L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

Valore e cimento

   Pronti abbiamo e ferri e mani […]

               Quanto vaglian gl’Italiani

                           Al cimento si vedrà.

                           da L’Italiana in Algeri

1. La vulcanica attività teatrale italiana del primo Ottocento obbediva a precise regole. La prima e la più ineludibile era forse quella delle “novità”. Ogni stagione che si rispettava doveva basare il repertorio su opere nuove, nuovissime. Di conseguenza anche i maggiori successi non restavano in repertorio più di qualche stagione e, come affermava Stendhal, persino capolavori indiscussi divenivano in breve la risorsa di impresari di terza categoria. Questa realtà dinamica favoriva un continuo ricambio dei destinatari della committenza: i compositori e, di conseguenza, l’esordio dei giovani talenti. Pronubi qualche cantante affermata, qualche maestro venerato, qualche impresario ansioso di successo, il giovane talento poteva cimentarsi precocemente sul palcoscenico. Rossini debutta a 18 anni al San Moisè di Venezia, Pacini è appena diciassettenne quando inizia a sfornare opere su opere, Donizetti è poco più che ventenne, mentre Mercadante esordisce in teatro a 24 anni. Infine, prima che tempi e costumi mutassero, anche Bellini tra i 24 e i 25 inizia la carriera tea-trale. Le opere prescelte per il debutto erano per lo più quelle meno impegnative e cioè le farse (opere in un atto spesso comiche, raramente semiserie o di “mezzo carattere”) oppure opere più ampie, ma quasi sempre buffe o semiserie. Fa eccezione Mercadante che, grazie al successo di alcuni balli, ottiene di debuttare al San Carlo con un’opera addirittura mitologica, L’Apoteosi di Ercole. Contraltare di questo panorama cangiante era il precoce ritiro dal teatro e un compositore, pur se onorato autore di acclamati successi, verso la mezza età non aveva spesso altra scelta che quella onorevole, ma certo meno fruttuosa economicamente, di dirigere una delle tante grandi cappelle musicali che dalle chiese sfornavano annualmente strumentisti e soprattutto cantanti. L’avvento e l’affermazione clamorosa di Rossini cambierà profondamente questo panorama, ma il suo precoce ritiro dal teatro percorre una strada analoga e, pur essendo il compositore di maggior successo tra gli anni Venti e Quaranta, e pur essendo autore del Barbiere di Siviglia, il primo titolo della storia del teatro musicale ad essere rimasto ininterrottamente sulle scene, vedrà, nella seconda fase della sua vita, uscire di repertorio buona parte dei suoi titoli. Titoli che, come ben sappiamo, saranno l’oggetto, nei nostri giorni, della cosiddetta Rossini-renaissance.

Se il debutto di un giovane compositore avveniva per lo più con titoli legati al comico o col comico al loro interno, la mira alta di ogni compositore non poteva tuttavia essere che l’opera seria, quella con la O maiuscola. Ma a quella, salvo qualche eccezione, si arrivava dopo i primi successi. Ad onta del radicale rinnovamento che l’opera buffa aveva registrato e che rispecchiava quello più profondo del mondo socio-politico (basti pensare ai libretti dell’abate Casti e, per citarne uno, al suo Re Teodoro in Venezia, o a quelli di Da Ponte per Mozart) il punto di arrivo era il titolo nobile da ospitare in grandi teatri. A Napoli, allora capitale musicale d’Italia, il San Carlo poteva accogliere solo opere serie, mentre l’opera buffa era destinata a teatri minori e magari prosperava in città in cui il teatro era di dimensioni per così dire più familiari. Così Rossini, impegnato a Napoli con opere regali come Elisabetta regina d’Inghilterra o Otello, poteva riservare in campo buffo due capolavori assoluti a Roma, città teatralmente di second’ordine, con impresari paciocconi e sale di dimensioni ridotte, dove il Pesarese si presentava magari in ritardo e dove il titolo definitivo si sceglieva a pochi giorni dalla chiusura della stagione. E saranno, i due capolavori, Il barbiere e La Cenerentola allestiti in tutta fretta. Il primo di questi due titoli immortali fu, come è noto, costretto a sfruttare gli ultimi giorni della stagione di Carnevale, quella più importante per la vita teatrale italiana. Stagione che si apriva il giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre, e si chiudeva rigorosissimamente a mezzanotte del martedì grasso per dar spazio alla quaresima e al periodo di digiuno, penitenza e astinenza, non solo alimentare, ma anche dagli spettacoli.

