L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Virtuose fanciulle e accorte bugie*

Rossini e Roma

Il primo contatto tra Rossini e Roma fu indiretto. Nel bel mezzo del 1812, mentre il ventenne compositore si destreggiava tra le lusinghe dei primi successi e delle scritture per la Scala (La pietra del paragone) e per la Fenice (Tancredi), il tenore Domenico Mombelli, a capo di una compagnia “di famiglia”, allestiva al Valle il Demetrio e Polibio. Si trattava di un lavoro che l’adolescente Gioachino aveva composto a Bologna su uno scombiccherato libretto della stessa moglie del Mombelli, Vincenzina, nata Viganò. A Roma ne furono interpreti ancora Domenico, questa volta con le due figlie, Ester e Marianna. Il battesimo romano era stato il 18 maggio e già il 29 il compositore ne registrava con compiacimento il successo scrivendo alla madre:

L’opera di roma a piaciuto mentre ho letto nel foglio delle belle Cose.1

Il «Foglio» citato era il «Giornale Politico del Dipartimento di Roma» che aveva dispensato lodi al compositore e agli interpreti. Il successivo 11 luglio, alle notizie che dà ad Anna sul procedere della composizione della Pietra del paragone, Rossini, sempre telegrafico e trionfale, aggiunge:

Qui si stampano Pezzi dell’Opera di Roma le Mie Musiche Composizioni sono per tutto il Mondo.2

Pur nella distratta menzione di un’opera di cui non si dà il titolo, ma che si designa sempre tout court come «l’Opera di Roma», vi è un pizzico di esagerazione (in realtà Ricordi stava stampando del Demetrio il solo duetto «Questo cor ti giura amore», pagina peraltro destinata a larga fortuna). Va da sé tuttavia che per l’astro nascente della musica, intento a farsi bello di fronte ai genitori, ciò che conta sono i confini del mondo. L’enfasi, il tono e l’uso della maiuscole (spropositato, ma del tutto consono al porgersi) sono melodrammatici e sembrano curiosamente anticipare il linguaggio del poeta di Matilde di Shabran che nel 1821 avrebbe chiuso il capitolo romano del compositore, il quale nel frattempo avrebbe dedicato alla città alcuni dei suoi massimi capolavori. Ma i rapporti tra Rossini e la città papale furono abbastanza travagliati e tali da meritare forse un breve excursus.

Tutta la prima folgorante fase della carriera rossiniana si colloca nell’Italia settentrionale con i due poli di attrazione di Venezia e Milano, le città che nel nord avevano la vita teatrale più intensa e i teatri di maggior prestigio. Ad altre piazze Rossini non sembra interessarsi troppo o, se lo fa inizialmente, finisce per trascurarle. Gli impresari romani naturalmente avevano fatto i loro bravi e insistenti tentativi, ma senza grande fortuna. Nel novembre del 1813, inviando ai genitori «Una Cambiale che vi stordirà», la nota finanziaria è seguita dall’elenco delle scritture:

Io Sono per la terza volta stato trattato per Roma ma Subito dopo Milano Vado a Genova a Scriver la Second’Opera del Carnevale e subito torno a milano a Fare la Grand’Opera Sentimentale.3

Dunque Roma resta lontana. E sarà solo dopo la crisi conseguente al quasi insuccesso delle due opere scaligere (Aureliano in Palmira Il Turco in Italia) e a qualche segno di logoramento nei suoi rapporti veneziani che Roma entrerà nella lista delle città possibili per un’opera nuova. Nel frattempo il catalogo delle opere rossiniane aveva raggiunto l’imponente numero di 14 prime assolute (tutte, ad eccezione appunto del Demetrio) allestite, come d’uso, dal compositore in prima persona. Si aggiungano i vari rifacimenti che costellano un’attività frenetica svolta tra il novembre 1810 e il dicembre 1814. Ce n’era abbastanza per ingenerare la necessità di una pausa di riflessione e anche per invogliare a guardare altrove. Prima di tutto alla vera capitale della musica italiana di quell’epoca, Napoli, con la quale Rossini entra in contatto e che diventerà il centro massimo della sua successiva attività. Di questo Roma sarà un complemento e, per la diversa struttura della sua vita teatrale e musicale, finirà per costituire una specie di diversivo. Che questo diversivo, dedicato a teatri minori e dalla precaria vita impresariale, abbia poi determinato la nascita di capolavori assoluti e massimi come Il barbiere di Siviglia La Cenerentola, è purissimo miracolo del genio, stimolato in certi casi e anzi, è il caso di dire, esaltato dalle stesse intrinseche difficoltà.

La prima menzione di un’opera da scrivere per Roma e che si sarebbe effettivamente realizzata la troviamo in una lettera del 16 maggio 18154 nella quale Rossini, da Bologna, scrive ad Angelo Anelli chiedendogli un libretto: «Questo Carnevale vado a Scrivere a Roma». In quel periodo il compositore era già scritturato dal San Carlo per l’opera inaugurale e anzi nella successiva lettera ad Anelli annuncia direttamente la partenza per Napoli dove arrivò a fine giugno.5 Nel corso del viaggio Roma era una tappa obbligata. Rossini vi si fermò e vi ebbe felicissime accoglienze come scrive alla madre il 26 giugno:

Ho fatto un Eccelente viaggio. Se vedeste che accoglienza ho in questo paese restereste incantata Il Cavalier Canova il Principe N. N. Tutti mi vogliono ed’io sono stato da tutti e come buon Sovrano li ho felicitati.6

Negli anni precedenti i romani avevano potuto apprezzare, dopo il Demetrio, altri tre lavori rossiniani: L’inganno felice, Tancredi L’Italiana in Algeri. Non stupiscono dunque le accoglienze e gli incontri con personaggi illustri come Canova e forse Luciano Bonaparte (possibile identificazione del principe N. N. della lettera, il cui nome non viene citato perché da poche settimane, con la caduta di Murat, la famiglia Bonaparte era in disgrazia e buon per Luciano che si era tenuto lontano dai troni dispensati dal fratello). Certo la tappa romana dovette permettere all’impresario del Valle, Vincenzo De Santis, di consolidare l’impegno con Rossini fissando, oltre all’opera nuova che doveva inaugurare il futuro carnevale, anche una ripresa, per una breve prestagione autunnale, del Turco in Italia. Questa andò in scena il 7 novembre, e dunque dopo il debutto napoletano di Rossini, il quale avvenne, come è ben noto, il 4 ottobre con Elisabetta regina d’Inghilterra. Il compositore, trattenuto a Napoli per quasi un mese dopo il successo dell’Elisabetta, era arrivato a Roma da pochissimi giorni, ma la versione approntata fu certo fatta col suo diretto intervento. L’opera nuova per il Valle, Torvaldo e Dorliska, divenuta da buffa semiseria e il cui libretto invece che da Anelli fu scritto da Cesare Sterbini, andò regolarmente in scena il 26 dicembre. Nel frattempo Rossini si era accordato sul campo con un altro impresario romano, il Duca Sforza Cesarini, per dare all’Argentina una nuova versione dell’Italiana in Algeri, ma anche una novità, che sarebbe stata Il barbiere di Siviglia. La travagliatissima preparazione di quest’ultima, col cambio del librettista da Ferretti a Sterbini, i ritardi e la catastrofica prima seguita dal trionfo nelle poche repliche che si poterono fare, è vicenda ben nota. Volendo trarre un bilancio di quella densa stagione occorre registrare il successo delle due riprese del Turco e dell’Italiana, le fredde accoglienze al Torvaldo (presto sostituito con un pastiche comprendente un atto del medesimo accoppiato con l’Inganno felice) e la vicenda del Barbiere. Dei due impresari chi, a conti fatti, avrebbe dovuto rallegrarsi di più era Sforza Cesarini, ma il povero Duca non aveva potuto godere del pur ritardato trionfo: era morto improvvisamente tra i triboli della preparazione. Con tutto ciò Rossini quando, il 29 febbraio, giorno del suo ventiquattresimo compleanno, ripartiva per Napoli, recava con sé un contratto con l’impresario Cartoni per una nuova opera da darsi nel carnevale successivo al Valle.

Nei mesi che seguirono, la posizione di Rossini a Napoli si consolidò. Dopo aver pagato nel settembre 1816 (con La gazzetta) il suo unico tributo napoletano all’opera buffa e ad un teatro non “Reale”, quello dei Fiorentini, la sua attività compositiva nella città partenopea rimase esclusivamente riservata all’opera seria e ad una serie di incombenze strettamente legate alla corte come le cantate, più o meno ampie, che dovevano celebrare eventi dinastici dei Borboni, visite di sovrani, e simili. A ciò si aggiunse ben presto l’obbligo di provvedere al repertorio del San Carlo con la scelta e la direzione di titoli anche importanti, il rimaneggiamento di partiture altrui, la scelta di cantanti e quant’altro. Si comprende così che le sue visite e i suoi impegni per altre “piazze” venissero non solo ridotte al minimo, ma subissero anche una serie di rinvii, cancellazioni e condizionamenti. Negli anni precedenti la conclusione del suo rapporto con Napoli, se si eccettuano i due impegni scaligeri con La gazza ladra (1817) e Bianca e Falliero (1819), Rossini, quando non mancò alle promesse, non di rado ricorse a pesanti autoimprestiti (le uniche due altre opere serie di quel periodo, Adelaide di Borgogna Eduardo e Cristina scritta per il San Benedetto di Venezia, sono di fatto veri e propri centoni di opere precedenti) o ebbe rapporti travagliati con i rispettivi impresari. In questo ambito Roma occupa un posto particolare. Ciò per due ragioni: da un lato era la “piazza” più vicina a Napoli, quella, all’epoca, più facilmente raggiungibile, dall’altra la gestione dei teatri operante nella città papale era quanto di più lontano da quella napoletana. Se a Napoli, dove ferveva una intensa vita musicale, occorreva rispondere ad un impresario di vaglia come Barbaja, a sua volta direttamente dipendente da un organismo come la Sovrintendenza – emanazione della corte e del re – a Roma da decenni i teatri vivevano in stato di assoluta precarietà, con impresari (spesso esponenti di una nobiltà dedita contemporaneamente a tutt’altre faccende) che allestivano le stagioni, per lo più nel solo periodo di carnevale, non di rado all’ultimo minuto, e con mezzi estremamente limitati. Si aggiungeva a Roma l’antica occhiuta presenza di una censura ecclesiastica pignola e il fatto, non trascurabile, che i permessi per l’apertura dei teatri, sempre dati all’ultimo minuto, potevano essere revocati per la morte del Papa, per un qualche giubileo, per il timore di sommosse e sconvolgimenti. Ne conseguiva una povertà di mezzi che si rifletteva anche nella qualità musicale delle orchestre, dei cori, degli allestimenti e delle compagnie. L’esasperazione di Donizetti, pur legato a Roma da vincoli familiari, e quella successiva di Verdi e i roventi rapporti che ebbero con gli impresari romani sono ben noti.7 Da questo punto di vista Rossini ebbe vita più facile nel momento stesso in cui fece subire agli impresari romani il massimo delle angherie possibili. Se già in quella prima stagione Rossini aveva licenziato un librettista illustre come Ferretti, sostituendolo per Il barbiere con Sterbini (il quale, prima che lo avesse sperimentato nel Torvaldo, era un perfetto sconosciuto), se ritardò di fatto la composizione della seconda opera (frutto peraltro di un impegno aggiuntivo dell’ultimo minuto) non fu da meno negli anni successivi.

