Storico Mosé in Egitto con Abbado e Vick

Quinto appuntamento venerdì 27 marzo alle 20.30 sul sito web del ROF (www.rossinioperafestival.it) con le Soirées musicales, ciclo di opere andate in scena al Festival nell’ultimo decennio presentato in collaborazione con Unitel e Ricordi.

Dopo La scala di seta, Zelmira,Sigismondo e Adelaide di Borgogna,, sarà presentato Mosè in Egitto, vincitore del Premio Abbiati quale migliore spettacolo del 2011. Roberto Abbado diresse Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna e un cast composto da Riccardo Zanellato, Sonia Ganassi, Alex Esposito, Dmitry Korchak, Olga Sendreskaya, Yijie Shi, Enea Scala e Chiara Amarù. La messinscena fu ideata da Graham Vick, con le scene e i costumi di Stuart Nunn e il disegno luci di Giuseppe Di Iorio.

Mosè in Egitto sarà trasmesso in streaming sul sito web del Festival e resterà disponibile per le successive 24 ore. Per accompagnare l’ascolto, sui canali social del Festival sono presenti contenuti esclusivi quali trailer, making of, videosaluti dei protagonisti e foto di prova e di scena.


Mosè in Egitto

Azione tragico-sacra di Andrea Leone Tottola
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Charles S. Brauner

 

Direttore Roberto Abbado

Regia Graham Vick

Scene e Costumi Stuart Nunn

Progetto luci Giuseppe Di Iorio

INTERPRETI

Faraone Alex Esposito

Amaltea Olga Senderskaya

Osiride Dmitry Korchak

Elcia Sonia Ganassi

Mambre Enea Scala

Mosè Riccardo Zanellato

Aronne Yijie Shi

Amenofi Chiara Amarù

Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna

Maestro del Coro Lorenzo Fratini

Nuova produzione


SOGGETTO

Mosè in Egitto, azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola, fu messa in scena per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli il 5 marzo 1818. Interpreti della prima rappresentazione furono Raniero Remorini (Faraone), Frederike Funck (Amaltea), Andrea Nozzari (Osiride), Isabella Colbran (Elcia), Gaetano Chizzola (Mambre), Michele Benedetti (Mosè), Giuseppe Ciccimarra (Aronne), Maria Manzi (Amenofi).

ATTO PRIMO

L’Egitto si trova immerso in un buio assoluto, punizione inflitta da Dio al popolo di Faraone che non ha mantenuto la promessa di liberare gli Ebrei dalla schiavitù, lasciandoli partire per la Terra promessa. Gli Egiziani, in preda al terrore, invocano il loro re per essere liberati dalla maledizione: Faraone fa dunque chiamare Mosè, il capo degli Ebrei, promettendogli la libertà per il suo popolo non appena la luce sia tornata a risplendere sul paese. Mosè, per quanto consigliato dal fratello Aronne di non credere alle promesse troppe volte non mantenute di Faraone, invoca il perdono di Dio per l’Egitto, innalza il suo bastone e le tenebre si dileguano. Mosè e il suo popolo potranno lasciare l’Egitto prima di sera.

Osiride, figlio di Faraone, è legato da una relazione segreta alla giovane ebrea Elcia. Per paura di perderla, egli cerca di impedire la partenza degli Ebrei convincendo Mambre, il gran sacerdote, ad aiutarlo in questo intento. Lo persuade dunque a fomentare una sommossa popolare contro la decisione di Faraone che avrebbe fatto perdere al paese tutti i suoi schiavi. Mambre considera Mosè un ciarlatano e i suoi prodigi banali trucchi, come quelli che egli stesso in passato era stato in grado di riprodurre. Acconsente dunque a sobillare la ribellione tra gli Egiziani. Sopraggiunge Elcia in lacrime per salutare un’ultima volta il suo amante.

Con le sue trame Mambre induce una folla inferocita ad accalcarsi davanti al palazzo reale, richiedendo a gran voce la revoca dell’ordine di liberazione degli Ebrei. Faraone si lascia convincere dal figlio a ritrattare ancora una volta la sua promessa ed invia Osiride da Mosè per avvertirlo che ogni ebreo che avesse tentato la fuga sarebbe stato ucciso. Ciò getta nell’angoscia Amaltea, moglie di Faraone, che cerca di proteggere gli Ebrei perché si è segretamente convertita alla loro religione. Gli Ebrei, che ormai si sapevano liberi, accolgono la notizia con disperazione e Mosè minaccia altre punizioni divine per l’Egitto. Osiride ordina allora ai suoi soldati di ucciderlo e solo l’arrivo di Faraone impedisce che sia dato corso alla violenza. Faraone conferma la sua ultima decisione e Mosè, levando il suo bastone, fa cadere dal cielo una pioggia di fuoco.

ATTO SECONDO

Per scongiurare la nuova maledizione divina, Faraone ordina agli Ebrei di partire immediatamente. Chiama poi il figlio per informarlo della felice conclusione delle trattative per le sue nozze con la principessa di Armenia, e non comprende come mai una notizia così lieta venga accolta con tanta tristezza. Poco dopo Aronne informa Mosè che Osiride ha rapito Elcia e che egli ha fatto seguire la coppia colpevole per conoscere il luogo dove si sarebbe rifugiata. Mosè prega Aronne di avvertire Amaltea e di raggiungere con lei i due amanti.

Nella buia caverna nella quale l’ha condotta, Osiride rivela ad Elcia la penosa situazione in cui si trova a causa dei progetti di suo padre. Le propone così di rimanere nascosti, e di vivere clandestinamente nei boschi. L’arrivo della regina con le sue guardie e di Aronne interrompe bruscamente il fantasticare dei due innamorati. Nonostante la disapprovazione altrui, essi rifiutano di separarsi e Osiride dichiara che intende rinunciare al trono. Nel frattempo Faraone, per timore che gli Ebrei, una volta liberati, accorrano in aiuto dei popoli nemici dell’Egitto, revoca ancora una volta la promessa. Sdegnato, Mosè dichiara che il principe ereditario e tutti i primogeniti maschi del paese saranno colpiti dal fulmine divino. Per questa minaccia Mosè viene messo in catene e Faraone, per preservare il figlio dal realizzarsi della profezia, convocata l’assemblea dei nobili, dichiara che Osiride da ora innanzi dividerà il trono con lui, e ingiunge ad Osiride stesso di pronunciare la condanna a morte di Mosè. Con grande meraviglia di tutti i presenti, si avanza allora Elcia, che rivela la sua relazione con Osiride e lo supplica di liberare Mosè, lasciandolo partire con il suo popolo. Lo prega poi di accettare il suo destino regale sposando la principessa d’Armenia e di lasciarla espiare il suo errore con la morte. Ma Osiride rimane irremovibile: ordina di uccidere Mosè e immediatamente, tra le grida disperate di Faraone e di Elcia, cade colpito da un fulmine.

ATTO TERZO

Dopo aver attraversato il deserto, gli Ebrei si arrestano sulle rive del Mar Rosso, nell’impossibilità di proseguire il loro cammino verso la Terra promessa. Mosè, alla testa del suo popolo, eleva una solenne preghiera a Dio, ma alla vista di una schiera di Egiziani che li stanno inseguendo, gli Ebrei sono presi dal panico. Mosè tocca allora con il suo bastone le acque, che si aprono lasciando un passaggio attraverso il quale essi possono raggiungere la riva opposta. Gli Egiziani si lanciano nel varco all’inseguimento degli Ebrei per vendicare la morte di Osiride, guidati da Mambre e da Faraone, ma sono sommersi dalle onde del mare che si richiudono sopra di loro.