2. Se la stagione di carnevale era quella precipuamente destinata al teatro in quasi tutti gli stati italiani, il funzionamento delle sale era permesso anche in altri periodi, ma il divieto di dar spettacoli durante l’avvento e la quaresima e magari le novene (come quella di San Gennaro) era applicato rigorosamente, ovviamente soprattutto a Roma, ma anche a Napoli e altrove. Questo significava la chiusura delle sale e l’inazione di attori, cantanti e ballerini. La fama iettatoria del viola in teatro è ben giustificata dal colore dei paramenti sacri dei periodi di penitenza, avvento, quaresima e novene varie che erano periodi in qualche caso di fame – magari vera e non penitenziale – per chi viveva del lavoro sul palcoscenico. Brillantemente il sommo poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli commenta questa spartizione a gara («a pprova») tra religione e mascherate in un sonetto datato 1 dicembre 1832 che registrava la fine degli spettacoli di quell’anno, dato che, come commenta in nota lo stesso autore, «il primo giorno dell’avvento cadde nella domenica 2 dicembre, e nella sera del precedente sabato fu l’ultima recita teatrale»:

Pijja inzomma er libbretto der lunario,

e vvedi l’anno scompartito a pprova

tra Ppurcinella e Iddio senza divario.

Ma in questa suddivisone nel calendario tra il sommo Iddio e le maschere ci si concesse qualche eccezione (come dire che il diavolo ci mette sempre la coda?) che dava respiro ad interpreti, impresari, compositori ed anche al pubblico forse esausto, oltre che dall’astinenza e dal digiuno, anche dalle prediche e dalle stazioni quaresimali. Le eccezioni erano concesse per opere di soggetto sacro ed edificante, oratori da mettere in scena, per lo più tratti da vicende bibliche. Le quali, anche questo in omaggio alla suddivisione tra buon Iddio e buon mondo, dovevano rigorosamente, accanto o intrecciata con la vicenda “sacra”, contenerne una seconda “amorosa”, magari in contrasto con quella. E sarà proprio uno di questi titoli a segnare l’esordio di Rossini nel campo dell’opera seria: Ciro in Babilonia, «dramma con cori», come definito sul frontespizio del libretto, destinato al Teatro di Ferrara per la quaresima del 1812. Fu la prima opera seria rappresentata di Rossini, il quale però, proprio in omaggio al fatto che non si poteva essere compositori se non ci si cimentava nel “serio”, aveva lavorato in fase scolare e per esortazione della famiglia Mombelli, al Demetrio e Polibio che tuttavia soltanto a fama consacrata del piccolo Gioachino fu dalla famiglia committente messo in scena a Roma, sempre in quel 1812 densissimo di prime per il Pesarese.