Licenze per Roma

Quelle che Radiciotti chiamò «licenze per Roma» furono, dopo il carnevale 1815-1816, tre. La prima doveva riguardare, come si è detto, l’impegno di aprire il Valle nel dicembre 1816. Rossini avrebbe dovuto essere a Roma alla fine di ottobre, ma ottenne di spostare l’impegno dalla prima alla seconda opera del cartellone; alla metà di dicembre, tuttavia, non si era visto e il povero Cartoni fu costretto a ricorrere, tramite la Deputazione degli Spettacoli romana, alla Direzione Generale di Polizia di Napoli perché Rossini venisse costretto «per le vie di fatto» a mantenere il suo impegno.8 Quando il compositore giunse finalmente a Roma nacquero di nuovo problemi con la scelta del soggetto che solo alla vigilia di Natale fu deciso, traendolo da Cendrillon col Ferretti recuperato. «Meglio tardi che mai» scriveva Rossini alla madre, quando finalmente La Cenerentola andò in scena il 25 gennaio 1817.9 Il successo dell’opera dovette convincere l’impresario Cartoni che valeva la pena di soffrire le angustie relative, pur di riavere Rossini. Ecco dunque la nuova licenza, questa volta per un’opera seria da darsi all’Argentina per l’apertura del carnevale 1817. Il relativo contratto fu firmato a fine ottobre.10 Rossini giunse a Roma ai primi dicembre, in tempo perché sul raffazzonato libretto potesse inserire molta musica già composta per altre opere e andare in scena il 26 dicembre con esito che si definirebbe di stima, se non mediocre. Scrivendo alla madre, Gioachino addolcì la pillola:

La mia Opera è andata benino, e me ne contento. A Napoli scrivo un Oratorio in Grande.11

Di fatto la sua mente era al successivo Mosè in Egitto e, al termine delle sacramentali tre prime recite e dopo un soggiorno di meno di un mese, egli partiva già alla volta di Napoli: volendo credere alla medesima lettera, la notte stessa del 30. Di fatto il giorno 2 era già nella città partenopea «sano e salvo e appresso all’oratorio».12

Un giudizio su queste tre prime stagioni romane fa risaltare due elementi. Rossini si serve di Roma per scrivere le sue due massime opere buffe, Il barbiere La Cenerentola. In ambedue i casi, in barba ai tempi e alle esigenze impresariali, ritardò fino allo spasimo (e alla morte del povero Duca Sforza Cesarini) la consegna, ma impose soggetto, librettisti e intervenne direttamente sulla stesura dei testi. Per il resto la città non poteva molto interessarlo per proposte di opere serie, anche per la povertà dei mezzi messi a disposizione (di fatto con l’Adelaide è possibile cavarsela con una compagnia ridotta, certo ben lontana da quella richiesta dalle consorelle napoletane). Ma Roma giova a Rossini anche per esercitarsi nel terzo genere, quello dell’opera semiseria, nel quale, dopo Torvaldo e Dorliska, aveva dato un capolavoro con La gazza ladra e al quale darà il suo ultimo impegno romano. Che, al solito, fu accompagnato da ritardi, complicazioni sulla scelta del soggetto e perfino ripicche, ma che cadde, nella precaria vita teatrale locale, in un momento particolarmente felice.

Medici compiacenti per compositori ritardatari

Correvano gli ultimi anni del lungo pontificato del mite Pio VII, eletto a Venezia nel 1800 dopo la morte in esilio del suo predecessore, Pio VI, imprigionato da Napoleone. A sua volta Barnaba Chiaramonti avrebbe conosciuto la deportazione e l’esilio, ma anche un trionfale ritorno in sede che dette origine ad un periodo di relativa calma. Artefice della restaurazione romana fu il potente segretario di stato di Pio VII, il cardinale Ercole Consalvi, appassionato di musica, protettore delle arti e anche, all’occasione, di Rossini, uomo, per i tempi e per il luogo, abbastanza aperto.13 Fu proprio mentre a Napoli la situazione si faceva precaria per i moti rivoluzionari del 1820 che Rossini prese l’impegno per una nuova opera, questa volta per il massimo teatro romano, l’Apollo, popolarmente chiamato Tordinona dal quartiere dove era ubicato, e che era stato appena acquistato e rinnovato dal Duca Giovanni Torlonia. L’opera avrebbe dovuto inaugurare la stagione il sacramentale 26 dicembre, una stagione che, una volta tanto, sembrava mettere Roma al centro del mondo musicale e teatrale:

Roma. Per questo carnevale furono scritturati sei maestri per la composizione di sei nuove opere, cosa che non era mai avvenuta in nessuna città italiana, per lo meno non durante la mia permanenza di ormai undici anni in Italia e probabilmente mai neppure prima. In una lettera datata 20 febbraio inviatami da Roma da un intenditore si scriveva “Al Teatro Tordinone [...] la prima opera doveva essere una nuova composizione di Rossini; tuttavia, poiché non fu pronta in tempo, si andò in scena con la sua Cenerentola che piacque. Poiché Rossini non fu pronto nemmeno per la seconda opera fu messa in scena La festa della riconoscenza originariamente prevista come terza composizione, scritta da un romano di nome Grazioli [...]. L’opera fece furore e il successo era meritato.

Ormai è passato anche il tempo entro il quale doveva andare in scena la terza opera, e Rossini ancora non è pronto. Si teme che la sua opera vada in scena solo gli ultimi giorni del carnevale”.

Fin qui la lettera. A quanto si dice, la nuova opera rossiniana Matilde di Shabran, ossia, bellezza e cuor di ferro andò in scena il 25 febbraio ovvero per gli ultimi dieci giorni del carnevale.14

Così il corrispondente in Italia dell’«Allgemeine Musikalische Zeitung»15 di Lipsia dava conto da Roma degli eventi teatrali del carnevale 1821, non senza ironizzare sui continui rinvii che la novità di Rossini aveva subito. Di fatto l’opera era andata in scena solo il 24 febbraio 1821 (il corrispondente tedesco sbaglia quindi di un giorno), con un ritardo di quasi due mesi sulla data prevista. Sui rinvii erano fioccate anche altre accuse, dalle quali Giuseppe Radiciotti credette bene di difendere Rossini, attribuendole a cause «indipendenti dalla volontà del compositore» e non alla «infingardaggine e incuria di Rossini, come scrivono molti, e come sin d’allora fu sparsa la voce dai malevoli».16 Ma qui il massimo biografo del Nostro pecca di agiografia. La realtà, chiarita dai documenti che oggi abbiamo a disposizione, dà ragione al corrispondente tedesco e a quanti, Duca Torlonia in testa, dovettero fare i conti con la crisi che da qualche mese travagliava Rossini e che rese difficili e ingarbugliatissime le vicende compositive di quella che sarebbe divenuta la terzultima opera italiana di Rossini: Matilde di Shabran.

Varata Bianca e Falliero alla Scala il 26 dicembre 1819, al termine di un anno intensissimo che aveva visto anche le prime di ErmioneEduardo e Cristina e della Donna del lago, Rossini, rientrato a Napoli, vi aveva allestito e diretto il 24 marzo 1820 la Messa di Gloria. Gli toccò poi affrontare la nuova opera per il San Carlo alla quale, a detta del «Giornale delle Due Sicilie», lavorava intensamente già dal mese di maggio. Era il Maometto II, che tuttavia non riusciva ad essere completato, né Rossini riusciva ad onorare altri impegni, come quello solenne preso con la Regina d’Etruria, Maria Luisa di Borbone, di inaugurare il Teatro del Giglio di Lucca con una novità scritta per le nozze del di lei figlio. Su questa crisi, come ho notato altrove,17 ebbero probabilmente la loro influenza i moti rivoluzionari che indussero Ferdinando I a concedere ai napoletani la costituzione. Fatto sta che, ad onta di una bugiardissima lettera con la quale Rossini affermava di aver già spedito a Lucca «diversi pacchetti»18 di musica, l’opera per Maria Luisa non fu mai scritta e quella napoletana, di rinvio in rinvio, non avrebbe visto la luce che in dicembre, coinvolgendo fatalmente anche gli impegni del compositore con Roma, impegni che si erano concretizzati nel mese di settembre proprio mentre sfumava ogni speranza per i lucchesi. Infatti a Roma, oltre a Giovanni Torlonia (che si era associato come impresario Giovanni Vestri o Vestris) era stato in lizza anche Giovanni Paterni, che da quell’anno gestiva il Valle. Prevalse il Torlonia, come si desume da una lettera con cui Rossini, il 19 settembre, declinava definitivamente l’offerta di Paterni:

Non le ho risposto prima d’ora poiché essendo io in tratato col Sig.r Duca Torlonia, pel suo teatro non le avrei dato che una risposta vaga; ora che sono col Sig.r Torlonia scritturato le dico non potere per conseguenza accettare la Sua gentile Offerta pel prossimo Carnevale.19

La lettera fa pensare che il contratto col Torlonia fosse stato sottoscritto da pochi giorni, come confermano anche le lettere ai genitori. Come fosse possibile che Rossini si impegnasse in modo così perentorio sulla scadenza mentre ingannava una illuminata sovrana e mentre si infittivano a Napoli lamentele sui rinvii del Maometto, è mistero non facilmente risolvibile in sede razionale. Né possediamo alcuni elementi fondamentali, ad esempio notizie su eventuali anticipi in denaro e confronti tra le varie proposte economiche, atti ad illuminare la sua avventatezza e/o il suo comportamento certo non privo di cinismo (che ha peraltro altri esempi illustrissimi in sede musicale). Fatto sta che Rossini non iniziò apparentemente a preoccuparsi di Roma se non quando, essendo ancora alle prese col Maometto, avrebbe dovuto esservi già arrivato. Colto in fallo e di fronte alle pressanti richieste di presentarsi, ricorse ad un solenne certificato medico col quale il Dottor Franco Nasali «Medico Fiscale della R. Sopraintendenza dei teatri» di Napoli, dopo aver discettato di «languore nelle viscere naturale» e di «vomito d’un viscido glutinoso» che avrebbe afflitto Rossini tutte le mattine, assicurava che

sarebbe quindi grande imprudenza fargli intraprendere un viaggio, dal quale la di lui salute massimamente soffrirebbe.20

Questo certificato non dovette goder molto credito a Roma, a giudicare dalle voci che vi si diffusero. Quanto a Napoli, Filippo Galli il 28 novembre si premurava di smentire a Giovanni Ricordi ogni illazione in merito a malattie del compositore:

Rossini va benone, né so come si vadino inventando delle favole di tratto in tratto, appunto come facevano sul mio conto quand’ero in Spagna.21

Come si inventassero le favole lo sapeva bene Rossini con il suo compiacente Nasali.22 Fatto sta che Torlonia dovette, almeno sul momento, fare buon viso a cattiva sorte e spostare gradatamente la novità di Rossini da prima opera in cartellone a seconda e poi ad ultima. E non era uno smacco di poco conto, all’epoca, riaprire un teatro restaurato senza una novità, per di più pomposamente annunciata. Ma non fu quella la sola conseguenza del ritardo con cui Rossini intraprese la composizione della sua ultima opera romana. Nel vortice furono coinvolti la scelta del soggetto, quella del librettista, la stessa stesura della partitura e perfino il nome autentico dell’eroina dell’opera. Fase sulla quale i carteggi rossiniani tacciono, dato che, a quanto pare, Rossini prese carta e penna per parlare di Matilde solo quando, dopo averla finalmente composta e averne, secondo l’uso, seguito ‘al cembalo’ le prime tre esecuzioni, credette di poter rivendicare il saldo della somma concordata: somma che l’impresario, evidentemente esasperato, nicchiava a versare.23 Abbiamo però sulla nascita della Matilde la testimonianza, importante anche se posteriore di qualche anno e da prendere cum grano salis, di Jacopo Ferretti che finì per esserne l’imprevisto librettista. Essa è contenuta in una lettera datata 13 aprile 1830 pubblicata nel volume VIII della «Nuova Biblioteca Drammatica».24

La prima Matilde

Il titolo della nuova opera era stato annunciato da Torlonia. Fonte la Mathilde di Monvel (nome d’arte di Jacques-Marie Boutet, nato nel 1745 e morto nel 1812, che fu notissimo attore e autore di alcune pièces fortunate). A quanto pare Rossini aveva commissionato il libretto già a Napoli (a quale librettista non sappiamo)25 intendendo portarlo con sé bell’e steso e pensando probabilmente di riguadagnare così in tutto o in parte il tempo perduto. Ma, sempre secondo Ferretti, prima di partire Rossini non aveva avuto che il solo primo atto, del quale si sarebbe dichiarato scontento, sia per la trivialità del ruolo del buffo, sia per i versi non adatti ad essere musicati, sia perché temeva che esso non potesse ottenere l’approvazione della censura.26 A questo punto sarebbe stato invocato Ferretti:

Allora, unito al Maestro Pacini, a me si rivolse per ottenere che io scrivessi appositamente un nuovo Libro. Io che scriveva contemporaneamente per Grazioli e per Mercadante non poteva offerirgli che il Corradino, di cui per mio passatempo aveva scritto cinque pezzi; li udì; non cangiò una sillaba, mi pregò di continuare, ed intanto cominciò a vestire di note quanto io aveva scritto.27

C’era però il problema del titolo annunciato che non si voleva cambiare:

Ma il mio Libro intitolavasi Corradino, ed era stata promessa una Matilde, nè volevasi dare un’arma in mano ai nimici dell’Impresa di Vestris; e questi nimici erano molti; furbi, ricchi, e possenti; ora siccome il fatto non era storico, e la bella Maga che ammolliva Cuor-di-ferro nella vecchia Commedia chiamavasi Isabella Shabran, mi presi la libertà di cangiarle nome e intitolai il mio Melo-Dramma - Matilde di Shabran.28

Dunque un soggetto cambiato e un librettista sostituito. La narrazione è certo letterariamente colorita, ma abbastanza plausibile. Dove Ferretti imbroglia le carte è quando parla della fonte del suo libretto. Ma converrà prima sgombrare il campo dalla prima Matilde, quella alla quale Rossini finì per rinunciare.

Il dramma di Monvel29 era centrato sulla figura del Conte d’Orlheim, un ricco feudatario che a suo tempo aveva abbandonato e lasciato morire lontano da sé la moglie, ritenendola infedele, e che prima segrega in casa Matilde e poi addirittura la scaccia, ritenendola non già propria figlia, come figura agli occhi di tutti, ma figlia del rivale, l’ormai defunto Wodmar. Il fatale equivoco è nato dal rinvenimento di una compromettente lettera dello stesso Wodmar, lettera che il Conte legge e rilegge nel corso dei cinque atti senza ovviamente mai rivelarne agli altri il contenuto. Nessuno dunque comprende il suo rigore per Matilde, tanto meno la malcapitata, alla cui mano aspirano un nipote dello stesso Conte e addirittura il figlio di Wodmar. Tutto il lavoro è basato sull’insistita ostentazione di buoni sentimenti: da parte di Matilde che, pur maltrattata, non cessa di adorare il padre, da parte di Ernesto, nipote del Conte, da parte del figlio di Wodmar, dei servitori, e perfino dello stesso Orlheim che continuamente, suo malgrado, è costretto a forzare i propri sentimenti. In realtà egli ama profondamente la figlia e ciò che compie non è dettato da altro che da un malinteso senso dell’onore e dal terrore che Matilde possa corrispondere al giovane Wodmar, ritenuto di lei fratello. Il nodo si scioglie quando Wodmar esibisce una seconda lettera del padre, vergata in punto di morte e con la quale il moribondo, pentito, svela che la precedente non era altro che un tentativo di vendetta da parte sua per non essere stato corrisposto dalla sposa del Conte. Trionfa dunque l’innocenza della sposa defunta e viene premiata la virtù di Matilde che, dal momento che il giovane Wodmar rinuncia generosamente alla sua mano come forma di espiazione delle colpe del padre, può sposare il nipote del Conte.

Questa lacrimevole vicenda, con il vecchio onore feudale, l’inganno, la virtù prima calpestata, poi premiata, era di quei lavori tipici del primo teatro borghese che costituivano le fonti predilette delle cosiddette opere “sentimentali” “di mezzo carattere” o “semiserie”. E probabilmente per questo era stata prescelta da Rossini che certamente conosceva una sua fortunata derivazione. Dalla Mathilde di Monvel infatti Giuseppe Foppa aveva tratto una snella opera in un atto dall’intreccio assai sfrondato, ma sostanzialmente rispettoso dell’originale, nella quale (come d’obbligo per le farse, che erano o giocose del tutto o, appunto, di “mezzo carattere”) erano stati inseriti elementi comici, soprattutto col personaggio del servitore Pantarotto. Musicata da Carlo Coccia, l’opera era andata in scena al San Moisè di Venezia nel carnevale del 1811 col titolo Una fatale supposizione ovvero Amore e dovere. Evidentemente con successo, dato che, col titolo di Matilde, fu ripresa già nell’autunno e ancora il 26 dicembre 1811 come inaugurazione della stagione di Carnevale 1812, pochi giorni prima che Rossini desse nello stesso teatro L’inganno felice. Non basta: il lavoro di Coccia fu ridato al San Moisè anche nel Carnevale del 1813 e la sua ultima apparizione fu il 27 gennaio, nel corso della stessa serata in cui si tenne a battesimo Il signor Bruschino.30 Dunque Rossini conosceva benissimo il soggetto in questione ed è ben possibile che fosse stato lui a sceglierlo o a suggerirlo quando si impegnò per Roma, salvo poi pentirsene – se vogliamo accettare quanto scrive Ferretti – quando fu posto di fronte ad una versione ampliata o piuttosto alla difficoltà di far accettare a Roma un intreccio in cui compariva il tema dell’incesto. Questo elemento è importante non solo per meglio comprendere certe scelte del Rossini di quegli anni, ma anche perché il fatto che a Roma fosse annunciata un’opera semiseria e che egli si disponesse a musicare un soggetto di quel tipo, può aver avuto la sua parte, una volta scelto il Corradino, nell’indurre Ferretti ad alcune evidenti forzature per adeguarlo agli stilemi del genere.