Il «Genere Elevatissimo»


1. La Rossini renaissance, come ormai comunemente si definisce il recupero – testuale, esecutivo e di ‘gusto’ – dei lavori un tempo dimenticati e sottovalutati di Rossini, ha riguardato principalmente la monumentale produzione di opere serie destinate ai Teatri Reali di Napoli. Si tratta, come è ben noto, di nove titoli in tutto (dei quali otto dati al San Carlo e uno, Otello, ospitato al Teatro del Fondo nel periodo in cui, dopo l’incendio del 1816, la sala maggiore era in ricostruzione). Senza dimenticare i gloriosi precursori, primo fra tutti Vittorio Gui, l’impulso massimo è venuto dall’impresa monumentale dell’Opera Omnia avviata dalla Fondazione Rossini a partire dal 1971 e, a seguire, dal Rossini Opera Festival di Pesaro che si è preso il non facile compito di porre sulla scena, spesso mentre la versione testuale era ancora in elaborazione, le opere stesse. A distanza di quaranta anni dall’avvio si può dire che tutte le opere serie di quell’arco della produzione rossiniana che va dalla seconda parte del 1815 all’inizio del 1822 sono state riprese in versioni filologicamente accettabili e tutte hanno, quale più quale meno, avuto una loro riabilitazione in alcuni casi anche clamorosa. Come sempre avviene nel teatro, la Rossini renaissance ha potuto e dovuto giovarsi anche del contributo di interpreti in grado di affrontare al meglio un repertorio che già dall’ultimo periodo della vita dell’autore era ritenuto impervio. È emerso in primo luogo che la drammaturgia musicale coltivata da Rossini e dai suoi librettisti non solo non era attardata, come sembrò nel prosieguo dell’Ottocento, ma per certi versi era più avanzata di quella a cui Rossini stesso si adeguò quando, a Parigi, si cimentò con lo stile del grand-opéra che si andava affermando. Ciò poté avvenire da un lato grazie alla posizione che il compositore ricoprì a Napoli, dall’altro grazie alla egemonia che la vita musicale napoletana occupò almeno fino all’Unità d’Italia. Ma va anche detto che questa ricerca si svolse con una varietà di scelte e di direttive assolutamente uniche. Tra la drammaturgia di un Otello e il trionfo vocale assoluto di un’Armida, tra il calarsi in una vicenda di popoli e di personaggi quale quella del Maometto II e la classicità recuperata in suprema astrazione di un’Ermione, corrono profondissime differenze. Per non parlare dei primi impulsi romantici, come si volle definirli, di una Donna del lago. Varietà suprema dunque, pur nell’unità di stile che Rossini seppe mantenere (ma anche su questo i tempi sono maturi per una articolata riflessione). Le profonde differenze tra un lavoro, o, vorrei dire, tra un capolavoro e l’altro, decisero all’epoca anche la loro sorte. Se Otello rimase in repertorio in toto o in parte fino al periodo in cui si affermava quello di Verdi, non una sola pagina di Ermione (fatti salvi alcuni autoimprestiti) uscì da Napoli. Altri titoli furono più fortunati e sarà il caso del Mosè in Egitto oscurato tuttavia dal rifacimento francese di Moïse et Pharaon. Alla miopia di certa critica ottocentesca, miopia rimasta in parte dilagante fino al Novecento inoltrato, sfuggiva un particolare essenziale: Rossini dopo il trasferimento a Parigi si era sì adeguato alle diverse esigenze dei teatri francesi, ma in nessun caso le edizioni napoletane di Maometto Mosè possono essere considerate abbozzi o semplici preannunci di quelle destinate all’Opéra di Parigi, come si dimostrerà più avanti quando tratteremo brevemente della fortuna della seconda.

2. Mosè in Egitto andò in scena al San Carlo il 5 marzo del 1818, ma fu ripresa nel marzo successivo con un terzo atto profondamente riveduto e l’introduzione della celebre Preghiera. Basterà questo per dimostrare la posizione cronologicamente centrale del lavoro nel periodo napoletano di Rossini. C’è di più. Con quest’opera Rossini si cimentava in un genere particolare. La suddivisione del calendario dell’Italia dell’epoca – sovranamente conciliatoria – tra Dio e Pulcinella (per dirla con G.G. Belli) e cioè tra periodi quaresimali e di penitenza da un lato e altri di feste, baccanali e stagioni teatrali (al teatro si dedicava per lo più il carnevale, già di per sé differenziato per durata nei singoli anni, dato che si andava dal giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre, al martedì grasso) tollerava qualche eccezione. Un grande teatro come il San Carlo poteva in quaresima ospitare lavori di soggetto edificante, vicini al genere oratoriale. Rossini aveva avuto un approccio a questo tipo di teatro già col suo Ciro in Babilonia. Il genere, se così vogliamo definirlo, era dunque nobile e impegnativo essendo per lo più con soggetti di ascendenza biblica. Di questo Rossini dovette avere piena coscienza quando, nel 1818, affrontò il libretto di Mosè che Tottola aveva tratto dall’Osiride del monaco olivetano Francesco (al secolo Pompeo Ulisse!) Ringhieri che aveva accordato la vocazione monastica con quella teatrale e le leggi del teatro classico e di quello francese con un sicuro istinto melodrammatico. Delle tre leggi dell’unità di tempo, luogo e azione, Ringhieri ne rispettava solo due, la prima e la terza. Il luogo invece variava per ospitare vicende di popoli oppressi, interventi divini e miracoli non senza qualche parallela trama amorosa. Erano gli ingredienti fissi di questo tipo di spettacolo e non va dimenticato che Ringhieri, al pari di quanti si dedicavano al genere, era sì un buon lettore di Racine e delle sue ultime tragedie sacre, ma, da bravo ecclesiastico, conosceva il modo di interessare la plebe e le platee dei teatri pubblici, laddove il sommo tragediografo francese scriveva i suoi lavori di ispirazione biblica per l’ambiente rarefatto di un collegio femminile posto all’ombra del Gran Re e della sua corte. Nel caso della vicenda di Mosè liberatore davanti al quale, dopo vari miracoli, si aprono addirittura le acque del mare, c’era di che godere degli effetti scenici, non sempre facili, se è vero che la difficoltà di render accettabile all’occhio del pubblico la scena ultima fu determinante per stimolare la revisione con l’aggiunta della Preghiera. Come dire che il sublime doveva mettere all’angolo il possibile ridicolo. Così certo fu, considerato il ruolo eccelso svolto da quella pagina che accompagnerà Rossini per il resto dei suoi giorni e anche dopo, dato che essa fu intonata all’Agnus Dei del suo funerale e risuonò, nel maggio 1887, nella piazza antistante la chiesa di Santa Croce a Firenze quando vi giunse la salma del compositore per essere ospitata tra quelle dei grandi italiani. Quel giorno centocinquanta strumentisti accompagnarono trecento coristi. La trascrizione di Paganini servì, a sua volta, nel 1903, quando trenta violini del Conservatorio di Pesaro suonarono sotto la direzione di Mascagni nel momento in cui si tolse il velo davanti al monumento. Come dire che la pagina era e restò sempre nel cuore di tutti e questo giustifica, ad abundantiam, il fatto che in qualche modo, in questo periodo di celebrazioni dei 150 anni, la si ricolleghi all’Unità d’Italia.


