L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Passioni e malinconie, slave e germaniche

Emanuele Franceschetti

Nel 1857, otto anni dopo la morte di FryderykChopin, vengono pubblicate per iniziativa di Julian Fontana – pianista, amico del compositore e dedicatario di alcuni suoi lavori – diciassettemelodie polacche, per voce e pianoforte, indicizzate col numero d’opus 74. Questo relativamente esiguo corpus di musica vocale, che nell’edizione del 1949 arriverà a comprendere tre ulteriori composizioni precedentemente escluse, abbraccia quasi un ventennio (1829-1847) della produzione chopiniana, pur se in maniera discontinua. Le liriche adottate e musicate da Chopin appartengono all’alveo della poesia romantica dell’Europa dell’Est (Polonia e Ucraina, per lo più) della prima metà dell’Ottocento (in particolare Stefan Witwicki, Józef Bohdan Zaleski, Zygmunt Krasiński, Adam Mickiewicz) e ne mantengono la limpida e malinconica chiarezza espressiva. Gli esiti musicali, com’è lecito immaginare se si considera la natura non sistematica delle composizioni, sono piuttosto eterogenei: laddove in Życzenie(1829) a prevalere è lo slancio sognante e amoroso del poeta (che si immagina ora sole, ora uccello), brillantemente espresso da una mazurca spigliata e dai felici disegni melodici, in Melodya (1847) sono immagini di lontananza e rassegnazione a determinare una scrittura musicale più ricca di ambiguità armoniche, cromatismi e diffuse inquietudini. Nonostante l’occasionalità di queste pagine, e pur attestandosi queste al di quadelle complesse elaborazioni ritmico-armoniche delle maggiori composizioni pianistiche, Chopin riesce a imporre alle melodie polacche un gusto per l’intima franchezza, senza mai cedere a ingenuità o banalità di sorta.

Un rilievo maggiore, specie dal punto di vista della ricezione e della diffusione, lo possiedono le oltre cinquanta mazurche composte da Chopin tra il 1825 e il 1849. Brillantezza ritmica e ricchezza d’invenzione, pur nell’apparente semplicità di scrittura, rendono le mazurche chopiniane popolarissime, nonché oggetto di interesse di altri musicisti e compositori. Oltre a Liszt – che, peraltro, contribuisce all’ambiguo mito della componente folklorica delle mazurche – anche Pauline Viardot (1821-1910), cantante e artista parigina tra le più celebri del diciannovesimo secolo, si dedica alle mazurche di Chopin, adattandone dodici come liriche per voce e pianoforte, con l’aiuto del pittore e poeta Louis Pomey e con il consenso, sembra, dell’autore stesso: in occasione delle cui esequie funebri sarà proprio la Viardot a interpretare il Requiem mozartiano.

Ben altra rilevanza, rispetto a Chopin, è accordata da Robert Schumann all’intonazione musicale di testi poetici: nel Lied, annota un ancor giovane Schumann nei suoi appunti, il poeta e il compositore diventano una cosa sola. Il 1840 è il vero Liederjahr di Robert Schumann: vengono portati a termine, solo per citare alcuni tra i più rilevanti, il Liederkreis op. 24(su testi del prediletto Heine), l’op. 39 (su testi di Eichendorff) e l’op. 48 (Dichterliebe, sempre da Heine).Tra i cicli più significativi, anche per ragioni legate alla biografia del compositore, vi è indubbiamente anche il ciclo Frauenliebe und -Leben (op. 42, 1840), composto da Robert Schumann su liriche di Adalbert von Chamisso, i cui testi erano già stati musicati da Carl Loewe e Franz Lachner prima di lui. Le pagine dell’op. 42 di Schumann trovano la loro forza unificante – e la profonda ragion d’essere – nell’eccitazione affettiva dovuta al realizzato sogno di nozze con Clara Wieck. Terminati gli anni dell’intenso laboratorio pianistico, cui appartengono alcune delle sue più celebri pagine, Schumann si immerge nelle possibilità della scrittura sinfonica e vocale, sempre all’insegna di una profondità e pluralità di sguardo resa possibile da un apprendistato multiforme, in cui la vocazione letteraria e quella critica fiancheggiano quella musicale; “Tutto ciò che succede nel mondo, politica, letteratura, umanità, mi eccita […], ogni fatto curioso dell’epoca mi prende e lo devo poi esprimere musicalmente”, scrive Schumann nel 1838 in una lettera a Clara. Nei testi di Chamisso scelti da Schumann, l’io lirico – il punto di vista, si badi bene, è quello della sposa – assume uno sguardo lieto, talvolta persino gioioso ed esultante, a esclusione del n. 8 (An meinem Herzen), in cui il gaudio amoroso si trasforma in un’accettazione della morte.