L’Euphrosine

Ma cos’era il Corradino che andò a sostituire il primo soggetto prescelto e da quale lavoro era tratto? Ancora una volta dovrebbe soccorrerci Ferretti. All’origine della citata lettera del librettista c’era proprio una piccola querelle sulla fonte del lavoro. A quanto pare un critico francese aveva accusato Ferretti di aver, per Matilde di Shabran, «rubato l’argomento ad una Tragedia di Voltaire»:

non ne ho scrupolo; ma forse sarà; ma sarà un furto di seconda mano; perché io desunsi il mio argomento da una nostra vecchia Commedia Italiana d’autore incerto intitolata – Corradino il terribile – stampata in Livorno, e prima e dopo recitata in tutti i grandi e piccioli Teatri d’Italia. Vi assicuro, che non mi è saltato mai in mente il sospetto, che l’incerto autore si fosse arricchito delle spoglie del Tragico Francese; perché, spero che crederete aver io lette, e recitate tutte le sue Tragedie ed essere fallito in tutto fuori che nella memoria.31

Così il buon Ferretti. Ma, messo da parte Voltaire, che davvero non sembra entrarci per molto (e che del resto sarebbe stata fonte decorosissima e dal quale il teatro musicale ha tratto almeno una dozzina di capolavori), resta il fatto che il soggetto aveva ascendenti nel teatro musicale che il librettista romano non poteva certo ignorare. Già Radiciotti32 aveva indicato come prima fonte di Matilde di Shabran un lavoro di François-Benoît Hoffmann (autore di teatro e poi noto critico del «Journal des Débats») Euphrosine, ou le Tyran corrigé (noto anche come Euphrosine et Coradin) musicato da Étienne-Nicholas Méhul e rappresentato nel 1790 all’Opéra-Comique.33 Fu il battesimo teatrale di Méhul e il successo del lavoro, rimasto a lungo in repertorio, fu determinante per dischiudere al fortunato compositore una brillante carriera teatrale. A sua volta il testo di Hoffmann era stato ispirato al racconto Conradin apparso in un periodico del 1780, la «Bibliothèque universelle des Romans». Queste le prime fonti, ed è molto probabile che Ferretti, che aveva larga pratica del teatro francese, conoscesse l’originale di Hoffmann, ma, come per primo ha dimostrato Marvin Tartak,34 è quasi certo che abbia avuto sotto mano altri libretti italiani che da quello erano derivati. L’Euphrosine, infatti, non aveva tardato ad essere ripresa in varie forme in Italia. Già nel 1794, e dunque a breve distanza dal battesimo francese, Gaetano Gioja aveva allestito alla Scala il ballo eroicomico Eufrosina, ossia il potere d’amore. Al testo di Hoffmann era seguito un Corradino,35 musicato da Francesco Morlacchi e rappresentato per la prima volta nel Teatro Ducale di Parma nel 1808 su un libretto la cui paternità, assegnata da qualche fonte a Simone Antonio Sografi, è oggi controversa.36 L’opera di Morlacchi era stata ripresa, tra l’altro, al Carcano di Milano e l’autore l’aveva ripresentata in nuova veste a Dresda nel 1811. Nel 1809 sarebbe toccato a Stefano Pavesi musicare il «dramma eroicomico» Il trionfo delle belle su libretto di Gaetano Rossi, rappresentato al San Moisè di Venezia.37 Resta la commedia «d’autore incerto» di cui parla Ferretti e che secondo lui era stata «recitata in tutti i grandi e piccioli Teatri d’Italia». Non senza qualche dubbio si tende oggi ad identificarla con un Corradino di Francesco Antonio Avelloni stampato a Livorno nel 1815.38 Lasciando ad altri il gusto di eventuali nuove scoperte, da questo quadro si deduce che Ferretti, nel parlare dei propri ascendenti, tende ad intorbidare le acque e a nascondere i debiti che, come in qualsivoglia caso del genere, i librettisti contraevano con i loro predecessori. Va comunque detto che nel corso del suo cammino teatrale (in prosa o in musica) il soggetto si era alquanto snaturato. L’Euphrosine infatti, come ha scritto Tartak,39 «benché chiamata “comédie” [...] era un lavoro serio; il dramma si adattava alla Comédie-Italienne dove ebbe la sua prima rappresentazione solo in virtù del dialogo parlato. Hoffmann scrisse un chiaro racconto morale adeguato alla nuova serietà dell’epoca: il sentimento di una virtuosa fanciulla che trionfa sul cuore di ferro di un tiranno». La prima scena connota già chiaramente l’ambientazione della vicenda. Euphrosine, insieme con le due sorelle Léonore e Louise, riceve ospitalità nel castello di Coradin. Le tre fanciulle sono infatti orfane del Comte de Sabran che ha sacrificato la vita nella crociata. Più avanti non mancano spunti comici, ma di fatto non vi è mai caricatura nel trattare la figura di Coradin e anzi la vicenda giunge a momenti altamente drammatici quando il feudatario, che ingannato dalla Comtesse D’Arles ritenendo Euphrosine infedele l’ha condannata a morte, apprende che la sentenza è stata eseguita e decide di morire a sua volta. In realtà la condanna non è stata eseguita e la vicenda può sciogliersi felicemente col solito elogio dell’amore e coi festeggiamenti della coppia da parte dei contadini e dei sudditi.

Dunque un soggetto serio, ma che francamente era difficile, se ci si consente il bisticcio, prendere sul serio. Cosa che non fece il teatro musicale italiano, nel quale la virtù, come sapevano bene Fabrizio Del Dongo e tanti altri personaggi di Stendhal, imposta dal potere politico e religioso, diveniva molto spesso l’obbligata cornice per portare testo e musica in tutt’altra direzione. D’altra parte nel paese dell’Orlando furioso la ferrea determinazione del crudele feudatario che manda in prigione chiunque si accosti al castello, non poteva che esser vista in chiave eroicomica, come già, a giudicare dal titolo, aveva fatto Gioja col suo ballo. Altrettanto si fa nel Corradino musicato da Morlacchi e, salvo scoprire qualche fonte anteriore, troviamo proprio qui l’introduzione di un nuovo personaggio comico, il poeta Sussidio, affamato e dalla borsa perennemente vuota, che offre i suoi poetici servizi ai potenti e diventa uno dei nodi della vicenda. Figura del tutto assente nell’originale, ma che ricompare in Rossi-Pavesi col nome di Timoteo e nell’opera di Rossini con quello di Isidoro. La seriosità del libretto di Morlacchi di fatto si riduce a ben poco ed è confinata semmai nelle arie amorose, che forniscono al testo un accentuato coté sentimentale. Sulla parte drammatica delle vicenda, poi, quasi si sorvola. Infatti Eufrosina viene condannata al carcere, ma le basteranno pochi chiarimenti verbali con Corradino per risolvere la situazione e, di conseguenza, non si introduce nessuna scena che mostri Eufrosina «in ceppi».

Rossi a sua volta, pur ripristinando la «condanna a morte», accentua ancora di più gli elementi comici. Nel suo libretto, nel quale Eufrosina è divenuta Elena, vero deus ex machina della situazione diventa il poeta Timoteo e le scene drammatiche somigliano molto a quelle ‘finte’ di Lorenzo Da Ponte in Così fan tutte. Nel bel mezzo del duetto delle due donne e mentre Elena sta celebrando il suo trionfo sulla perfida rivale Isaura, scendono «dallo scalone» Aliprando e Timoteo «seguiti da due servi, che recano due sottocoppe coperte da veli neri». Sotto i veli ci sono «un ferro» ed «un veleno» tra i quali si intima alla donna, accusata di infedeltà, di scegliere. La scena è troppo caricata per essere veramente “seria” e, mentre Elena viene condotta «nella Torre» per esservi rinchiusa, ha ragione Timoteo, qui molto vicino a Don Alfonso e al poeta del Turco in Italia, a sottolinearne la teatralità al quadrato:

Mancan solo le catene,

Dramma eroico qui si fa.

Questa teatralità ostentata si accentua se possibile nell’ultima scena, quando Corradino, al colmo della disperazione e nell’atto di trafiggersi, esclama «Moro anch’io!». Sono ancora Aliprando e Timoteo a fermarlo, ma Timoteo gioca anche a fare il Mago e «in aria d’incantatore fa de’ segni ridicoli colla verga». Subito «s’apre la porta della Torre, esce Elena che corre tra le braccia di Corradino sorpreso, e contento». Con queste scene e malgrado la condanna e la torre, è ben difficile apparentare il «dramma eroicomico» di Rossi al genere semiserio, che richiedeva, accanto a quelli comici e caricaturali, autentici e sviluppati momenti drammatici. Altri però, come abbiamo visto, erano gli obblighi di Ferretti, altre forse le sue ambizioni e le stesse richieste di Rossini. Armonizzarle non sarebbe forse stato impossibile. Ma su tutto dovette dominare la fretta quando Rossini si decise finalmente a raggiungere Roma40 e quando – poiché anche questo avrà richiesto qualche giorno – scartata la prima Matilde si decise per il Corradino ribattezzato Matilde di Shabran.41?