3. Varrà la pena di esaminare brevemente come Rossini affrontò un tema e un testo certamente impegnativo. Sappiamo che nelle sue lettere il compositore si apre poco. Perfino scrivendo a casa non manca di associare battute ironiche a quelle seriose e di passare dalla Bibbia ai Maccheroni. I primi accenni al Mosè sono telegrafici e l’opera è sempre in essi definita genericamente Oratorio. Così, ad esempio, il 9 gennaio 1818 (era tornato appena da Roma dopo Adelaide di Borgogna) si limita ad un accenno nel postscriptum:

Sto Scrivendo Notte, e Giorno l’Oratorio, e ne spero bene. (1)

Accenno dunque, con un uso delle maiuscole sul quale si potrebbe fare qualche divagazione. Il 20 gennaio c’è qualcosa di più. Dopo aver parlato di scudi, bajocchi e ricevute, conclude:

Io Scrivo l’Oratorio mi diverto, e cogliono il Prossimo. Trattati a subisso, e che la duri vi raccomando l’Economia mille baci al Papa e a tutti gli amici addio (2)

Non volendo guardare maiuscole e punteggiatura c’è tutto, dai contratti che gli si offrivano «a subisso», all’economia (che non manca mai), prossimo coglionato e (propaggine religiosa?) l’Oratorio. Il 13 febbraio mette a confronto il genere «Elevatissimo» con i napoletani e la loro pregiata cucina:

Io Ho quasi terminato L’Oratorio e va benone. E di un Genere però Elevatissimo, e non so se questi mangia Macheroni lo Capiranno. Io però scrivo per la Mia Gloria e non curo il Resto. (3)

Al di là dello stile scanzonato sarà utile sottolineare che una qualche preoccupazione Rossini doveva avere per lo stile ‘elevato’ che si richiedeva e si riteneva confacesse ai soggetti sacri. Un tema su cui torna ad insistere pochi giorni dopo, il 24 febbraio:

L’Oratorio mi costa assai fatica perche di un Genere non di molto effetto Popolare ma Sublime e fatto per acrescere La mia Radicale Riputazione. (4)

Parole da cui si evince forse il proposito di ottenere le laudi che si riservavano al genere ‘nobile’ e ‘sublime’, due aggettivi di cui si faceva ampia profusione discutendo della musica sacra. Se non fosse che il nobile e sublime, come Rossini dimostrò in tanti lavori – da quelli napoletani a Semiramide e al Tell – spettava anche al linguaggio dell’opera seria tout court senza connotazioni bibliche o sacre. Il discorso intorno a questa aggettivazione rischierebbe dunque di essere inane e varrà forse la pena di esaminare invece l’approccio al testo.

4. Nella pratica corrente Rossini usava servirsi sia di collaboratori, sia di autoimprestiti da opere precedenti. Cosa che fece anche con Mosè in Egitto. Ma l’una e l’altra prassi (usuale all’epoca e comune negli autori precedenti, sia in Italia che altrove) in Rossini è sempre singolare e, se mi è consentito il termine, estremamente significativa. Nel caso del Mosè Rossini si concentrò sulle scene d’insieme, come quella delle tenebre che, con un colpo d’ala drammaturgico, apre l’opera (il fatto che nella versione francese questa sia trasferita all’inizio del secondo atto, dopo un primo di vari accadimenti, anche festosi, la dice lunga sull’essenzialità della versione napoletana rispetto a quella posta a servizio delle macchine scenico-drammaturgiche dell’Opéra di Parigi). Concentrarsi sulle grandi scene non poneva l’obbligo di trascurare le arie solistiche, cosa che invece Rossini fece. Sorprende fino ad un certo punto che l’Aria di Amaltea, «La pace mia smarrita», fosse ripresa di sana pianta dal Ciro in Babilonia, opera di genere affine. Con ciò Rossini dava spazio a Frederike Funk che interpretava quel ruolo: uno degli obblighi dunque che tanto pesavano sui compositori dell’epoca e dei quali proprio a Napoli Rossini si era prepotentemente liberato. Qui siamo dunque di fronte ad una eccezione, ma l’Aria si soppresse già nella versione del 1819 quando non cantava più la Funk. Sorprende molto di più che Rossini abbai trascurato le arie dei due protagonisti maschili. L’Aria di Faraone fu infatti affidata a Michele Carafa, apprezzato compositore e amico: il “Caraffino”, come lo chiamava scherzosamente Gioachino, scrisse un nobile pezzo, ma resta estremamente singolare che Rossini avesse evitato di comporlo. Nel 1820, sempre nel corso delle future repliche napoletane, come da me dimostrato in altra sede, Rossini provvide comunque a scrivere, in sostituzione di quello ‘originale’ di Carafa, un numero proprio, l’Aria «Cade dal ciglio il velo». (5) Se si aggiunge che perfino l’Aria di Mosè, «Tu di ceppi m’aggravi la mano», non è di mano di Rossini nell’autografo ci si può convincere che tutto l’impegno destinato al ‘dotto’ e ‘sublime’ fu riservato ai grandi pezzi d’insieme di cui il primo atto è un esempio clamoroso dal punto di vista proprio dell’economia drammaturgica. Alla dolente scena delle tenebre segue la gioia dopo la promessa di Mosè e la restituzione delle luce. Analogamente il finale, ad invicem, presenta la gioia degli Ebrei in procinto di partire, gioia che cede al dolore dopo la notizia drammatica della revoca di Faraone, seguita dalla pioggia di fuoco. In questo primo atto la vicenda privata di Osiride ed Elcia – divisi tra amore e dovere – è posta tra i due grandi blocchi ed affidata ad un duetto. Il secondo atto è strutturato in certo senso in modo opposto al primo. Qui il quartetto e il grande concertato sono collocati al centro, dopo un duetto e la citata Aria di Amaltea poi soppressa. Sorprendente e avveniristica l’ultima parte. Qui Rossini, dopo la già ricordata Aria di Mosè, si impegna finalmente in un Coro, Recitativo ed Aria (così definita nell’autografo), quella di Elcia, «Porgi la destra amata», ma si impegna alla grande trattandosi di un pezzo assai elaborato che trapassa di fatto ad un concertato di intensa drammaticità che sorprese i napoletani e fu lodato dal recensore della prima:

qualche svenevole amatore ha trovato troppo laceranti le grida che accompagnano le parole «È spento il caro bene», nelle quali altri riconoscono un lampo di quella filosofia, dalla quale è stato guidato Rossini nella composizione di questa musica.

Parole che si possono sottoscrivere in pieno, come altre di quell’articolo. Ma su questa architettura del secondo atto va spesa forse qualche altra parola.

Le opere serie del San Carlo erano per lo più in due atti. Nei casi diversi c’è sempre una ragione scenico-drammaturgica. Nel Mosè occorreva predisporre il passaggio del Mar Rosso che problemi ne poneva e ne pose. Dunque la grande scena di Elcia funge da finale secondo. Poi si dette spazio per preparare l’ultima parte. Non si conosce la musica della versione 1818, della quale è rimasto solo il libretto, ma va detto che nel colpo d’ala della Preghiera si concentra di fatto il terzo atto definitivo. Dopo di essa Rossini conclude con aforistica e bruciante asciuttezza. Il modello è quello, caro al Pesarese, dei temporali: una breve tempesta, questa volta di mare a differenza di quelle del Barbiere o di Cenerentola. Poi, finalmente, la calma. L’opera si era aperta, sulla scena delle tenebre, in Do minore, preceduta da tre semplici accordi. Mare e sipario si richiudono sulla conquistata serenità del Do maggiore.

