “l’urlo nero delle madri” evocato da Salvatore Quasimodo nella sua lirica Alle fronde dei salici scritta durante l’occupazione nazista. Lo sgomento che ha percorso il mondo occidentale dopo Auschwitz ha acceso il dibattito sulla crisi dell’arte, con la teorizzazione della “morte dell’arte”. Il progressivo inaridirsi dell’iniziale slancio dell’avanguardia e la crescente distanza fra compositore e pubblico hanno portato a uno stato di consapevole, e in tal caso compiaciuta, incomunicabilità.

Paradossalmente, proprio nei Paesi che nel secolo scorso hanno patito l’oppressione di regimi dispotici percorsi da quel rumore del tempo la cui eco è risuonata nella scorsa edizione di Ravenna Festival, accanto a compositori come Dmitrij Šostakovicˇ che vissero in modo penosamente conflittuale il proprio rapporto col potere, altri musicisti furono totalmente messi al bando e censurati dal regime, ma sperimentarono nuove forme di espressione. Laddove maggiormente la cetra avrebbe dovuto restare muta appesa ai salici, essa ha trovato le ragioni e la forza di rigenerarsi.

Nella sezione Il canto ritrovato della cetra hanno spazio espressioni musicali di rinnovata intensità comunicativa ed emozionale e autori quali Alfred Schittke, Arvo Pärt e Valentin Silvestrov, che hanno superato la paura della musica contemporanea per la forma e la diffidenza nei confronti di ogni eco di tradizione, così sfatando e contraddicendo il luogo ormai divenuto comune nel nostro tempo che non possano più esistere bellezza e armonia. All’ucraino Valentin Silvestrov, che ha appena compiuto 80 anni e sarà ospite a Ravenna Festival, è dedicato un percorso monografico che include il concerto dell’Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera Nazionale d’Ucraina nella cornice di Sant’Apollinare in Classe, l’esibizione del Duo Gazzana e l’incontro con il compositore stesso. Di lui ebbe a dire Arvo Pärt: “Se mi chiedessero di fare il nome di un compositore contemporaneo, il primo che pronuncerei è quello di Silvestrov. Valentin è senza alcun dubbio il compositore più interessante di oggi, anche se la maggioranza riuscirà a capirlo solo molto più tardi...».

E mentre il salmo Super flumina Babylonis è anche il titolo del concerto del coro The Sixteen guidato da Harry Christopher, fra le più famose formazioni che si esibiranno quest’anno nelle basiliche bizantine, altri appuntamenti celebrano il potere della musica di riaccendere il sogno di un futuro migliore. A partire da Lo splendore di Aleppo, dove il ricordo di una città vittima delle devastazioni prodotte dall’uomo rivivrà nel repertorio musicale delle comunità siro-cristiana, armena, musulmana e giudaica cui darà voce il controtenore siriano Razek-François Bitar.

Il teatro del mondo

Ma i due percorsi tematici fin qui delineati non esauriscono il programma del Festival, ricco com’è di figure, temi ed echi che rimandano a epoche e luoghi tra loro distanti ma i cui accostamenti provocano imprevedibili associazioni e analogie rivelatrici.

Gli appuntamenti di quella che si delinea come un’ampia sezione dedicata al teatro, ad esempio, ci racconteranno di una città assolutamente emblematica nel suo essere a un tempo tragica e gioiosa: Napoli, declinata in due lavori tra loro assai differenti eppure complementari. Il primo è L’amica geniale, nuova creazione della compagnia ravennate Fanny & Alexander (che festeggia i 25 anni di attività), che rimanda inevitabilmente alle narrazioni della “misteriosa” scrittrice Elena Ferrante, maestra nel creare “strane dinamiche di identificazione che ti avvincono in un labirinto da cui non vuoi e non puoi uscire”, con la potente evocazione del paesaggio sonoro partenopeo, grazie alla magia tecnologica di Tempo Reale. Il secondo è invece il riallestimento in prima italiana di quel Tango glaciale che rivelò 35 anni or sono Mario Martone e Falso Movimento, il collettivo di artisti che cambiò la storia dellasperimentazione teatrale italiana nell’irripetibile stagione della Nuova spettacolarità, tra effimero e Postmoderno.

Se uno dei motivi di crisi del mondo contemporaneo è il drammatico confronto/scontro con l’integralismo islamico, due testi teatrali come Lettere a Nour di Rachid Benzine, prima nazionale per la regia di Giorgio Sangati, con Franco Branciaroli e Marina Occhionero e musiche live del trio Mothra, e Maryam, messo in scena dal Teatro delle Albe su testo di Luca Doninelli, nell’interpretazione di Ermanna Montanari con musiche originali di Luigi Ceccarelli, offrono occasione di riflessione profonda come forse solo il teatro riesce a fare oggi, nell’ossessivo e vacuo rumore dei media e dei social networks. E poi ancora la Sinfonia beckettiana di Teatro Nerval e Maurizio Lupinelli e l’Antigone di Sofocle riletta da Elena Bucci e Marco Sgrosso (Le Belle Bandiere) e ambientata all’Antico Porto di Classe.


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