La seconda Matilde

Il frontespizio del libretto della prima romana di Matilde di Shabran recita «melodramma giocoso», definizione che nella versione napoletana sarà modificata in quella di «dramma per musica». Pur considerando la vaghezza di queste definizioni nei libretti dell’epoca, è forse possibile vedere nel titolo di Ferretti una spia della sua primitiva intenzione: quella di fare un lavoro decisamente comico. In effetti gli elementi tipici dell’opera semiseria da lui introdotti nel Corradino non sono molti e la loro presenza diventa veramente determinante soltanto nel secondo atto. Uno dei più tipici lo troviamo comunque nell’Introduzione dopo la descrizione dell’atrio del castello, del tutto simile nel libretto di Morlacchi, in Rossi e in Ferretti. Nella prima scena dell’opera di Morlacchi appare subito il poeta Sussidio che si avvicina leggendo e commentando le scritte minacciose che vi sono esposte. Ferretti farà la stessa cosa, ma al pari di Rossi fa precedere l’arrivo di Isidoro da quello di «villani e villanelle» che si recano al castello per offrire i loro omaggi – frutta ed erbaggi – al Conte. È uno dei topoi dell’opera semiseria, ma anche di tutte le opere di ambientazione feudale, qui tuttavia non molto coerente con le scritte che intimano a tutti di tenersi lontani e di non turbare la quiete. In realtà una scena simile esiste anche nell’Euphrosine, ma con maggiore credibilità drammaturgica. È il momento in cui le tre sorelle ricevono l’omaggio festoso, e con strumenti musicali tipici, dei paesani e dei pastori che sperano che il loro arrivo possa addolcire il rigore del feudatario. In Morlacchi si riprende questa scena introducendo un «Coro di Villani» che rende omaggio alla bellezza di Eufrosina e Rossi fa altrettanto, raddoppiando in qualche modo l’introduzione. Sono le musiche eseguite in questo tableau caratteristico42 a disturbare la quiete del Conte e a suscitare la sua irosa reazione. Per il resto Ferretti non si discosta molto dai libretti precedenti se non proprio per l’accentuazione di alcuni elementi comici (si veda ad esempio la versificazione di Isidoro o lo scontro tra Matilde e la Contessa d’Arco nella scena IX del primo atto). Con una sola eccezione, determinante però per classificare il genere dell’opera e svilupparne il coté ‘serio’. A differenza dei suoi predecessori Ferretti dà vita scenica al misterioso prigioniero, qui chiamato Edoardo, la cui liberazione, in Hoffmann e negli altri libretti, consente alla rivale di far accusare Euphrosine di infedeltà. Tanto nell’originale francese che nei libretti per Morlacchi e in Rossi questo prigioniero è solo citato. In Ferretti invece compare incatenato al centro del primo atto in una scena dalla quale apprendiamo che la sua unica colpa è non voler riconoscere Corradino «vincitore». Il personaggio, affidato ad un contralto, intona poi l’aria «Piange il mio ciglio è vero», unico momento patetico nell’atto prima del Finale, nel corso del quale apprendiamo che il padre di Edoardo, Raimondo Lopez, armato e «alla testa delle squadre» sta assalendo il castello per liberare il figlio. In Hoffmann, l’assalto al castello – collocato in chiusura del secondo atto – non ha motivazione, mentre nel Corradino di Morlacchi Adolfo annuncia l’arrivo di un generico «nemico»:

Che vuol che tu gli renda            

Il Cavalier che in carcere

Ritieni.43?

Aver così presentato il padre di Edoardo nel Finale Primo consente a Ferretti di far apparire anche lui in carne ed ossa nel secondo atto per l’incontro col figlio, scena in cui gli viene affidata l’aria più ampia e più ricca di pathos dell’opera, «Ah! Perché, perché la morte». Un’altra curiosa variante la troviamo quando Ferretti affronta il nodo cruciale del genere semiserio, e cioè la condanna dell’innocente ingiustamente accusata. Quando, per le trame della Contessa d’Arco, Corradino si convince che Matilde, alla quale ha finalmente ceduto il cuore, è «infedele», Ferretti, da quel fine letterato che sapeva comunque essere, ripristina per lei una di quelle bizzarre condanne di cui sono fitti i miti, le favole e le antiche novelle: la donna sarà condotta presso un orrido dirupo e gettata «nella voragine». Il compito di eseguire la sentenza è però affidato al povero poeta Isidoro, cosa che riduce di molto l’impatto della trovata. Così, quando finalmente Corradino apprenderà dell’innocenza di Matilde e preso dalla disperazione deciderà di morire a sua volta nel punto stesso «ove Matilde mia trovò la morte», non ci si stupisce di apprendere che Isidoro ha ucciso Matilde solo «per metafora» e l’opera può dunque chiudersi con il trionfo dell’amore e dell’innocenza e soprattutto delle donne, nate «per vincere e regnar». Va comunque detto che proprio i ruoli aggiunti di Edoardo e Raimondo, anche se insufficientemente sviluppati, furono fonte di ispirazione per Rossini il quale, come si è già notato sopra, nell’aria per il basso raggiunge il vertice del patetico grazie all’assolo di corno introduttivo, e al toccante andantino, una pagina belliniana ante litteram. Non altrettanto bene gli dovettero andare le frequenti narrazioni guerresche, sempre sul versante eroicomico, che mostrano più di ogni altro i limiti del libretto e altre tiritere verbali e verbose che in qualche caso finirono ‘virgolettate’ e cioè non musicate.

Potrà essere interessante sottolineare che il libretto di Ferretti presentava situazioni e personaggi che Rossini aveva già incontrato nella prima fase della sua carriera. Se infatti confrontiamo Matilde con il suo primo lavoro semiserio, L’inganno felice, troviamo che la condanna di Matilde non è dissimile da quella a cui a suo tempo era scampata Isabella. Le somiglianze con L’inganno si fermano qui. Più significative quelle con La pietra del paragone, l’opera per certi versi più vicina a Matilde dal punto di vista dei personaggi. Già lì Rossini si era cimentato con la figura di un poeta buffonesco e maldestro, Pacuvio, e di un giornalista «presuntuoso e venale», Giocondo. Isidoro fonde in qualche modo i due personaggi.44 Più sottili le analogie tra il Conte Asdrubale, protagonista misogino della Pietra, e Corradino. Ambedue sono assediati dalle concorrenti (tre per il Conte Asdrubale, due per Corradino) e ambedue saranno costretti a capitolare dalla loro inimicizia per il gentil sesso. Ma proprio questo confronto mostra i limiti di Ferretti. Romanelli, librettista della Pietra, sviluppa la vicenda in modo assai più credibile, giungendo ad una trasformazione dell’animo del suo protagonista molto più convincente e consentendo a Rossini di scrivere, prima dell’epilogo dell’opera, quella che ritengo essere una delle più splendide arie amorose mai dedicate ad un basso (tradizionalmente cattivo o al più nostalgico), «Ah! se destarti in seno». Evento tanto più mirabile, data la riluttanza di Rossini a scrivere arie d’amore. In Ferretti, invece, Corradino è eccessivo in tutto e passa da un sentimento all’altro senza nessuna gradazione e non sarà un caso se finirà per avere una sola aria, perdendola poi del tutto nella versione di Napoli. Analogamente le figure femminili appaiono molto più riuscite in Romanelli dove la Marchesa Clarice, in contrasto con le sue interessate rivali, figura alla grande come donna nobile e di alto sentire. Cosa che ci si aspetta invano di ritrovare in Matilde che invece spesso si perde nella sua insistita ostentazione di vezzi e pretenziosità. Ciò dovette apparire evidente già agli spettatori della prima, a giudicare dalla fiacca difesa assunta dall’unica recensione locale, quella delle «Notizie del giorno»:

La poesia è stata da alcuni severi Aristarchi tacciata d’argomento poco acconcio alla tessitura di un dramma per musica, di un numero soverchiamente ridondante di parti accessorie, di deciso allontanamento dai limiti di una tollerabile durata e finalmente di qualche espressione troppo volgare.

Noi non c’impegneremo già a ribattere tali critiche, che, se non in tutto, ravvisiamo almeno nella maggior parte destituite di verità, ma sosterremo soltanto di avervi riconosciuto l’ingegno ferace, e la spiritosa fantasia dell’autore della Cenerentola, del Pellegrino Bianco e di non poche altre saporite e giudiziose produzioni di questo genere.45

Come dire un colpo al cerchio e uno alla botte. Non si poteva parlar male di Ferretti, troppo ben introdotto a Roma, ma intanto tutte le sacrosante critiche erano esposte e in qualche modo condivise. Altri ebbero meno scrupoli e infine anche il Radiciotti fornisce un giudizio che si può condividere in pieno:

Gli appunti mossi dai “severi aristarchi” romani son tutti meritati. Il Ferretti, con mutazioni e con aggiunte di personaggi insignificanti e di sciocchi episodi, snaturò un soggetto, che aveva già servito al poeta Hoffmann per fornire a Méhul un eccellente libretto [...]. Il librettista romano trattò un tal soggetto in maniera ultracomica. Il torriere e, specialmente, il poeta Isidoro son tipi sin troppo buffoneschi: lo stesso Corradino è rappresentato come un personaggio oltremodo ridicolo, un Don Chisciotte sempre in collera, che non comparisce mai davanti alla sua innamorata se non col pugno sull’anca e la lancia in resta. Manca poi un vero intreccio; cosicché la commedia si riduce ad una serie di scene più o meno artificialmente collegate fra loro.46

Rilievi sacrosanti ai quali andrebbe aggiunto quello sulla versificazione. Letterato ambizioso, Ferretti volle forse imitare i grandi poemi eroicomici e collocarsi sulla scia di una tradizione illustre che faceva capo ai Pulci, ai Folengo, ai Tassoni, ai Lippi. Ma anche a Roma e in dialetto romanesco, capostipite il Berneri col suo Meo Patacca, «capotruppa de la gente sgherra», c’era una ricca vena eroicomica che negli anni in cui scriveva Ferretti si espresse in maniera mirabile nelle incisioni di Bartolomeo Pinelli, i cui personaggi imitano, quando non riproducono tout court, le amplificazioni eroiche dell’antichità e si sentono in qualche modo eredi degli antichi romani. Ma quel che riesce a Pinelli, ricreare il gesto eroico in ambito popolare, non riesce compiutamente a Ferretti che si impaccia nella versificazione lambiccata, in giochi di parole stucchevoli, nell’insistenza sui rimandi, nel voler essere sempre e comunque sopra le righe.47 Tutte cose pochissimo utili in sede melodrammatica e tali da mettere in difficoltà Rossini che saggiamente omise di musicare alcuni di quei passi. Per questo il libretto di Matilde resta tanto al di sotto di quello che, senza altrettante ambizioni, lo stesso Ferretti aveva fornito a Rossini per La Cenerentola. E tuttavia, come sempre per il melodramma di quell’epoca, ciò che conta sono poi le situazioni e i nodi dell’azione i quali, per quanto gratuiti, consentivano ai compositori di approntare i salvifici “numeri chiusi”. Ed è qui che Rossini si mostrò, come sempre, magistrale.