5. Come si evince da queste scarne considerazioni, la drammaturgia “essenziale” con punte elevate nei momenti di insieme è la caratteristica del Mosè in Egitto. La versione francese risponderà ad altri obblighi e lo farà felicemente. Ma il fuoco che domina la versione napoletana è una cifra assoluta ed è il «sublime» coltivato da Rossini di fronte a questo arduo soggetto. Nulla di meglio che fare qualche considerazione sulla fortuna delle due versioni rendendo giustizia su quanto si è spesso detto e scritto sul Rossini ‘in progress’ che tende al Tell conclusivo. Meglio di tutto per questo sarà vedere le reazioni dei contemporanei. Stupirà forse qualche profano apprendere che, di fatto, l’opinione sui due Mosè non fu nei primi anni univoca. Certo la critica francese, dopo la prima del Moïse all’Opéra il 26 marzo 1827, fu unanime nel salutare il passo compiuto dal compositore, ma usò terminologia e angolazione diverse da quelle che, anni dopo, avrebbero ripreso critici quali il Radiciotti. Il Fétis, ad esempio, si rallegrò che Rossini avesse dimostrato alla scuola nazionale francese che si sapeva «cantare anche in Francia». Coglieva così perfettamente il senso del rifacimento: adattamento ad altra lingua, ad altro stile, ad altro gusto, ma non a scapito di quello italiano, semmai con valenza contraria. Del resto nella secolare polemica tra i difensori della musica italiana e del canto e i sostenitori di quella francese e del declamato, Fétis si poneva tra i primi. Non stupisce dunque che Moïse non abbia fatto scomparire dalle scene la versione napoletana nemmeno a Parigi. Sette anni dopo la consacrazione all’Opéra, Balzac scriveva a Madame Hanska:

nous avons ici Mosè, La Semiramide, montés et exécutés comme ces opéras ne le seront jamais, et, chaque fois que l’on donne ou l’un ou l’autre, j’y vais. Ce sont mes seuls plaisirs. (6)

Quel Mosè alle cui repliche accorreva il grande Balzac era quello di Napoli rimasto in repertorio al Théâtre Italien. E sarà quello che gli ispirerà le pagine del romanzo Massimilla Doni, (7) vera trasposizione allegorica dell’opera e tentativo, di miracolosa pertinenza, di evidenziare le due componenti del linguaggio rossiniano presenti nel Mosè in Egitto, quella che per comodità possiamo chiamare drammatica e quella belcantistica. Musicalmente le componenti saranno sempre lo stile grave, sublime, patetico da un lato, e il canto fiorito dall’altro. Su questo doppio binario converrà spendere qualche parola. Sulla grandezza dei passi corali, dei concertati e dei declamati (come «Eterno, immenso») del Mosè si sono versati fiumi di inchiostro. La scena delle tenebre, l’invocazione, definita haendeliana, «Celeste man placata!», il Finale Primo, il Quartetto «Mi manca la voce!», la Preghiera, noti ai più per la ripresa in Moïse, hanno trovato concorde la critica. Lo stesso Balzac collocò «Mi manca la voce!» in una serie ideale di capolavori della musica in lotta contro il tempo, comprendente, tra l’altro, il Finale del Don Giovanni e la Quinta di Beethoven. Ancora quarantadue anni dopo la scena delle tenebre veniva citata nel corso della celebre visita di Wagner a Rossini come prototipo della cosiddetta “musica dell’avvenire”. Ormai del vecchio Mosè non si parlava più con cognizione di causa. Ma all’occhio e all’orecchio moderno, dopo i recuperi rossiniani e non solo, ciò che renderà sorprendente e miracoloso Mosè in Egitto, è che in questa versione quelle pagine, poi diluite nella versione francese, stanno in stretta contiguità e raggiungono un’ideale unità ad onta (si dovrà dire?) dei passi belcantistici e dei duetti. Rispetto alla lussuosa e qualche volta lussuriosa sorella parigina, l’edizione napoletana vanta così una castigatezza da «azione tragico-sacra», come suona felicemente il frontespizio di Tottola. Il genere para-oratoriale è trattato non solo con ampiezza di idee e mano ferma, ma soprattutto senza concessioni. Perfino l’intreccio amoroso, tallone a cui si sono volti i nemici dell’opera, è riportato nei rigidi canoni della classicità. Non solo Osiride ed Elcia sono segretamente sposati, ciò che nell’intenzione di Ringhieri e Tottola rende ‘giusto’ il loro amore, ma sono colti nel momento del dissidio tra amore e dovere, nodo sempiterno della tragedia. Non vicenda di singoli dunque, ma di singoli di fronte ad un dramma collettivo per il quale finiranno per soccombere e al quale saranno sacrificati. Se si biasima dal punto di vista drammaturgico questa parte del libretto, come pure è stato fatto, occorrerà far scendere il fuoco non già sull’Egitto, ma su buona parte della storia del teatro.

Varrà a questo punto la pena di esaminare brevemente come è stato risolto musicalmente questo versante. Sarà pur accettabile l’immagine di un Rossini posto come Giano bifronte con un occhio al futuro e l’altro al passato e cioè al Bel Canto (sol che si ricordi che cambiano i venti e le direzioni e che il Giano sta lì immobile e può essere a sua volta guardato a gusto dell’elemento mobile, e cioè dello spettatore) e che non si considerino (come pur si è fatto a lungo) gli stilemi del Bel Canto destinati a mero edonismo. Occorrerà però, a questo punto, fare il conto dei pezzi che nel vecchio Mosè guarderebbero indietro: sono i duetti (Elcia-Osiride nel primo atto, Osiride-Faraone nel secondo), più le tre arie di Faraone, Mosè ed Amaltea. Delle tre arie e della loro singolare vicenda si è detto. Si tratta di numeri chiusi vecchia maniera che nello svolgersi della vicenda esecutiva controllata da Rossini furono considerati, come sono, sopprimibili o eseguibili senza pregiudizio dell’effetto globale, come di fatto avvenne già nelle prime esecuzioni di Napoli. Diverso il caso dei duetti, pagine ambiziose, che ripropongono alcuni di quei moduli che trionfano in un altro Rossini, quello per fare un esempio dei settori belcantistici di una Donna del lago, di un Ricciardo e Zoraide. Può essere difficile accettarli in un’opera che sembra tutta di segno opposto. Sembra, ma non è, dato che appunto in quei casi Rossini fa i conti con il privato posto di fronte al collettivo. E risolve il problema a modo proprio, ma comunque drammaturgicamente pertinente (sol che non si voglia a tutti i costi il dramma romantico). Il Duetto «Ah, se puoi così lasciarmi» che Rossini conservò anche a Parigi, è il momento in cui i due innamorati si trovano di fronte ad una situazione senza uscita. Il loro Bel Canto si estrania dal sentimento ed avviene a questi personaggi quello che capita a quelli delle opere comiche rossiniane: l’individuo cede alla legge meccanica, così come nelle arie solistiche si adagia nella forma precostituita dell’affetto. Dunque qui il canto invoca una superiore bellezza che travalica il dramma. D’altra parte, nel già citato momento supremo del Finale Secondo, l’Aria di Elcia congiunge belcanto e dramma in felicissima e audace sintesi. Questa dicotomia di accenti, modernissima (senza voler per questo – ma perché no poi? – invocare il distacco di brechtiana memoria) era ben chiara allo stesso Balzac. In Massimilla Doni il marchese Capraia, nobile, ricco e sordido, che viveva come Diogene e faceva segretamente la beneficenza, rappresenta l’amante del bello ideale e, in musica, del Bel Canto. Al suo avversario, il Duca Cataneo, dirà:

Il est déplorable que le vulgaire ait forcé les musiciens à plaquer leurs expressions sur des paroles, sur des interêts factices… La roulade est l’unique point laissé aux amis de la musique pure, aux amoureux de l’art tout nu.

