L’Ape musicale

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Intimi concenti: percorsi nella vocalità italiana da camera

di Paola Camponovo

Volendo individuare un percorso lungo due secoli nella vocalità italiana non operistica, in quella legata a esigenze di gradevolezza e cantabilità e all’espressione di sentimenti e passioni, ci si imbatte sia in personaggi illustri sia in compositori la cui biografia e la cui opera sono assai meno conosciute. È proprio questo il caso di una delle più note ariette ereditate dal Settecento, Caro mio ben, la cui paternità resta tuttora ambigua. Ricondotta in questa sede a Tommaso Giordani (nato intorno al quarto decennio del secolo XVIII e morto all’inizio del successivo), è alternativamente attribuita a Giuseppe Giordani(Giordanello), omonimo del padre del precedente, o a quest’ultimo o addirittura a Georg Friedrich Händel. Impossibile, del resto, non notare la parentela del brano in questione con il famoso Ombra mai fu del compositore tedesco, assai celebrato in Albione, proprio negli stessi anni in cui Giordani vi si trasferì. Fu ancora Alessandro Parisotti (come nel caso precedente), a riportare in auge a fine Ottocento, con la sua raccolta di Arie antiche, un’altra aria ‒ ormai ben conosciuta ma allora assai meno nota ‒ di Antonio Caldara (1670-1736): Sebben crudele, tratta dal dramma pastorale La costanza in amor vince l’inganno e ridotta per il pianoforte dall’organico originale con ritocchi e integrazioni.

Reminiscenze pastorali persistono in Malinconia, ninfa gentile di Vincenzo Bellini (1801-1835), dove il tema arcadico tipicamente settecentesco si contamina con motivi romantici nei versi di Ippolito Pindemonte. La lirica, in cui emerge pienamente la morbidezza del fraseggio e della melodia tipicamente belliniana, inaugura la prima raccolta di ariette del compositore, edita nel 1829 da Ricordi; esse risalgono al periodo in cui il Catanese, probabilmente amareggiato dall’accoglienza tributata a Zaira, restò inoperoso per un certo tempo dedicandosi piuttosto alla creazione di piccoli pezzi, dove abbozzò temi poi approfonditi nella successiva produzione operistica. Dello stesso volume fanno parte anche Vanne, o rosa fortunata e Ma rendi pur contento:gli ascoltatori riconosceranno nella prima stralci delle cabalette del duetto di Norma e Pollione e del terzetto con Adalgisa dalla Norma, nella seconda echi di “O Zaira, in tal momento” dall’opera Zaira e dell’aria “Se Romeo t’uccise un figlio” da ICapuleti e i Montecchi. La parentesi dedicata a Bellini si conclude con la più eseguita delle sue arie da camera, Vaga luna che inargenti. Pubblicata per la prima volta in una rivista milanese e successivamente da Ricordi nella raccolta Tre ariette inedite (1838), la tematica lunare e lo stesso verso d’esordio l’avvicinano alla celebre Casta diva.

Stefano Donaudy (1879-1925), colto compositore di origini francesi, optò per un ritorno all’antichità in un periodo dominato dalla poetica verista, impiantando elementi arcaici in uno stile di ascendenza comunque tardo-romantica. A Novecento ormai inoltrato, egli pubblicò due raccolte di brani intitolate Arie di stile antico (1916 e 1923), da eseguirsi nell’ambiente intimo di eleganti salotti. Frutto di questo lavoro raffinato e nostalgico sono ariette come O del mio amato ben, Perduta ho la speranza e Vaghissima sembianza. La prima è forse il brano più noto dell’autore; la linea melodica si snoda ampia, favorita dall’alternanza di endecasillabi e settenari, metro non infrequente nel campionario di Parisotti, vero e proprio precursore dell’esperienza di Donaudy.

Se per alcuni autori, come Bellini, la produzione cameristica non è che un’attività parallela a quella principale, per altri è invece un’autentica vocazione. È questo il caso di Francesco Paolo Tosti (1846-1916), indubbiamente il nome più rappresentativo dell’Ottocento italiano nell’ambito della vocalità non operistica.