Le tensioni e i contrasti, le accensioni e i tremori, tuttavia, riescono a emergere grazie al discorso innescato dal pianoforte (non limitato, com’è noto, alle funzioni d’accompagnamento), e a una sapienza ritmico-armonica che, al netto della circostanza lieta e della freschezza dell’ispirazione, rivela bene la ricchezza affettiva della tavolozza schumanniana, capace anche di cupezze improvvise: non è un caso che, nel brano già menzionato (il n. 8) riemergano alcuni motivi musicali del primo, producendo un effetto di sinistra e “circolare” malinconia.

Ed è proprio la malinconia – lo struggimento del crepuscolo – il sentimento dominante, e perfettamente evocato nella musica, dell’op. 91 di Johannes Brahms, i Due Lieder per contralto, viola e pianoforte. Portati a termine tra il 1878 e il 1884 (anche se una prima versione di Gestillte Sehnsucht risale al 1864) vengono inizialmente destinate ad Amalie Weiss, cantante e moglie del celebre violinista e compositore Joseph Joachim, a lungo vicino umanamente e artisticamente a Brahms: è proprio la rottura fra i due, in seguito, che convince Brahms a rimandare la pubblicazione fino al 1884. Gestillte Sehnsucht (da Friedrich Rückert) e Geistliches Wiegenlied (da Emanuel Geibel, ma originariamente da Lope de Vega) condividono una stessa atmosfera espressiva, pur nell’evidente maggior caratura poetica del testo di Rückert rispetto alla ninnananna di Geibel: motivo unificante, se così lo si può nominare, è l’immagine del sonno come abbandono e oblio, come congedo dalle inquietudini o dalle fatiche del mondo. Non siamo ancora nei veleni della fin de siècle, e in Brahms è il nitore di forma e segno a prevalere, unitamente a un’espressione vocale piana, chiara, mai convulsa. Eppure, certe tinte brune offerte dalla viola in dialogo con la voce di contralto, una scrittura pianistica viva e mutevole fino all’agitazione (si pensi alla seconda strofa di Gestillte Sehnsucht) rivelano un Brahms, al solito, mirabile nei contrasti, tra un velo di tristezza e un’appena accennata tentazione di luce.

Rispetto a Brahms e Schumann, e in generale ai maggiori compositori di area germanofona, nelle pagine vocali di Pëtr Il’ič Čajkovskij sono stati spesso evidenziati i limiti delle scelte letterarie, così come la discontinuità dei risultati effettivi, non sempre all’altezza del compositore. Bisogna d’altra parte tener presente, a parziale comprensione di tale giudizio, che non di rado queste scritture vengono elaborate in momenti di denso impegno compositivo, e talvolta persino per necessità economiche, come nel caso dei sei brani dell’op. 6 (è lo stesso Čajkovskij ad ammetterlo, in una lettera del 1869 al fratello Modest). La composizione di brani per voce e pianoforte attraversa con costanza, in ogni caso, la maggior parte della vita di Čajkovskij, a partire dal 1869 fino al 1893, anno della morte. Un semplice raffronto tra le sei romanze dell’op. 6 (1869) e le sei dell’op. 38 (1878) permette di rilevare la temperatura espressiva delle due diverse circostanze. Nel secondo gruppo, rispetto ai brani dell’op. 6 si nota una più matura e articolata scrittura per la voce: le frasi melodiche sono più fluide ed elastiche, e riescono a interagire con maggior naturalezza con il pianoforte, in una felice unità di ispirazione. Non è un caso che To bylo ranneju vesnoj (op. 38 n. 2), su testo di Aleksej Tolstoj (come buona parte delle liriche di Čajkovskij), sia una delle poche romanze che abbia avuto buona fortuna già durante la vita del compositore.

In ultimo Den' li carit op. 47 n. 6, che dopo un'introduzione mesta e riflessiva, l'appassionata e plateale dichiarazione d'amore ha qualcosa di inaspettatamente operistico. Il brano ha forse qualcosa della scena della lettera dell'Evgenij Onegin, con un pianoforte che imita la pienezza del suono dell'orchestra.


 

 

 
 
 

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