Il senso è spiegato da Massimilla ad uno sprovveduto francese: cosa resta all’individuo, membro di un popolo oppresso (sia esso quello ebreo o quello italiano o quello, aggiungiamo noi, che va a teatro) se gli si toglie quest’ultima possibilità? Il Giano bifronte guardava sì al dramma biblico e corale, ma guardava anche altrove, al vecchio sogno del riscatto attraverso la bellezza assoluta: riconquistare quello sguardo e quella bellezza, sempreché si abbiano gli interpreti adatti ed avvertiti, è anche il compito di chi vuol giudicare nella sua integrità il Mosè in Egitto e, in generale, il cosiddetto Rossini serio e, di questo, i capolavori napoletani. Che anche altrove, proprio nel successivo Maometto II, tornano a mettere in conflitto il versante musicale ‘puro’ e quello drammaturgico, privato e pubblico, sentimento del singolo e obblighi della collettività. Non sarà un caso che saranno queste due le opere scelte da Rossini per le versioni francesi. Che sono appunto non rifacimenti, ma altre e magari ‘alterne’ versioni.

Bruno Cagli

1 In Lettere e Documenti, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, vol. IIIa, Lettere ai genitori, Pesaro, Fondazione Rossini, 2004,  p. 197.

Ivi, p. 198.

Ivi, p. 199.

Ivi, p. 200.

5 Analogo procedimento in La Cenerentola. Qui nella prima versione Rossini affidò ad Agolini l’Aria di Alidoro che, di fatto, era deputata a chiarire la morale della vicenda. Questo nel 1817. Quattro anni dopo tuttavia ne scrisse, sempre a Roma, una propria, la monumentale «Là del ciel nell’arcano profondo» destinata al basso Moncada.

6 Lettera del 15 dicembre 1834 in Honoré de Balzac, Lettres à Madame Hanska, tome I, Paris, Editions du Delta,1967, p. 282.

7 Su questo romanzo – a lungo mal compreso dalla stessa critica francese (i commentatori spesso seguivano l’analisi dell’opera fatta da Balzac sugli spartiti della versione francese e non su quella napoletana della quale non avevano alcuna contezza. Ciò con tutti i fraintendimenti che è facile immaginare) – si veda Bruno Cagli, Da Carpani a Balzac: un itinerario estetico rossiniano, in Rossini, Raffaello e il bello stile, catalogo della mostra ospitata ad Urbino nel 1993 a cura dell’Accademia Raffaello di Urbino e della Fondazione Rossini di Pesaro, Urbino, Quattroventi, 1993, pp. 15-33.


«Venga Mosè»

L’usanza, vigente tra Sette e Ottocento nei nostri teatri, di sostituire in tempo quaresimale il melodramma propriamente detto con un suo succedaneo di similari tipologie strutturali e spettacolari ma di argomento sacro, ben possiamo chiamarla compromesso all’italiana. Si trattava in breve, di salvar capra e cavoli nei rapporti formali sussistenti tra potere civile e potere chiesastico, mediante una soluzione fondata sulla forza della formalità che fa aggio sulla sostanza delle cose. A tacitare l’istituzione clericale con i suoi veti, che di Quaresima escludevano dalle scene gli spettacoli profani, e insieme a venire incontro alla voglia d’opera dei buoni devoti, irriducibili consumatori di arie e di concertati, soccorrevano soggetti aventi una qualche attinenza con la storia sacra e corredati di un apparato musicale ove i consueti istituti formali dell’opera seria di tipo corrente risultassero discretamente paludati di qualche struttura attinente il genere oratoriale, quali la polifonia corale e un certo tono sostenuto nei recitativi. In siffatte «azioni sacre» (la denominazione è metastasiana) l’esordiente Rossini si era già imbattuto a Ferrara, e con onore, col Ciro in Babilonia. Ma ben altro attendeva il Maestro in un regno delle Due Sicilie che nei suoi rapporti con l’istituzione ecclesiastica si piccava di un rigoroso giurisdizionalismo maturato nel clima politico e culturale del tardo Settecento: clima che in pratica si traduceva in una rigida osservanza formale degli equilibri stabiliti tra i due poteri.

Significativo di questo stato di cose, e del conseguente senso dato da Rossini al proprio impegno, il fatto che, nella corrispondenza ai genitori di questo inizio del 1818 egli (tra le solite, colorite sgrammaticature, qui fedelmente riportate) non chiami altrimenti che «oratorio» la composizione cui sta dando mano: di un genere

Elevatissimo, e non so se questi mangia Macheroni lo Capiranno. Io però scrivo per la Mia Gloria e non curo il Resto.

Giacché

l’Oratorio mi costa assai fatica perche di un Genere non di molto effetto Popolare ma Sublime e fatto per acrescere La mia Radicale Riputazione.

Da parte dell’autore di quanto di più grande la musica europea stava in allora producendo, più esplicito e fermo non potrebbe essere l’atto di fede nella classicistica gerarchia dei generi, che poneva al vertice quello attinente al sacro.

La committenza sancarliana dell’oratorio quaresimale coincise col primo assaggio di Rossini col librettista designato da Barbaja come «poeta e sottodirettore dei Reali Teatri». Si trattava di Andrea Leone Tottola (?-1831), verseggiatore attivo nel mondo operistico dal 1796 e autore di alcuni titoli di successo anche prima del suo incontro rossiniano dal quale nasceranno, oltre a quello dell’oratorio in questione, i testi di Ermione, La donna del lago, Zelmira e, in collaborazione con Giuseppe Palomba, La gazzetta. Personaggio dai talenti discussi, «Torototela», come lo ribattezzò Rossini, godette della stima di Barbaja che ne tesse gli elogi in una lettera del 14 dicembre 1812 al duca di Noja, giustificandone la nomina come colui che si era dimostrato «zelante nel secondare le mie istruzioni». Uno yes-man, ma tale da soddisfare padroni come Barbaja e Rossini, che sapevano quello che volevano e non guardavano in faccia a nessuno.

Più che nelle vicende del popolo d’Israele quali si leggono nell’Esodo (I-15), Tottola trovò i materiali drammatici utili alla stesura di un’opera quaresimale in travestimento oratoriale in L’Osiride, una tragedia settecentesca di argomento che diremmo para-biblico, dovuta al monaco olivetano Francesco Ulisse Ringhieri e stampata in Padova nel 1780. Il dramma offriva al librettista un sostanziale intreccio operistico, ove l’epos di un conflitto di popoli faceva da sfondo all’amore contrastato di Osiride, figlio del Faraone, per la fanciulla ebrea Elcia, e alle ambasce della regina Amaltea, amica di Israele e spettatrice impotente della rovina che travolgerà la famiglia reale e tutto l’Egitto. L’«azione tragico-sacra» in tre atti intitolata Mosè inEgitto andò in scena al San Carlo il 5 marzo 1818, interpreti principali Michele Benedetti protagonista, Raniero Remorini (Faraone), Andrea Nozzari (Osiride), Giuseppe Ciccimarra (Aronne), Isabella Colbran (Elcia), Frederike Funck (Amaltea), Gaetano Chizzola (Mambre), Maria Manzi (Amenofi). Appena turbato da un banale incidente scenografico occorso al terz’atto (sul quale ha sghignazzato tutta una tradizione biografica, sulla scorta di uno Stendhal al suo peggio) il successo fu eccelso:

dell’Oratorio non ve ne Parlo perché avrete ricevute di già le notizie

così Gioachino alla madre, il 16 marzo; concludendo col consueto ritornello trionfalistico, ravvivato questa volta da una riflessione personale non proprio pleonastica:

è certo che una musica simile non la farò più perché non avrò tanta pazienza e facilità come ebbi questa volta.