La versione romana

Non sappiamo quale sia stata la reazione di Rossini di fronte al prodotto che possiamo presumere gli sia stato somministrato a dosi mentre stava già componendo. Su tutto dovette dominare la fretta di arrivare a dare l’opera tenendo conto che, secondo le ferree leggi dell’epoca, con l’ultimo giorno di carnevale i teatri dovevano chiudersi. È possibile che non abbia avuto troppo tempo per discutere con Ferretti radicali interventi correttivi e che si sia dovuto limitare a chiedergli i versi adatti ad introdurre gli autoimprestiti (e cioè quei pezzi la cui musica era ripresa da sue opere precedenti). Ciò premesso il comportamento di Rossini in sede compositiva può apparire singolare a chi non è addentro nella sua evoluzione e nel suo modo di procedere. In realtà nessuno gli impediva di sfrondare il libretto, come pure fece, ma in parte minima, e di produrre quanto bastava ad un melodramma di proporzioni abbastanza usuali. Nulla di tutto questo. Malgrado sia dovuto ricorrere a qualche autoimprestito (non in quantità superiore ad altre occasioni) e alla collaborazione di Giovanni Pacini di cui si dirà oltre, Rossini compose comunque per Matilde una quantità di musica sufficiente ad alimentare più di un’opera e, qualitativamente, più di un capolavoro. Sfogliando lo spartito della cosiddetta edizione standard (e cioè l’edizione di tutte le opere di Rossini per canto e piano edita da Ricordi a partire dalla metà del secolo XIX) che finì per essere una delle più monumentali dell’intera serie, balza agli occhi un primo dato: Matilde prosegue sulla linea di ampliamento dei grandi numeri chiusi perseguita da Rossini e già giunta ad un livello assai elevato col precedente Maometto II, una linea che troverà compimento con l’ultima opera italiana da lui scritta, Semiramide, e con l’ultimo capolavoro da lui prodotto ‘in italiano’ e cioè Il viaggio a Reims. Il primo atto, circoscritto al solito tra l’ampia Introduzione e uno sterminato Finale, ha al suo centro ben due ensembles, il Quartetto «Alma rea! Perché t’involi» e l’ancor più ampio Quintetto «Questa è la dea? Che aria!». Il secondo atto, che, come per la successiva opera, Zelmira, è circa la metà del lunghissimo primo, ha al suo centro un altro monumentale Sestetto. A questa tendenza alla grandiosità degli ensembles corrisponde un relativo disinteresse per le arie solistiche, due nel primo atto (una per buffo e una per il contralto, quasi un’aria da sorbetto) e due nel secondo, una per il basso (baritono) e una per il tenore, quest’ultima presa in prestito da Ricciardo e Zoraide (ed eliminata nella versione napoletana). E se il tenore deve aspettare di arrivare quasi al Finale dell’opera per esibirsi in un’aria, la protagonista en titre, Matilde, ha modo di sfoggiare in prima linea la propria vocalità solo nel Rondò conclusivo. Si dirà che così Rossini puniva in qualche modo l’inconsistenza dei personaggi; pure, da questo punto di vista, quanta strada aveva compiuto dall’epoca della Pietra del paragone, ancora vincolata agli obblighi settecenteschi di favorire ogni singolo componente del cast! Per quanto riguarda duetti e terzetti Rossini ne scrisse di fatto completamente solo uno, quello tra Matilde e Aliprando nel primo atto «Di capricci e di smorfiette» destinato a divenire nell’Ottocento l’unico morceau favori dei cantanti in un’opera che davvero non si prestava alle antologizzazioni. Un dato dunque balza evidente. Malgrado la fretta, malgrado il libretto, Rossini in qualche modo restò fedele a se stesso e cioè a quel tipo di evoluzione e di scavo nel dramma musicale che aveva intrapreso e così audacemente portato avanti nelle sue opere serie napoletane e, per quanto riguarda il genere semiserio, nella Gazza ladra. Dove non poté arrivare preferì ricorrere all’aiuto di un collaboratore, un evento eccezionale, ‘ma non troppo’ nella sua carriera.

«Non ebbi altro collaboratore che te»

Dell’intervento di Pacini e anche di alcuni degli autoimprestiti dette notizia ancora Ferretti nella citata lettera «All’estensore della Gazzetta teatrale»:

Ecco quanto volle Rossini, che nell’atto secondo, cangiando le parole, ponessi in bocca di Corradino una famosa aria del MeloDramma Ricciardo e Zoraide; volle, ed io obbediva. Volle, che vi fosse un Duetto fra le due Donne, e mi dette la musica della Cabaletta; volle ed obbedii; ma il primo tempo di quel Duetto, il Terzetto, e l’Introduzione dell’atto Secondo vennero scritti dal Maestro Pacini, che in quell’epoca trovavasi in Roma avendo composto nel Teatro Valle. Tutto ciò andò perfettamente in regola; Rossini si trovò stretto dal tempo, e pregò un amico; né le note di Pacini ebbero minor fortuna di quelle dell’Orfeo Pesarese. Lo prova, che non sapendosi questo anedoto, a nessuno mai ne cadde il sospetto.48

Fin qui il Ferretti. Toccò poi al Regli, alla voce «Pacini» del suo famoso Dizionario biografico,49 edito nel 1860, narrare la vicenda in una microsceneggiatura con tanto di dialoghetti. Qualche anno più tardi, stendendo le proprie Memorie,50 Pacini stesso riportò in nota il passo del Regli limitandosi nel testo ad un breve accenno:

Nella stagione stessa ch’io posi in iscena la Gioventù d’Enrico V, Rossini compose per il teatro Tordinona la Matilde di Chabran. Prima di lui il Maestro Grazioli diede il Pellegrino Bianco, che piacque non poco: non così avvenne della Matilde di Chabran, che dipoi fece il giro di tutti i teatri del mondo. Non starò a ripetere ciò che il Cavalier Regli narra nella mia biografia su quanto avvenne in quella stagione fra me ed il sommo Pesarese: solo dirò che fui ben fortunato di essere, come collaboratore, compagno di sventura del Maestro dei maestri.

Nel frattempo però Rossini in persona aveva patentato, per così dire, il suo illustre collega quando nel 1851 lo aveva officiato di un ulteriore servizio, la strumentazione dell’Inno della Pace su testo di Bacchilide che aveva appena composto. In una lettera del 30 gennaio di quell’anno ricordò infatti la vicenda di Matilde:

Illustre collega e amico carissimo: Se il marchese Zappi avesse reso ostensibile a te la mia lettera a lui diretta, nella quale ti prescieglievo per l’istrumentazione del meschino Inno della Pace, non ti darei oggi la pena di leggermi: non lo fece; pazienza! Io ti autorizzo e ti prego di incaricarti di questo lavoro. Non ebbi davanti la mia carriera teatrale altro collaboratore che te; testimonio la Matilde di Shabran; guadagnasti diritti alla mia riconoscenza; aderendo alle brame del Marchese ne guadagnerai nuovamente, e col tuo talento tanto egregio farai di un nano un gigante.51

Col solito tono adulatorio e nello stesso tempo scherzevole Rossini lusinga l’amico. Ma si trattava di un’altra bugia. Lasciando da parte i vari collaboratori che, secondo un uso abbastanza comune, gli scrivevano i recitativi secchi (che ben raramente a partire dalla Pietra del paragone redasse interamente di proprio pugno), i suoi collaboratori erano stati molti. E se non ha nome l’estensore dell’Aria di Alì «Le femmine d’Italia» nell’Italiana in Algeri, lo ha invece il povero Luca Agolini (detto Luchetto lo Zoppo) passato ai posteri non già per i suoi oratori, ma per aver scritto l’Aria di Alidoro, l’Introduzione all’atto secondo e l’Aria di Clorinda nella Cenerentola. Altre volte il collaboratore fu più illustre, come nel caso dell’Aria di Faraone del Mosè in Egitto composta da Michele Carafa. L’elenco potrebbe proseguire. Ma si potrà forse dire che di tutti i collaboratori di Rossini, Pacini fu certo, data la sua brillante carriera, il più illustre. È comunque assai probabile che Pacini ignorasse che nella versione napoletana Rossini aveva espunto, insieme con gli autoimprestiti da Ricciardo e Zoraide, anche i pezzi da lui composti. Matilde infatti circolò nel mondo nella versione romana, che fu anche quella tramandata dagli spartiti, e furono dunque i pezzi di Pacini ad esservi eseguiti.

Questa la vicenda che, se si accetta la versione Ferretti, indica che Pacini avrebbe scritto per intero due numeri: l’Introduzione all’atto secondo, e il Terzetto Edoardo-Corradino-Raimondo, dato confermato dall’autografo. Più complessa la situazione relativa ad un terzo numero, il Duetto Matilde-Edoardo nel secondo atto. Secondo Ferretti il primo tempo sarebbe stato scritto da Pacini, mentre egli stesso avrebbe dovuto fornire a Rossini le parole per una cabaletta già composta. Ma l’autografo dimostra con chiarezza che Rossini in persona lavorò al primo tempo e d’altra parte non è stata identificata nessuna cabaletta preesistente riferibile a questa. È dunque possibile che, se intervento di Pacini ci fu, sia stato proprio per quest’ultima. Da un’opera precedente, Eduardo e Cristina (con parentele strette anche con Bianca e Falliero) deriva invece la smagliante Sinfonia che comunque, come spiega diffusamente Jürgen Selk,52 fu in parte riveduta e ripensata anche per essere collegata ad alcuni momenti dell’opera. Ciò dimostra che in nessun modo Rossini, ad onta della fretta con cui dovette lavorare, rinunciò a curare questo suo importante lavoro.