Nato in una famiglia di mercanti abruzzesi, la sua vocazione per la musica lo portò a stabilirsi dapprima a Roma, dove giunse fino al Quirinale come maestro di canto della futura regina Margherita, e poi a Londra, dove svolse la stessa mansione per i reali inglesi, la regina Vittoria e il figlio Edoardo VII. La sua produttività come compositore per voce e pianoforte è paragonabile a quella dei più attivi liederisti tedeschi: lasciò più di cinquecento melodie, di cui Ideale, ’A vucchella, Donna, vorrei morir, Non t’amo più!, L’alba separa dalla luce l’ombra, proposte in questa sede, sono solo alcune delle più famose. Nella prima, in linea con la tradizione precedente, Tosti gioca espressivamente con i semitoni prediligendo morbide ascese e discese per moto congiunto, per descrivere un amore quasi irreale, da contemplare con timore reverenziale. Il testo è di Carmelo Errico, definito da D’Annunzio poeta di “liriche d’amore caste e armoniose”, graditissime a un pubblico borghese. Su testo del Vate è invece la graziosa ’A vucchella, sulla cui genesi circolano diverse leggende: si narra che Tosti avesse chiuso in una stanza il poeta, minacciandolo di farlo uscire solo dopo aver ottenuto dei versi, o che, per una scommessa fra i due amici, la poesia fosse stata composta nell’arco di mezz’ora. Ancora su versi di Errico è Non t’amo più!, che sembra rappresentare una sorta di contraltare a Ideale, narrando il fallimento della storia d’amore vagheggiata nel precedente brano. La modulazione da minore a maggiore del refrain, che termina con il verso che dà il titolo alla romanza, vuole forse alludere al raggiungimento di un nuovo equilibrio interiore alla fine di una relazione deludente. Tra i capolavori di Tosti devono essere annoverate le Quattro canzoni d’Amaranta (1907), coeve ad A’ vucchella e ancora su testo di D’Annunzio. Amaranta è l’appellativo di una delle donne amate dal poeta, Giuseppina Mancini, così soprannominata nelle lettere scambiate con l’amante. Nonostante si tratti di un ciclo indubbiamente femminile, L’alba separa dalla luce l’ombra, seconda canzone, è particolarmente amata anche dai tenori, per l’ampiezza dell’estensione, la tessitura acuta e l’espansività della melodia; e benché il ciclo abbia carattere unitario e tragico, è decisamente, fra le quattro, la lirica meno cupa, nonché quella che meglio si presta a essere estrapolata.

La cantabilità di ascendenza tostiana e la semplicità emotiva delle brevi melodie di Luigi Denza (1846-1922), che oggi ricordiamo soprattutto per le canzoni napoletane, genere in cui fu indiscusso maestro, assicurarono comunque un enorme successo, anche oltralpe, alle sue romanze, fra le quali la più popolare è senz’altro Occhi di fata, ancora oggi uno dei brani più graditi del repertorio maschile. Mascagni (1863-1945) è invece apprezzato, come Bellini, soprattutto come operista: la critica, anzi, bollò la sua produzione non teatrale come “minore”. Egli fu camerista solo sporadicamente, soprattutto in gioventù. Su versi di Lorenzo Stecchetti compose uno dei pezzi più conosciuti del genere salottiero, Serenata (1894), la cui fluida melodia l’avvicina comunque allo stile di Tosti; la tematica rimane sentimentale, mentre assente è qualunque intento intellettualistico. Stanislao Gastaldon (1861-1939) fa parte di un folto gruppo di compositori dello stesso periodo che seguirono le orme tostiane, ma la cui fama rimane ancorata a un’unica composizione. Egli fu in realtà prolifico autore: la tradizione gli attribuisce circa trecento canzoni, anche se finora ne sono state identificate meno di cento. Gastaldon compose Musica proibita appena ventenne, raggiungendo improvvisamente un’enorme popolarità: la melodia, immediata e spontanea come in molti dei brani incontrati, non manca, le modulazioni nemmeno, a rendere questo piccolo gioiello uno degli esempi più significativi della romanza da salotto, genere spesso tacciato di banalità dai critici già all’epoca ma che a un’attenta esplorazione cela, all’interno di una produzione assai vasta, delle piccole perle, di cui la selezione proposta presenta un efficace panorama.


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