L’Ape musicale

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AIDA: PROVA GENERALE DI UN TESTAMENTO MUSICALE

di Francesco Cilluffo

E' difficile, oggi, credere che l’autore di Otello e Falstaff abbia per anni considerato Aida come la sua opera ultima, dopo la quale non sarebbe venuto più nulla. A molta parte della critica, dopo le modernità formali e drammaturgiche di Don Carlos (inferiore però per orchestrazione e tavolozza armonica), Aida sembrò essere un passo indietro, essendo costruita principalmente su numeri “chiusi” e contenendo chiare eredità meyerbeeriane (si pensi ad esempio a L’Africaine, anche dato l’esotismo del soggetto) e belcantistiche. Nel concertato del secondo atto si arriva alla citazione letterale di Norma, e nel finale del duetto tra Aida e Radamès del terzo atto si ritorna, con “Sì, fuggiam da queste mura”, persino alla “vituperata” forma della cabaletta. Ma proprio questa qualità di testamento verdiano (per fortuna rivelatosi solo provvisorio) fa di Aida un unicum per chi la interpreta. Sembra infatti che Verdi voglia da un lato elaborare tutte le lezioni assimilate a partire dagli stili a lui coevi o quasi (dal belcanto al grand opéra francese), mentre dall’altro non manca uno sguardo al passato classico e persino qualche anticipazione del futuro: pensiamo alla citazione pressoché letterale dell’incipit del Requiem di Mozart nel terzo atto, quando Aida suggerisce la fuga a Radamès (una prefigurazione della morte che li aspetta?), oppure agli squarci lirici presi dal finale di Norma, che convivono con le molte anticipazioni dal Requiem verdiano e con certi gesti orchestrali propri della coeva Walküre wagneriana (ricordiamo che Verdi possedeva una vastissima biblioteca musicale, ricca anche di opere che non ascoltò mai dal vivo). Aida influenzò molto anche i compositori delle generazioni successive: Čajkovskij sicuramente si ricordò della danza delle sacerdotesse del primo atto nello scrivere la Dance des Mirlitons dello Schiaccianoci, senza contare che Mahler apre il secondo dei suoi Kindertotenlieder con una citazione letterale di “E qui lontana da ogni umano sguardo”, la frase con la quale Aida spiega il suo gesto estremo d’amore a Radamès nell’ultima scena dell’opera. Va qui ricordato che Aida fu una delle opere che Mahler diresse più spesso a Vienna, il che spiegherebbe anche il motivo per cui la frase di presentazione di Amonasro nel secondo atto venga citata all’inizio della Terza Sinfonia mahleriana. Nel Novecento, Stravinsky userà la citazione dell’accompagnamento delle arpe al canto delle sacerdotesse del primo atto nel momento di climax e dénouement del suo Oedipus Rex; e l’influenza di Aida arriverà fino al cinema e a Broadway, rispettivamente con i contributi di Sophia Loren e Elton John. Nel concertare Aida ho tenuto conto di tutti questi elementi, perché si tratta di un’opera che è davvero una sintesi di sguardo al passato e slancio verso il futuro, allo stesso tempo con una forte consapevolezza del presente e delle mode dell’epoca, in particolare quell’orientalismo di fine Ottocento che si respira ampiamente nei timbri dell’orchestra e nelle scene rituali dell’opera, vagheggiamento di un’Egitto mitologico che ispirò letteratura (ad esempio Le Roman de le momie di Gautier), pittura (Ingres e Delacroix in testa) e ovviamente musica (lo si ritrova, filtrato attraverso il raffinato decadentismo francese, anche in opere quali Le Roi de Lahore e Thaïs di Massenet). Nel sottolineare le aperture armoniche e timbriche dell’opera che guardano già verso una sensibilità novecentesca, ho cercato allo stesso tempo di mettere in risalto la lezione maturata da Verdi a Parigi: narrare, attraverso il canto puro, il dramma intimo che si staglia su un tumultuoso affresco storico ed esotico, tipico del grand opéra. Mi piace chiudere queste riflessioni con un’esperienza personale. Aida fu la prima opera che mio padre mi fece ascoltare un po’ per gioco all’età di cinque anni (si trattava di una vecchia incisione con Franco Corelli, diretta da Angelo Questa): fu in quel momento che decisi che avrei fatto il direttore d’orchestra. Abitando a Torino, la passione per quest’opera si concretizzò in men che non si dica anche in ripetute visite al Museo Egizio, che hanno scandito la mia infanzia per anni. Sono felice di ritrovare in questa produzione storica di Franco Zeffirelli moltissimo di quel mondo di “dorato vagheggiamento” dei miei sogni di bambino e di essere arrivato, trentacinque anni dopo quel primo ascolto così rivelatorio, a poter apprezzare anche dal podio questo capolavoro verdiano.


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