Dopo tanti indugi l’opera giunse in porto, in coda di stagione, la sera del 24 febbraio. La compagnia annoverava come prima donna Caterina Lipparini (Matilde), cantante di lunga carriera che si esibì in diversi ruoli rossiniani. Quale buffo figurava Antonio Parlamagni (Isidoro), già Macrobio nella prima scaligera della Pietra del paragone, e interprete di grande prestigio. Per l’occasione fu utilizzata anche la di lui figlia Annetta (Edoardo). Un altro cantante “rossiniano” di qualità fu Antonio Ambrosi (o Ambrogi) (Ginardo) che era stato il primo Podestà nella Gazza ladra e aveva creato a Roma il ruolo Berengario nell’Adelaide. Fu poi il primo Polidoro in Zelmira e seguì Rossini e Barbaja a Vienna. Come Raimondo si esibì il basso Carlo Moncada. Appena qualche settimana prima, in occasione della ripresa de La Cenerentola con la quale Torlonia, in attesa della novità, aveva deciso di aprire la stagione, Rossini aveva scritto per lui la grande aria di Alidoro «Là del ciel nell’arcano profondo» destinata a sostituire quella che per la prima versione aveva scritto Agolini. Un gesto che rendeva onore alle doti vocali di quel giovane cantante, ma forse compiuto anche per placare alquanto Torlonia. Il resto del cast comprendeva Giuseppe Fusconi (Corradino), Giuseppe Fioravanti (Aliprando), Luigia Cruciati (Contessa d’Arco) e Gaetano Rambaldi (Egoldo-Rodrigo). La preparazione non era andata del tutto liscia nemmeno nel versante orchestrale. Nel corso delle prove, infatti, il primo violino Giovanni Bollo, responsabile della direzione, era stato colto da apoplessia. Fortuna volle che vi fosse a Roma Nicolò Paganini, il quale lo sostituì, cimentandosi dunque in un ruolo a lui assai congeniale, quello di direttore d’orchestra. In aggiunta Paganini sostituì anche il primo corno ammalato, eseguendo con la viola l’assolo di corno che precede l’aria di Raimondo. Le accoglienze, se non del tutto negative, come spesso si è scritto (persino, come si è visto, dal vecchio Pacini), furono quanto meno controverse. Rossini non dovette prendersela troppo se nel corso di quegli ultimi giorni di carnevale trovò modo di fare la celebre mascherata con lo stesso Paganini e con altri amici. Secondo Massimo D’Azeglio Rossini e Paganini si vestirono all’occasione da donna, l’uno ampliando le sue già abbondanti forme, Paganini esaltando la sua spettrale magrezza. Così conciati, fingendosi ciechi e chiedendo l’elemosina alle donne (di quale elemosina si tratti D’Azeglio non lo dice, ma il testo lo fa ben comprendere) intonarono per le strade un brano musicato da Rossini all’occasione, «Siamo ciechi, siamo nati», noto anche col titolo, improprio di «Il carnevale di Venezia». Secondo Pacini, che avrebbe partecipato alla mascherata e che ne dà una versione alquanto diversa, il gruppo si esibì anche in una specie di parodia di alcuni brani del Pellegrino bianco, opera del compositore romano Filippo Grazioli che, andata in scena all’Apollo il 25 gennaio, vi aveva incontrato enorme successo. Nella satira i romani avrebbero visto un’offesa alla loro suscettibilità e, secondo Pacini, avrebbero rivolto ai protagonisti minacce ed improperi, costringendoli alla fuga. Il tutto risolto la sera con un solenne banchetto.53 Così si chiuse la tribolata vicenda romana di Matilde di Shabran e con essa una densa e felice stagione per la musica a Roma. Ancora poco più di un anno (durante il quale l’opera fu ripresa, cosa che smentisce il suo presunto fiasco) e la morte di Pio VII seguita dall’avvento del fanatico Leone XII avrebbero reso difficilissima la vita dei teatri romani. Nel frattempo Rossini, che certo non aveva intenzione di sacrificare la molta musica scritta per l’occasione, ne aveva predisposto una versione per Napoli ampiamente emendata.

Bellezza e cuor di ferro

Non potendo essere rappresentata al San Carlo, rigorosamente riservata alle opere serie, Matilde fu destinata al secondo teatro reale di Napoli, il Fondo. Alcuni degli interventi operati da Rossini per questa edizione erano praticamente necessari. Opera sconosciuta ai romani, Ricciardo e Zoraide era in repertorio al San Carlo e troppo nota al pubblico napoletano perché la sua musica potesse essere in alcun modo riutilizzata. Rossini eliminò dunque il Coro degli Armigeri e sostituì l’Aria di Corradino «Anima mia, Matilde» con la Scena e Duetto Edoardo-Corradino «Da cento smanie» di nuova composizione. Un altro intervento, di rito per le opere buffe o semiserie date nei teatri napoletani, fu quello di riscrivere il ruolo del buffo (Isidoro) in dialetto napoletano. A questi interventi dettati dalla ‘piazza’, se ne aggiunsero però altri certamente voluti da Rossini per dare un migliore assetto all’opera. Dei due pezzi sicuramente scritti da Pacini, il Terzetto fu del tutto eliminato, mentre l’Introduzione all’atto secondo fu sostituita con un nuovo brano per Isidoro e Coro. Anche il Duetto Matilde-Edoardo, il quale, come abbiamo visto, non era probabilmente tutto di Rossini, fu eliminato e sostituito dal breve coro «Mandare a morte». In tal modo l’opera fu snellita, ebbe quasi tutta musica originale (e cioè scritta espressamente per Matilde) e, salvo i recitativi, tutta musica scritta da Rossini. Ne guadagnò la qualità e ne risultarono attenuati alcuni difetti del libretto, soprattutto nell’atto secondo. Un altro cambiamento di grande importanza sul piano drammaturgico fu quello di affidare la grande aria patetica del secondo atto non già a Raimondo, bensì ad Edoardo: una scelta molto logica, anche se probabilmente dettata dal desiderio di assegnare una parte più ampia ad Adelaide Comelli-Rubini.54 Di fatto il ruolo patetico di Edoardo ne guadagna, mentre questo padre che appariva un po’ a sorpresa nella scena quarta dell’atto secondo per cantare una grande aria, un terzetto (di Pacini) e poi sparire, veniva convenientemente ridimensionato al ruolo di comprimario. In definitiva di due mezzi personaggi ne uscì uno compiuto, con notevole giovamento di tutto l’assetto dell’opera.55 Non mancarono altri cambiamenti minori, ad esempio nella distribuzione delle parti nell’Introduzione, che dimostrano come Rossini avesse molto curato questa edizione andata in scena al teatro del Fondo l’11 novembre 1821 col titolo Bellezza e cuor di ferro e con un cast di stelle perfino superiore a quello romano. Oltre alla Comelli-Rubini vi figuravano infatti la Dardanelli, Giovanni David, il celebre buffo Casaccia (detto Casacciello) e nei ruoli di Aliprando e Ginardo i due bassi Michele Benedetti e Antonio Ambrosi, unico ad aver partecipato alle due prime. Logica (musicale) avrebbe voluto che fosse toccato a questa edizione rinnovata e ripensata di girare il mondo. Così non fu, probabilmente per l’impossibilità di far circolare un testo con una parte in dialetto napoletano. E logica vuole che, recuperata grazie all’edizione critica la musica di questa versione, sia oggi piuttosto questa a consentire all’opera di rioccupare quel posto nel repertorio che la qualità della musica consente a pienissimo titolo di assegnarle.

Bruno Cagli

* Questo saggio riprende, ampliandolo, quello edito per il Rossini Opera Festival 1996. C’è stato, nel frattempo, il ritrovamento e la pubblicazione delle lettere di Rossini ai genitori (G. Rossini, Lettere e documenti, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, IIIa, Pesaro, Fondazione Rossini, 2004), fondamentale, tra l’altro, per ricostruire la cronologia degli eventi. Per le fonti del libretto di Matilde di Shabran ho potuto giovarmi di due scritti. Si tratta di Teresa M. Gialdroni, Frammenti di un abbozzo curioso: qualche ipotesi sul “Trionfo delle belle” di Stefano Pavesi, in «Belliniana et alia musicologica. Festschrift für Friedrich Lippmann zum 70 Geburtstag», a cura di Daniel Brandenburg e Thomas Lindner, Wien, Edition Praesens, 2004, pp. 131-180. Il secondo scritto è il saggio per la rappresentazione del Trionfo delle belle nell’edizione 2004 del Rof: Marco Beghelli, Un modello per Matilde di Shabran. Va detto che sull’argomento ambedue gli studiosi fanno riferimento al lavoro di Fabiana Licciardi, Aspetti e tendenze del teatro musicale a Trieste fra Settecento e Ottocento, Tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1990-91.

1 In Lettere, IIIa, cit., p. 15.

Ivi, p. 22.

Ivi, p. 49.

4 G. Rossini, Lettere e documenti, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, I, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992, pp. 91-92.

5 «Io parto per Napoli Colà mi risponderai»: così l’8 giugno (ivi, p. 94), ma le lettere ai genitori ci consentono ora di accertare che l’arrivo a Napoli non avvenne se non negli ultimi giorni del mese.

Lettere, IIIa, cit., p. 82.

7 Per un excursus su tutte queste vicende e sulla vita musicale e teatrale romana in genere, rinvio a Bruno Cagli, Trame e percorsi della vita musicale, in Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia. Universale ed Eterna Capitale delle Arti. Catalogo della mostra, 7 marzo-29 giugno 2003, Milano, Electa, 2003, pp. 63-71.

Lettere, I, cit., p. 191.

Lettere, IIIa, cit., p. 159.

10 La lettera con cui Rossini restituisce la scrittura firmata in Lettere, I, cit., pp. 230-231.

11 Lettere, IIIa, cit., p. 194.

12 Ivi, p. 195.

13 Su una lettera del Consalvi che favorì la consegna di alcune casse con effetti di Rossini si veda Lettere, I, cit., p. 570. L’ammirazione del Consalvi per Cimarosa fu ben nota. Tra l’altro il cardinale commissionò il busto di Canova collocato nel Pantheon ed oggi custodito presso i Musei Capitolini. Rossini stesso, molti anni dopo, ricordava ad Hiller questa passione musicale del grande prelato ed uomo politico.

14 Le fonti teatrali, librettistiche e la lettera di Ferretti (in genere citata da Radiciotti) sono state tutte controllate sugli originali. Ringrazio Annalisa Bini, Jean-Marie Bruson, Mauro Bucarelli, Paolo Cecchi, Francesco Paolo Russo e Fabrizio Scipioni per la collaborazione nelle laboriose ricerche.

15 «Allgemeine Musikalische Zeitung», vol. VIII, n. 16 del 18 aprile 1821.