3. Se il libretto del Demetrio, dovuto allo zelo più che alla sagacia di Virginia Viganò Mombelli (moglie del Mombelli cantante-impresario e sorella dell’eccelso coreografo Salvatore Viganò) aveva sott’occhio Metastasio, a Ferrara, sulla carta, il librettista era di altra levatura almeno sociale, se non anche letteraria. Francesco Aventi era personaggio di spicco nella sua città. Dedicatosi alla carriera militare aveva coltivato anche le lettere e si era occupato di organizzazione teatrale. Dotto ed attivo non sfuggì tuttavia nel suo impegno di librettista (dedicato soprattutto a cantate d’occasione) all’accusa di essere rimasto un dilettante, come, piuttosto crudamente, lo qualificò un giornalista veneziano dopo una ripresa al Teatro San Luca: «Il libretto di questo Ciro è opera di un dilettante, ben si vede, il quale avrà tutti i talenti immaginabili e forse anche quello della poesia, ma non certo quello di un librettista». Giudizio sagace di persona che sapeva ben distinguere quanto si poteva e doveva esigere da un librettista e che vedeva più avanti di tanti inutili e sciocchi futuri denigratori di Tottola, Piave e di quanti hanno contribuito a far grande l’opera italiana. I difetti del testo di Aventi (che in parte è scusato dato che subentrò, a quanto pare, ad un ignoto la cui prestazione fu bocciata in itinere) sono ben avvertibili. Si veda ad esempio l’ormai superata successione di arie e, per dirla con lo stesso giornalista, l’affastellamento dei «così detti punti di scena» per non parlare di un certo abuso nei recitativi. Difetti questi che si possono far risalire a mancanza di pratica, quella che possedevano i “poeti di teatro”. Perfino le fonti, dalla Bibbia ad Erodoto con altri inserti e richiami, se dimostrano l’erudizione di Aventi, non rendono giustizia all’azione e alla sua linearità. Con questo materiale il giovane Rossini poté forse poco, ma quel poco fu di importanza capitale. Infatti, a veder bene, i “punti di scena” sono quelli di innumerevoli opere teatrali. Qui si pecca semmai per eccesso e nella successione e distribuzione degli effetti. Ed è qui che, pur in questa “opera prima” del versante serio, il compositore impiega il suo talento.