Che l’«azione tragico-sacra» rossiniana fosse particolarmente idonea ad un travestimento francese fu intuito da Ferdinand Hérold durante un viaggio esplorativo compiuto in Italia nel 1821 per cercarvi nuovi cantanti e nuove opere per conto di Viotti, allora al vertice della carriera di organizzatore musicale come direttore dell’Opéra e del Théâtre Italien. Scriverà Hérold al suo patron:

L’oratorio rossiniano Mosè in Egitto è certamente una delle sue migliori opere. […] Credo che sia la sola appropriata per il gusto francese, sia per il libretto sia per la musica, e penso che sarà di grande effetto. Ho discusso questa mia idea con Rossini, il quale ne sarebbe felice, e si è detto pronto ad apportarvi diverse modifiche.

Sarà lo stesso Rossini a confermare direttamente a Viotti questa sua disponibilità

scrivendo nuovi pezzi in uno stile ancora più religioso di quelli che il mio oratorio già contiene.

La traduzione francese dell’«oratorio» (come l’autore continua nonostante tutto a chiamarlo) venne affidata a Castil-Blaze, il quale nel 1822, terminato il lavoro, se ne uscirà in un elogio sul conto del quale è superfluo fare la tara dell’interesse personale:

Ha forme grandiose e colossali, degne del nostro miglior teatro; lo stile è severo ma veemente e appassionato. Poiché tali effetti sono tanto più evidenti negli ensembles, sarebbe anche un’occasione ottima per utilizzare al meglio l’eccellente coro del teatro.

Ma la commissione di lettura dell’Opéra getterà acqua sul fuoco, bocciando la proposta di Castil-Blaze e girando la partita al Théâtre Italien, dove l’«oratorio» apparve in ‘prima’ francese il 20 ottobre 1822, avendone accoglienza non proprio entusiastica.

Non si parlò più del Mosè in Egitto fino al gennaio 1827 quando Rossini, forte ormai della posizione nel frattempo conseguita nel mondo teatrale parigino e avendo alle spalle il successo del Siège de Corinthe ricavato dal Maometto II,si accinse alla seconda rigenerazione francese di un capolavoro italiano da tempo a tale operazione designato. Questa volta il riadattamento del testo fu opera di due rinomati verseggiatori stanziali, prossimi entrambi all’appello per il Tell: Luigi Balochi, quello stesso del Viaggio a Reims e di Maometto fatto Siège, ed Étienne de Jouy, che da tempo condivideva con Spontini la gloria della Vestale.Moïse et Pharaon, ou Le passage de la MerRouge apparve così sulle scene dell’Opéra il 26 marzo 1827, interpreti Nicolas-Prosper Levasseur, protagonista, Henri-Bernard Dabadie (Pharaon), Adolphe Nourrit (Aménophis), Louise-Zulme Dabadie (Sinaïde), Laure Cinti Damoreau (Anaï), Alexis Dupont (Eliézer), Ferdinand Prévost (Aufide), ? Bonel (Osiride), ? Mori (Marie). Il successo fu incondizionato:

Era urgente che un miracolo ringiovanisse questo vecchio e debole avanzo dell’antico regime che si chiama Opéra

così Le Globe, proseguendo:

Il Maestro Rossini ha trasformato un sublime abbozzo di giovane artista in una composizione perfetta di un genio giunto alla sua maturità, che non solo ha incantato l’ignorante platea, ma ha trovato ardenti apologisti anche nei professori del Conservatorio, e in particolare nell’uomo di talento [Cherubini, n.d.r.] che lo dirige.

Al pari di quella del Maometto, obliterato da Le siège, anche la sorte storica del Mosè in Egitto, giudicato «sublime abbozzo» giovanile perfettibile in virtù di un Rossini pervenuto a maturità, era segnata. A cominciare dallo stesso San Carlo, che nella Quaresima del 1829 giubilò l’«oratorio» adottando il «melodramma sacro» venuto da Parigi nella versione ritmica italiana di Calisto Bassi, per seguire con Casa Ricordi che ne pubblicò lo spartito. Mosè tout court, così il suo titolo definitivo, non tarderà ad assestarsi nel repertorio dei teatri lirici, grazie all’attrattiva esercitata dalla parte protagonista sui celebri bassi avvicendatisi nel tempo sulle scene: superstite titolo rossiniano accanto al Tell, anche se entrambi a debita distanza dal Barbiere.

La trasformazione del Mosè in Egitto in opera francese comportò l’invenzione di un intero atto da far precedere a quello che originariamente si apriva sulla Scena delle Tenebre, che è dire, su una tra le meraviglie assolute della creatività rossiniana e di tutto il teatro in musica. Vi si esalta quel clima oratoriale nel segno del quale la composizione era stata concepita e che andrà alquanto disperso nell’episodicità narrativa del primo atto francese. Carattere che, come s’è visto più sopra, era ben chiaro nella mente di Rossini e che aveva subito condizionato i suoi orientamenti stilistici ed espressivi. Un dato di estrema importanza critica e da non perdere mai di vista nel giudicare il profilo stilistico di una partitura che fin dalle prime battute si veste dei panni curiali del genere sacro, lo stesso che da sempre faceva obbligo d’etica professionale ai compositori che vi si accostavano l’impegnarvi al meglio le proprie risorse tecniche e inventive.

Incidentalmente si ricorderà che nelle composizioni sacre di stilus mixtus in uso a partire dal secolo XVIII, i brani iniziali e conclusivi rivestivano specifico intento caratterizzante e venivano di regola concepiti in stile rigoroso. Di fatto, la Scena delle Tenebre è una vasta architettura per soli e coro ove l’orchestra svolge una funzione di fondamentale importanza. Rispetto ad altri e non meno ragguardevoli esempi di stile elevato, riscontrabili in altri melodrammi rossiniani (si pensi solo a Ermione, a Maometto II) la sua esplicitata “sublimità” stilistica si evince, di primo acchito, dalla struttura globale, concepita in una forma-sonata al completo di esposizione bitematica, sviluppo, ripresa e coda. A tal proposito va osservato che l’ipotesi, avanzata da qualche studioso, che tale scelta formale tragga modello dal «Kyrie» di alcune Messe sinfoniche di area viennese (si è fatto il nome di Mozart e della sua Messa in Do minore K. 417a) risulta palesemente infondata, per la semplice ragione che la vasta tripartizione – Kyrie I, Christe, Kyrie II – di tali sezioni di Messa è altra cosa dalla compatta struttura sonatistica propriamente detta che informa la mirabile pagina rossiniana e che semmai è riscontrabile in alcune altre sezioni di Messe del periodo classico: ad esempio, nel «Benedictus» della haydniana Theresienmesse Hob. XXII, 12 (1799), o nel «Gratias agimus tibi» del «Gloria» della Missa Solemnis in Re minore di Cherubini (1811).