16 Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini. Vita documentata, opere ed influenza su l’arte, vol. I, Tivoli, Arti Grafiche Maiella di Aldo Chicca, 1927, p. 413.

17 Bruno Cagli, Maometto o del Sentir tragico, programma di sala per la rappresentazione del Maometto II, Milano, Teatro alla Scala, marzo 1994. Ma, in particolare per i rapporti con Lucca, si veda anche Armoniche note per armoniche alleanze nel programma di sala predisposto per l’esecuzione de Il vero omaggio nel Festival 2004.

18 Lettere, I, cit., pp. 430-431.

19 Ivi, p. 433.

20 Ivi, p. 446. Il documento reca la data del 20 novembre 1820.

21 Ivi, p. 449.

22 Il 9 dicembre Rossini comunque tranquillizzò anche la madre: «Eccomi in Roma in perfetto stato di salute» (Lettere, IIIa, cit., p. 274).

23 Si veda in Lettere, I, cit., pp. 474-5, la lettera di Rossini al Governatore di Roma, Cardinale Bernetti, in data 27 febbraio 1821, con la quale il compositore annunciava di aver ritirato la propria musica, bloccando così di fatto le repliche, per non aver Torlonia risposto «ad un mio biglietto di jeri col quale mi facevo a richiedere secondo i patti espressi nella scrittura da lui firmata la somma di scudi cinquecento residual prezzo della mia opera la Matilde [...]». Il biglietto era dunque stato inviato il 26, il giorno stesso della terza rappresentazione. Il Cardinale Bernetti provvide e le recite proseguirono. Intanto dal canto suo Rossini non aveva onorato del tutto i propri impegni con Ferretti e per sanare la situazione dovette intervenire Cesare Sterbini, come si desume da una lettera dello stesso Sterbini a Ferretti del 19 febbraio. (Ivi, pp. 462-4).

24 Il volume contiene, come d’uso all’epoca per tali pubblicazioni, accanto ad alcuni testi teatrali, una «Gazzetta teatrale» (qui col n. VII) con varie notizie e al cui interno figura la lettera di Ferretti (pp. 7-11) che reca l’intestazione: «All’Estensore della Gazzetta Teatrale Salute» e la data 13 aprile 1830.

25 Marco Spada ha suggestivamente ipotizzata l’attribuzione a Giovanni Schmidt. Si veda Marco Spada, Giovanni Schmidt librettista: biografia di un fantasma, in G. Rossini 1792-1992. Il testo e la scena. Convegno internazionale di Studi, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 465-491.

26 Nella lettera di Ferretti alle pp. 10-11 si legge: «Rossini [....] riportò in Napoli intatto il Primo Atto della Matilde scritta da uno di quei poeti; e che era stata tratta dalla celebre Matilde di Morvel, uno dei Capolavori del Teatro Francese, e nella cui recita tanto distingueasi il Demarini. Chi ne conosce l’intreccio ben vede se n’era ammissibile in Roma la rappresentazione». Non sembra dubbio che il Morvel, per una svista di Ferretti o piuttosto per un errore di stampa, debba leggersi Monvel.

27 Pp. 9-10. I corsivi, qui e nelle altre citazioni di Ferretti, sono dell’originale.

28 P. 10.

29 MATHILDE, / DRAME / en prose et en cinq actes, / PAR / LE CITOYEN MONVEL, PERE, / [....] A PARIS, / CHEZ HAUTBOUT-DUMOULIN, [...] AN 7. [...] (1799).

30 Per la ricostruzione della cronologia, si veda Maria Giovanna Miggiani, Il teatro di San Moisè, in «Bollettino del Centro Rossiniano di Studi», anno XXX (1990), pp. 45-213.

31 Pp. 8-9.

32 Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini, I, cit., p. 419.

33 EUPHROSINE, / OU / LE TYRAN CORRIGÉ, / COMEDIE EN TROIS ACTES, / MELEE D’ARIETTES, / PAR M. HOFFMANN, / MUSIQUE DE MEHUL, [...] in Opéras-comiques en vers, III, pp. 234-315.

34 Marvin Tartak, Matilde and her cousins, in «Bollettino del Centro Rossiniano di Studi», III (1973), pp. 13-23 (trad. italiana pp. 36-44).

35 CORRADINO / DRAMMA / DA RAPPRESENTARSI / NELL’IMPERIALE TEATRO / DI PARMA / IL CARNEVALE / DELL’ANNO 1808. / PARMA / PER MARCO ROSSI, ED ANDREA UBALDI.

36 Sul problema dell’attribuzione rimando ai due scritti citati di Teresa M. Gialdroni e Marco Beghelli.

37 IL TRIONFO DELLE BELLE / DRAMMA EROI-COMICO / IN UN’ATTO [sic] / Poesia / Di Gaetano Rossi. / Musica / Di Stefano Pavesi / DA RAPPRESENTARSI / NEL TEATRO GIUSTINIANI / IN SAN MOISÈ / NEL CARNOVALE / 1809. / VENEZIA / NELLA STAMPERIA DI VINCENZO RIZZI. Così il titolo originale, anche se in alcune fonti leggo l’opera citata come Il trionfo della bella, certo più coerente con il soggetto.

38 L’identificazione nasce da un lato dalle parentele che con Avelloni conserva il testo di Ferretti, ma anche dal fatto che la commedia fu effettivamente stampata a Livorno. Resta il mistero del comportamento di Ferretti che parla di «autore incerto» per un lavoro che si afferma recitato «in tutti i grandi e piccioli Teatri d’Italia», un comportamento che dà adito a qualche dubbio, come quelli espressi da Beghelli nel citato articolo.

39 P. 15, trad. it. p. 37.

40 Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini, I, cit., p. 413 scrive: «Rossini è partito per Roma. Così leggo in una corrispondenza da Roma al “Nuovo Osservatore Veneto”, in data 21 dicembre 1820». Ma la citata lettera alla madre (vedi sopra nota 23) induce ad anticipare il viaggio al 7, 8 dicembre, data del resto compatibile con gli impegni napoletani. Maometto era andato in scena il 3 e dunque Rossini era certo potuto partire dopo le prime tre recite che, secondo le convenzioni, richiedevano la presenza dell’autore. Meno chiaro quanto Rossini scrive nel seguito della stessa lettera del 9: «Io ho già principiata la mia Opera e spero di farla in breve Tempo». È difficile che la vicenda del cambio del soggetto avesse consentito a Rossini di cominciare subito a comporre, a meno che non avesse iniziato sul libretto portato da Napoli, salvo poi scartarlo. Ma è forse più semplice ipotizzare che Rossini volesse comunque tranquillizzare del tutto i genitori, prima dando conto, come fa, della sua perfetta salute, poi dell’andamento del lavoro e, infine, sulla sua situazione economica. Il resto della lettera infatti insiste coloritamente su questo punto: «Mi è stato suposto che voi poco siate tranquilla per i miei interessi di Napoli siate sicura che non sono Coglione e che so coglionar tutto il mondo quando lo esigga il mio interesse [...]».

41 Si noti come, pur cambiando il nome della donna (cosa del resto che aveva già fatto Rossi), il cognome resti esattamente quello dell’originale francese, Sabran, solo arricchito di una h. Va anche notato che il libretto della prima reca Matilde Shabran ossia Bellezza e Cuor di ferro. Ma l’opera circolò poi semplicemente come Matilde di Shabran. Per quanto riguarda le fonti, Tartak (p. 22) sembra considerare la possibilità che alcuni elementi della prima Matilde, quella di Monvel, abbiano comunque finito per influire sulla seconda, ma l’ipotesi non mi sembra plausibile. Gli elementi in comune che egli cita sono in realtà patrimonio di centinaia di libretti e di soggetti dell’epoca e di fatto il Conte D’Orlheim non può essere in alcun modo paragonato a Corradino, ad onta degli atteggiamenti tirannici in comune.

42 Hoffmann prescrive, tra l’altro, «trois troubadours» e un «tambourin avec son galoubet».

43 La scena manca in Rossi il cui prigioniero, con un minimo di logica in più rispetto a Ferretti, è un nemico vinto da Corradino in un torneo.

44 Rossini, come è noto, ha messo in musica un terzo poeta, Prosdocimo, nel Turco in Italia, ma pur essendo destinato a fallire nel suo tentativo di costruire a proprio piacimento le vicende del “dramma buffo”, questo è certamente meno caricaturale degli altri due.

45 La recensione, apparsa sulle «Notizie del giorno» del 1 marzo 1821, è riportata da Radiciotti, Gioacchino Rossini, I, cit., pp. 417-8.

46 Ivi, p. 419.

47 Non mancano nel libretto citazioni illustri, come all’ingresso di Isidoro quella dei primi celeberrimi versi del Canto VII della Gerusalemme liberata, e, prima del Finale, i versi iniziali della Divina Commedia.

48 P. 10.

49 Francesco Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, Dalmazzo, 1860, pp. 368-371.

50 Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, Firenze, coi tipi dei successori Le Monnier, 1875, p. 21.

51 Lettere di G. Rossini, raccolte e annotate per cura di G. Mazzatinti - F. e G. Manis, Firenze, Barbèra, 1902, pp. 189-190.

52 Si veda il saggio riportato nel presente programma di sala.

53 La narrazione della mascherata, ripresa da I miei ricordi di Massimo d’Azeglio e da Le mie memorie artistiche di G. Pacini, è riportata in Radiciotti, Gioacchino Rossini, I, cit., p. 426.

54 A Roma, per converso, poteva aver indotto ad assegnare l’aria a Raimondo la necessità di dare una parte significativa al basso Carlo Moncada.

55 Non sembra comunque che la Comelli sia stata del tutto soddisfatta del suo ruolo, dato che, accampando un eccesso di lavoro, rifiutò di proseguire a cantare l’opera e a partire dalla replica del 29 dicembre venne sostituita. Si veda in merito Bruno Cagli, L’epoca di Rossini, in Il Teatro Mercadante, a cura di T. R. Toscano, Napoli, Electa, 1989, p. 103.

 

 

 

 


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