Impegnandosi con le prime farse veneziane Rossini aveva dimostrato, ad abundantiam e ad onta della giovanissima età, un genio che tendeva ad una mirabile architettura interna. La distribuzione dei numeri chiusi in quelle cinque opere era perfetta. Analogo procedimento nel campo dell’opera seria era difficile da ottenere prima che il compositore non avesse sufficiente ascendente su librettisti e impresari. Di fatto Rossini la ottenne soltanto a Napoli e grazie al potere che aveva con il contratto avuto da Barbaja. Per fare un solo esempio, l’eliminazione delle arie riservate ai comprimari, le cosiddette arie “da sorbetto” (nel Ciro ce ne sono due e quella su una nota sola, secondo un racconto avallato dallo stesso Rossini, non sappiamo quanto autentico o fiorito, fu legata ad una presunta incapacità della bruttissima (!?) interprete), un obbligo del quale Mozart non aveva potuto liberarsi, fu consentita a Rossini solo a partire dall’Elisabetta. Il Tancredi nella prima versione, ma ancor più nelle successive, indicherà bene dove il compositore voleva arrivare, ma non conseguì in toto il risultato che l’autore certo si riprometteva. Nell’architettura generale delle opere del Pesarese conteranno di fatto alcuni punti chiave che faranno sommo il Rossini buffo prima, quello serio poi. Saranno, in primo luogo, il Finale primo, il collocamento dei grandi concertati nella seconda metà degli atti e/o la cosiddetta Gran Scena, punti nodali in vista dello scioglimento dell’azione che ancora nelle prime grandi opere napoletane può sembrare anche fin troppo sbrigativo. Importanza sempre maggiore avrà poi l’Introduzione. Che Rossini andasse in questa direzione che superava ogni residuo settecentesco lo dimostra molto bene Ciro in Babilonia. Altro elemento basilare sarà il rapporto tra primo atto e secondo. Il primo, proprio in vista del relativo Finale, punto di massima articolazione degli accadimenti scenici e musicali, sarà sempre più ampio (in qualche caso perfino il doppio) rispetto al secondo. Questa architettura ideale non fu possibile nel Ciro. Come nel successivo Tancredi qui il primo atto è più breve e i momenti di maggiore afflato drammaturgico sono condensati nel secondo. Con Tancredi già nella ripresa di Ferrara del 1813 Rossini cercherà di ovviare a questa distribuzione da lui considerata evidentemente un limite alla dinamica dell’azione che, in previsione dello scioglimento ultimo, amava far correre su binari più veloci. Questo avverrà soprattutto dopo che i grandi finali dei primi atti ebbero acquistato la massima estensione e concentrazione degli effetti. Ma per il Ciro il giovanissimo architetto Rossini alle prese con la sua prima opera seria non poté più di tanto. La doppia trama, di popoli e amorosa (a sua volta anch’essa doppia, dato che, con precisa corrispondenza gerarchica, all’amore di Baldassare per Amira, moglie di Ciro, corrisponde quella di Arbace, capitano babilonese per Argene, confidente di Amira) non è ben distribuita e non facilita il giusto e doveroso contrasto con le grandi scene di popolo o con gli effetti più tragici. Ma il non ancora ventenne compositore trova adeguati accorgimenti per ovviare, nel primo atto, all’eccessiva successione di arie. Saranno non solo gli abituali interventi corali, ma anche le raffinate sottigliezze nell’orchestrazione. Grazie a questo può giungere a concludere il primo atto, il meno riuscito drammaturgicamente anche perché troppo legato alle vicende amorose non adeguatamente messe a contrasto con gli eventi di popolo. Il Finale Primo è un quartetto in cui Ciro travestito da ambasciatore (di se stesso!) finisce scoperto e messo in catene. E qui il dramma ha la sua svolta che si approfondisce in tre audaci pagine del secondo atto che sono il Terzetto N. 8, la successiva scena della Profezia N. 9, che ha vari inserti corali e si chiude con la grande Aria di Baldassarre non senza aver inserito un breve Temporale (il secondo scritto da Rossini dopo quello contenuto nella sesta delle Sonate a quattro e antecedente dei celeberrimi temporali delle successive opere buffe e serie, dal Barbiere al Guillaume Tell) e, infine, la Gran Scena di Ciro N. 11. Se nel numero 9 vi è qualche inserto di recitativo di troppo, non vi è dubbio che questi tre numeri abbiano alta consistenza drammatica e che, soprattutto la Gran Scena della prigione, introduca al meglio la soluzione finale. Sarà pur vero che i cosiddetti “rondò con le catene” erano abusati, ma consentivano poi pagine musicali eccelse e tante altre ne sarebbero state scritte dopo il Ciro da Rossini stesso e da altri, Beethoven compreso. Come dire che, se pur Ciro non ha, né può avere la grandiosità dei contrasti che faranno sublimi le due versioni del Mosè, la strada da percorrere in questo genere misto di sacro e profano era ben chiara nella mente dell’autore.

L’eccessiva o, come forse è meglio dire, la non ben articolata serie di arie solistiche è affrontata da Rossini, come si è accennato, con diversi accorgimenti. Uno, prettamente musicale, è quello di utilizzare strumenti obbligati come il fagotto o il corno, ma soprattutto il violino nell’Aria di Amira nel secondo atto (N. 11). Un esercizio di bravura questo, per compositore ed interpreti, che Rossini replicò l’anno dopo a Venezia quando la Malanotte, incapace di comprendere il valore e le possibilità di successo dell’aria “dei palpiti”, volle una cavatina sostitutiva per il suo esordio in scena nel Tancredi. Questa fu «Dolci d’amor parole» con “violino principale”, destinata ad essere oscurata dal successo di quella che si pretendeva dovesse essere sostituita. Pezzo peraltro bellissimo anche se convien pur dire che le prime donne non sempre ci azzeccano. Non sempre ci azzeccano, ma spesso sì e sarà il caso di parlarne proprio a proposito del Ciro.