Non mancavano peraltro a Rossini altri modelli formali mutuabili, solo se si pensi alla letteratura quartettistica e pianistica viennese, ben nota e da tempo al Tedeschino. Il quale questa volta si direbbe si spinga oltre, nell’imminente futuro di certe invenzioni dell’ultimo Beethoven: parliamo dei movimenti iniziali delle op. 101, 109, 110, in una forma-sonata di una concezione che chiameremmo minimale per la forte concentrazione strutturale; concezione che in certo Mozart ben noto a Rossini (quello dell’aria «Tradito, schernito» in Così fan tutte, II, 9) fa coincidere estrema icasticità drammatica con estrema concisione formale. Schematizzando, le 76 misure del pezzo, nella tonalità di Do minore, possono essere ripartite come segue: 1) un’esposizione (ms. 1-33) comprendente un secondo episodio tematico alle parole «Oh Nume d’Israel!» e nel relativo maggiore (Mi bemolle) della tonalità d’impianto; uno sviluppo (ms. 33-44); una ripresa e coda, col ritorno del secondo episodio tematico alle stesse parole ma in un regolamentare Do maggiore, dal quale il discorso volge alla conclusione tornando al Do minore fondamentale. Paradigmatica forma sonatistica, dunque, cui Rossini conferisce una peculiare valenza drammatica fondata sopra un’opprimente circolarità: ove l’immutato disegno dei secondi violini, che quasi ininterrottamente l’avvolge, crea un senso d’immoto movimento, ossimoro che sembra discendere dagli spazi cosmici e che terribilmente esprime il peso infinito della mano di un Dio biblico punitore.

Da par suo, Giorgio Vigolo parlerà a tal proposito di

assoluto dominio formale del musicista su una materia, così convulsa e disperata, come l’angoscioso buio solcato di lamenti e di gemiti.

Il leopardiano naufragio in siffatto mare di dolore cosmico altresì si evince dal decorso armonico, il quale non si discosta dall’orbita del tono d’impianto, e da quello dinamico, costantemente ancorato a un ‘piano’ appena – e significativamente – interrotto due volte alla già ricordata invocazione corale che coincide col secondo motivo sonatistico. Nell’assoluto rigetto del menomo ammennicolo polifonico, frantumate, al contrario, in invocazioni di segno quasi espressionistico e fluttuanti in un sillabato affannoso che si avvicenda a sezioni del motivo dominante ripreso dall’orchestra, le voci umane, solisti e coro, s’agitano ciecamente come poveri insetti sorpresi nei loro anfratti dalla «misteriosa estraneità di oscure forze della natura» (Vigolo). Un solo, potentissimo gesto teatrale, quel «Venga Mosè» di un Faraone sgomento e rassegnato, ascendendo da dominante a tonica segnala una ripresa sonatistica che del Mozart e del Beethoven più tragici ha tutta l’ineluttabile necessità strutturale ed espressiva.

Con quello che è forse da ritenere come il più splendido dei suoi recitativi, Mosè inneggia alla misericorde onnipotenza divina, invocando il ritorno della luce: il che avviene in 19 misure di conclamatio orchestrale e corale e nella tonalità cui Haydn in Die Schöpfung già aveva conferito prerogative solari. Tripudiante meteora che squarcia ma non dissolve il clima immoto della scena, il quale tosto si ricompone, questa volta nei sensi di un’estatica contemplatività. A una forma-sonata devitalizzata da ogni motilità dialettica (giusta una scelta che, ripetiamo, l’estremo Beethoven alcuni anni dopo farà propria) subentra il canone, un’altra forma votata all’immobilità del tempo teatrale e di quello interiore, e ancora celebrata in Così fan tutte (II, 16) e in Fidelio (I, 4). Si tratta ovviamente di un cosiddetto falso canone, quello in cui ogni voce, una volta esposto il motivo, procede in modo autonomo e diversificato: istituto formale per eccellenza rossiniano, cui si devono taluni dei momenti eccelsi del compositore. Esposto dal primo corno sulle placide terzine dell’arpa e sulle morbide ‘armonie’ tenute degli altri tre corni e dai fagotti, il radioso motivo passa attraverso i cinque personaggi di scena e il coro, anche questa volta procedendo attraverso un circoscritto àmbito tonale. A dissipare lo straniamento contemplativo di questo episodio e, più in generale, l’irreale stasi spaziotemporale dominante in tutta la prima metà di questo primo atto, subentra il concitato dialogo nel quale Faraone, invano contrastato dal figlio, ribadisce la propria promessa agli Ebrei. Restituita vivacemente al tempo reale, la scena sfocia nel giubilo di una stretta conclusiva dominata da un rapinoso motivo che, se non fosse rossiniano, potremmo dire weberiano (Der Freischütz, ouverture e aria di Agathe, II-2).

Dopo tanti e tali affetti collettivi, nel successivo duetto di Elcia e Osiride subentrano quelli privati di una coppia infelice che l’«azione tragico-sacra» napoletana cautelosamente volle unita in segrete nozze, mentre l’opera francese francamente presenterà come amanti. Un rapporto la cui affranta tenerezza di retrogusto metastasiano Balochi e Jouy correggeranno nel Moïse con lo spruzzo d’assenzio del duro maschilismo di un amante-padrone che rinfaccia benefici e accampa diritti. Il duetto apre la sequela dei pezzi solistici ad una o due voci: sei in tutta l’opera e distribuiti nei primi due atti mentre il terzo ne è privo. La successiva aria di Faraone, «A rispettarmi apprenda», composta in un primo tempo da Michele Carafa, nelle riprese napoletane del febbraio-marzo 1820 (quindi, come ha dimostrato Bruno Cagli, prima della recita parigina dell’opera avvenuta nel 1822) verrà da Rossini rimpiazzata di propria mano con «Cade dal ciglio il velo», un brano di effettistico virtuosismo che non troverà accoglienza nel ripensamento del Moïse, lasciando Faraone privo di chance solistica.

All’Israele gioioso e rubesto di re David che sfrenatamente danza attorno all’Arca dell’Alleanza (2 Samuele, 6), di Miriam che inneggia all’attraversata del Mar Rosso (Esodo, 16-20 segg.), del Salterio più tripudiante, ma anche all’esuberanza dei violinisti nei ghetti di Kiev e di Odessa, sembra rifarsi idealmente il Rossini che detta la Marcia e Coro, brillantissimi suoni e canti festivi con i quali ha virtualmente inizio il Finale Primo del Mosè napoletano, poi integralmente recuperato per l’Opéra. Vi si ravvisa un’eco di certe Marce militari a quattro mani di Schubert; con qualche ironia il germanizzante Busoni se ne ricorderà, citandoli come musiche per banda nel primo atto di Die Brautwahl. La stessa scena include il breve, elegiaco duetto di Elcia e Amenofi «Tutto mi ride intorno!», ricordo di un altro duetto femminile, quello di Desdemona e Emilia in Otello (I-4) di analoga strategia drammaturgica, giacché sulla fragile sensibilità premonitrice delle due donne incombe un imminente dolore.