4. Che le protagoniste, sulla scena e qualche volta nella vita, potessero essere determinanti per la carriera di un giovane compositore lo si è già accennato. Al piccolo Rossini, che si fece le ossa col papà cornista e “tromba squillante” e con la madre, divenuta cantante per far sbarcare il lunario alla famiglia, toccò in sorte la simpatia di Rosa Morandi e del marito Giovanni. La coppia sarebbe stata artefice della prima scrittura di Rossini al San Moisè di Venezia e probabilmente anche per la stesura definitiva dell’opera, la cui prima versione (non conservata) fu, a quanto pare, giudicata troppo difficile ed astrusa. Come dire che la Morandi è stata una grande benefattrice del piccolo Rossini (che aveva conosciuto quando tredicenne faceva il “maestro al cembalo” al Teatro di Senigallia) ma anche e soprattutto della storia della musica. Per quanto riguarda il Ciro è probabile che la scrittura di Ferrara fosse stata suggerita da un’altra prima donna, il contralto Maria (o Marietta) Marcolini. I due si erano conosciuti a Bologna, dove Rossini faceva, anche qui, il “maestro al cembalo” e il concertatore al Teatro del Corso. È in quella stagione che la Marcolini interpretò la seconda opera di Rossini, L’equivoco stravagante, andato in scena il 26 ottobre 1811. La Marcolini aveva il ruolo di Ernestina nel quale si esibiva anche in veste maschile e addirittura in uniforme. L’opera restò in scena solo tre sere, dato il libretto aspramente censurato. Ma la Marcolini in qualche modo divenne una specialista in ruoli maschili e in esibizioni che mettevano in luce la sua prestanza nel travestimento. A proposito del Ciro è possibile che la scrittura di Ferrara per il giovane Rossini fosse stata da lei suggerita. È difficile pensare infatti che la prima donna prescelta non avesse voce a fronte di un “maestro al cembalo” men che ventenne. Certo subito dopo i due furono insieme alla Scala dove per il debutto in quel teatro Rossini, con enorme successo, dette La pietra del paragone. La Marcolini vi interpretava il ruolo di Clarice che, ancora una volta, si travestiva da militare. Un altro trionfo fu L’Italiana in Algeri a Venezia con la Marcolini nel ruolo principale. Qui non c’è travestimento, ma è difficile non pensare alla determinazione di Isabella nelle sue esortazioni al valore (perfino con cripto citazioni della Marsigliese) nell’esordio e soprattutto prima del Finale e che questo aspetto del personaggio non fosse ispirato alla Marcolini. I richiami militari nel libretto dell’Italiana sono fitti e ben messi in risalto. Questo fino alla conclusione e al «quanto vaglian gl’italiani / al cimento si vedrà». I rapporti musicali tra Rossini e la Marcolini si conclusero, sempre a Venezia, quando nel 1814 la prima donna interpretò il ruolo en titre e ancora una volta en travesti di Sigismondo. Senza confermare che tra i due ci siano stati rapporti extra-musicali (assai incerti, anche se ne parla Stendhal, secondo il quale la Marietta per amore del giovane compositore avrebbe sacrificato Luciano Bonaparte!) non vi è dubbio che questa singolare cantante abbia esercitato un grande influsso su Rossini inducendolo a scrivere alcuni dei suoi ruoli “maschili” più significativi. Purtroppo, a prescindere da pochi elementi, tra i quali appunto quelli che riguardano i ruoli rossiniani da lei interpretati, l’immagine e la carriera della Marcolini sono avvolte nella nebbia. Non si sa dove sia vissuta dopo il ritiro e anche la sua nascita a Firenze nel 1780 è tutt’altro che certa. Sicuramente essa ebbe un’influenza determinante sulla produzione della stagione rossiniana precedente a quella napoletana e altrettanto indiscutibile è che la figura di questa cantante in abiti regali o militari meriti un posto di onore tra le prime donne che consentirono alcuni dei massimi esiti dell’esordiente Rossini. Se fu questa singolare prima donna a suggerire, come è probabile, il giovanissimo per il Ciro e poi, almeno in parte, anche la sua scrittura scaligera con La pietra, è segno che aveva visto giusto nel coglierne il valore nel “cimento”: quello teatrale e musicale s’intende!

Bruno Cagli

 

 

 


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