Secondo un modello collaudato e già divenuto esemplare nella civiltà melodrammatica definita da Rossini, il Finale Primo propriamente detto è magistralmente concepito in quattro grandi sezioni: la prima e la terza strettamente affini per la continuità dei materiali tematici e dei parametri agogici (Allegro), nonché dei valori drammaturgici ivi posti in gioco; la seconda e la quarta rispettivamente riconoscibili nel concertato in movimento di Largo e nella conclusiva, rapinosa stretta. Il rigoroso integralismo costruttivo ivi adottato rimarrà sempre fonte di ammirazione, sbalzando il suo artefice ben al di sopra degli operisti anche di prima sfera del suo tempo. Tali tecniche compositive non trovano riscontri plausibili né in Italia né in Francia, ma nel classicismo dei Viennesi e di Cherubini. Un’intima correlazione infatti sussiste tra le situazioni drammatiche ivi rappresentate, i materiali tematici per esse impiegati e la loro coniugazione armonica: materiali e campi tonali che quanto più l’azione tragicamente incalza, tanto più si contraggono in singoli incisi sottoposti a convulse modulazioni. Un prodigio di libera e tutta scenografica invenzione librettistica, ennesima infrazione alla parola biblica, convoglia le rapide di questo fiume in piena nel canyon della vorticosa stretta in Do minore che conclude il primo atto nei tratti di quella esaltazione sonora di segno che si è detto dionisiaco: rito misterico rossiniano ove tragedia e rinascita riconoscono nel fuoco vitalistico che le assimila la propria identità di natura.

La componente propriamente melodrammatica prevale su quella oratoriale nel secondo atto, dominato da due numeri solistici di diversa importanza e qualità inventiva, entrambi ripresi nel Moïse. Il duetto «Parlar, spiegar non posso», nel quale Faraone propone al figlio, suscitando il suo sgomento, un matrimonio politico con una principessa assira, è una pagina di ordinaria amministrazione rossiniana nella quale l’autore della musica eccelsa precedentemente ascoltata rimette, per così dire, i piedi sulle tavole del palcoscenico in un’autocompiacente imitazione di se stesso. Un «oscuro sotterraneo, a cui si scende per tortuosa scala» conduce al secondo duetto dei coniugi sventurati, estremo colloquio nel disperato tentativo di sottrarsi alla morsa crudele del dovere: un tópos del teatro classico francese e del melodramma metastasiano che ha vita lunga nell’opera del primo Ottocento e cui Rossini pagherà da par suo l’ultimo tributo nel Tell. Precede il recitativo del duetto un grande preludio orchestrale dalla raffinata calligrafia concertante, decisamente anodina quanto a significazioni drammatiche, ma destinata a far «ballare» (come avrebbe detto Verdi) gli eccellenti legni del San Carlo. Il preludio servirà da modello storico ad altri analoghi brani introduttivi: si pensi solo a quelli della Lucia di Lammermoor (I, 4) e della Saffo di Pacini (III, 3), non a caso composte anch’esse per Napoli. Nella tipica definizione formale ed espressiva di un duettino, «Quale assalto! qual cimento!» si qualifica come microcosmo di un contenuto strazio nel Sol minore centrale, di un irresistibile quanto vano abbandono dei sensi e delle anime nel modo maggiore del tenero cantabile conclusivo. Si avverte, in questa pagina del Maestro, il riverbero non poi tanto remoto dell’esordiente adolescente di Pesaro, cantore di altri e più innocenti amori, quelli di Siveno e Lisinga nel Demetrio e Polibio (I, 3).

Più intrigante è la vasta Aria di Elcia con coro, «Porgi la destra amata», posta a conclusione del secondo atto. Mentre nell’«azione tragico-sacra» tale brano (che nella sua vasta articolazione, comprendente l’intervento di tutti i personaggi di scena e del coro, riveste le funzioni di finale d’atto) coincide con la catastrofe del dramma virtualmente concluso con la morte del figlio di Faraone colpito dal fulmine divino; nel suo travestimento francese assumerà una drammaturgia di tono decisamente accomodatizio. Ben altra cosa è infatti lo strazio di una donna innamorata che, dopo avere rinunciato all’amato bene se lo vede cadere morto ai piedi, dal ricatto morale e sentimentale di una matrigna nei toni di un patetismo di stampo squisitamente borghese. Degna consorte di papà Germont, convenientemente attorniata da Dames et Seigneurs, Sinaïde erediterà comunque il bell’Adagio cantabile confortato dall’alone corale; subirà non senza trasalimenti le smanie del figliastro in attesa della chiamata ‘dans la coulisse’ che invita entrambi al tempio d’Iside; concluderà l’atto con la brillante stretta che vede le parole già uscite di bocca ad Elcia, «Tormenti! affanni! smanie! / Voi fate a brani il core!» sostituite con «Qu’entends-je! ô douce ivresse»: a gloria futura di Eduard Hanslick.

Breve e conciso, il terzo atto s’incentra nella pagina che fin dal suo primo apparire sulle scene del San Carlo sancì le immutate fortune storiche dell’epopea ebraica intonata da Rossini. Si tratta, come tutti sanno, della Preghiera «Dal tuo stellato soglio», composta per la ripresa del Mosè in Egitto avvenuta il 7 marzo 1819 un anno dopo la ‘prima’ come momento culminante di un drastico ripensamento che interessò tutto il terzo atto. Semplicissima la forma, consistente di un canto strofico a ritornelli ove Mosè, Aronne, Elcia si passano la stessa frase melodica nelle regolamentari otto misure, delle quali le ultime sei riprese dal coro.

Le melodie non si fanno né colle scale, né coi trilli, né coi gruppetti

scriverà Verdi nel 1871 a Opprandino Arrivabene, non senza aciduli riferimenti al Barbiere, alla Gazza ladra e a Semiramide. Proseguirà, aggiustando il tiro:

Bada bene che melodie sono, per esempio, il Coro dei Bardi [La donna del lago, finale primo n.d.r.] la preghiera del Mosè ecc.

E melodia rossiniana tipologicamente esemplare è quella della Preghiera, che s’apre col salto alla tonica dalla dominante in anacrusi e prosegue ascendendo per gradi col sussulto di un’alterazione cromatica sul quarto, fino alla dominante superiore. Una formula melodica ricorrente in tutta la musica, e non solo teatrale, del Maestro; innumeri ne sarebbero gli esempi da ricordare. Idea permeata di un plasticismo espressivo che si direbbe gestuale e che altrove (si pensi solo alle sue apparizioni più memorabili in Tancredi, Otello, Armida, Donna del lago) è chiamata ad esprimere di norma ardenti aneliti individuali: quel «cantar che nell’anima si sente» tanto spesso citato da Rossini nelle sue private riflessioni estetiche. Qui è una collettività a farsi partecipe delle invocazioni dei singoli, fintanto che, con una strategia assolutamente schubertiana del contrasto modale, il Sol maggiore conclusivo irrompe come raggio di sole, investendo il motivo che ne esce radicalmente trasfigurato nella sua valenza espressiva: non più trepida invocazione, ma fidente abbandono alla Provvidenza divina.

Il cerchio magico dell’ineffabile vitalismo rossiniano, già individuato dal rossiniano Schopenhauer, non poteva spezzarsi a questo punto, e di fatto abbraccia quant’altro di grande rimane nella partitura. Un topico ritmo dattilico a imitazione del galoppo della sopravveniente cavalleria egizia introduce, si frappone, scompare inghiottito dalla pagina sinfonica descrittiva della prodigiosa attraversata del Mar Rosso, pagina la cui primigenia configurazione è già tutta nel Mosè napoletano, ma che in quello parigino riapparirà significativamente rigenerata nell’orchestrazione e soprattutto nella parte conclusiva. Agli effetti onomatopeici di genere temporalesco e catastrofico, che per Rossini e per il melodramma coevo o precedente non costituivano certo novità, subentra alla fine la pace delle onde placate; e un presentimento goethe-mendelssohniano aleggia in questa rossiniana Meeresstille und glücklicheFahrt (o se più piace, in queste Ebriden nel Mar Rosso) sulle ali della alcionia melodia che fiorisce dal pacificato Do maggiore delle ultime misure.

Giovanni Carli Ballola