La scelta di Rosmene

di Roberta Pedrotti

 

Per la prima italiana della versione di Dublino dell'Imeneo di Händel Fabio Biondi sceglie la via della libertà più che del rigore. Come Rosmene, che la il testo della serenata vorrebbe al bivio fra virtù e piacere, ma in realtà, nel seguire il dovere, conduce in un percorso d'affetti più complesso e sottile. Brilla, nel cast, il Tirinto sfaccettato incarnato da Ann Hallenberg.

 

SIENA, 13 luglio 2013 - Si attraversa la città, fra Onda e Tartuca, per arrivare alla Chiesa di Sant'Agostino, dove l'allestimento per il concerto non permette, purtroppo, di godere della cappella Piccolomini impreziosita da Lorenzetti e Sodoma e ampi velari s'impegnano, per quanto possibile, a correggere un'acustica non proprio ottimale. Lì ci attende la prima italiana della versione di Dublino (1742) dell'Imeneo di Händel (1738); dunque Hymen, secondo la moda anglosassone d'attribuire titoli inglesi anche a opere di libretto italianissimo, lavoro quasi estremo nel catalogo operistico del Sassone, definito, per le sue limitate proporzioni, dapprima “operetta” quindi “serenata” su un libretto dell'arcade napoletano Stampiglia vecchio ormai di oltre quindici anni, quando in forma proprio di serenata musicata da Porpora celebrò aristocratiche nozze. Il fatto che Händel proprio dalla partitura di Porpora abbia desunto il testo fa ben comprendere quale fosse la circolazione del materiale fra i musicisti dell'epoca, in un'Europa dell'arte decisamente aperta e cosmopolita. La scelta di una serenata, quindi di un libretto agile, di breve respiro, più lirico che eroico, epillio più che un poema epico è, poi, una patente dichiarazione d'intenti drammaturgici, in linea con tutta la produzione tarda di Händel, tesa non alla cristallizzazione metastasiana, quanto a un recupero dell'antica commistione proteiforme fra serio, comico e mezzo carattere, con minor sfarzo virtuosistico e maggior mobilità strutturale, fra cavatine, ariosi, assiemi. Per questo Imeneo è un capolavoro, per il suo passo di commedia che si svincola dai confini della parabola morale per fare della scelta di Rosmene – già amante di Tirinto ma infine risoluta a scegliere come sposo Imeneo, cui la lega un debito di riconoscenza avendola lui salvata dai pirati – soprattutto un'arguta commedia su virtù e piacere, su riconoscenza e passione, ma anche su convenienza e desiderio in una prospettiva psicologica per nulla scontata. Imeneo, pur avendo l'onore del titolo, è penalizzato nella distribuzione delle arie e la vocalità virile (di basso baritono nella prima stesura, di tenore piuttosto grave in questa irlandese) lo avvicina più al mondo della legge e delle istituzioni del basso Argenio che non alle tenerezze amorose di soprano e musico. Non potrebbe, d'altra parte, sviluppare una personalità più articolata e sedurre Rosmene con altri argomenti se non quella virtù che costituisce il nodo della scelta rispetto all'antieroico Tirinto. Entrambi, di fronte alle esitazioni della fanciulla, attraversano però un percorso che va dalla sicumera iniziale a un labirinto di dubbi e insicurezze che solo apparentemente si pacificano nella vittoria dell'uno e nell'accettazione della sconfitta dell'altro: il sensuale duetto che chiude la serenata estromettendo di fatto il neosposo Imeneo, più che come un commiato suona come il sigillo di una nuova situazione – attualissima ai tempi di Händel – di conveniente matrimonio senza rinunciare al piacevole intrattenimento con un cavalier servente.

Peraltro, se Tirinto acquista questa centralità, sarà sicuramente merito delle cure musicali offertegli dal provvido Sassone, ma anche della classe d'artista di Ann Hallenberg, stella incontrastata di questa proposta senese. Il contralto svedese costruisce il personaggio nota per nota, parola per parola, dall'iniziale inanità melanconica e rinunciataria di fronte al rapimento dell'amata, accrescendo il sarcasmo verso il rivale, certo della sua invincibilità nel cuore di Rosmene, vacillando poi quando le sue convinzioni non trovano immediato riscontro, temendo, vedendo sgretolarsi il suo mondo affettivo e infine sciogliendo nel duetto “Per le porte del tormento” il più sensuale degli abbandoni. Il modo in cui la Hallenberg delinea questo percorso lavorando di cesello nella musica, dando senso, grazia, eleganza e pathos a ogni sua scelta – misuratissima – in termini di variazioni, dinamiche, colori è un modello d'interpretazione non solo barocca. L'ascesa accidentata ma ferma di Imeneo (nume nuziale, non già dell'amore) dalla speranza alla concretizzazione dei desideri è per forza di cose meno articolata, lascia appena intravedere i dubbi dell'amante dietro la nobiltà del dio e dell'eroe, e dunque parla appropriatamente nella vocalità ambigua e un po' spigolosa di Magnus Staveland, dalla tipica tessitura al confine fra il tenore centrale e il baritono acuto che prosperò soprattutto nel XVII secolo e non deve essere confusa con le peculiarità del baritenore o del tenore drammatico ottocenteschi. La contesa Rosmene è la delicata Ditte Andersen, altro educato frutto della scuola barocca nordica, che ben compensa questo evanescente e pur implacabile triangolo amoroso con la sua lieve dolcezza. Sicuramente il declamato drammatico che potrebbe ispirare il recitativo accompagnato con cui evoca il giudice infernale Radamanto per decretare la scelta dello sposo non trova nella sua voce uno spessore tragico che potrebbe apparire però anche sproporzionato al carattere della serenata e a una situazione in seguito ripresa nei deliri e nelle visioni più o meno strumentali di tante scaltre eroine buffe (almeno fino alla Gazzetta rossiniana, dopo altri innumerevoli esempi). Il bel ruolo sacrale di depositario di sapienza e giustizia di Argenio, è affidato al basso Marcos Fink, il meno giovane della compagnia, che accusa talora qualche appannamento e segno di stanchezza. Del tutto marginale in questa versione la parte di Clomiri, in origine amante non riamata di Imeneo e ora ridotta a un misero recitativo di poca o nulla importanza e a rimpolpare i cori, risolta comunque puntualmente da Cristina Arcari.

Per un lavoro che a Dublino venne proposto a breve distanza e in condizioni simillime al Messiah, Fabio Biondi opera una scelta cameristica, quasi minimalista, con un'esecuzione a parti pressoché reali salvo per i violini che talora giungono a tre primi e tre secondi più quello del concertatore. Qualche equilibrio – quando il pieno dei violini si confronta con le altre voci singole – risulta turbato, ma la qualità dell'Europa Galante è talmente alta, con un ensemble che regala il piacere raro d'ascoltare strumenti originali precisi e sempre intonatissimi, che lo condoniamo volentieri, godendoci senza troppe preoccupazioni la leggiadria di questa lettura a mo' di miniatura intarsiata. Compete al concertatore, d'altra parte, stabilire il proprio margine di libertà e ri-creazione, da valutarsi di volta in volta in base alla coerenza dei risultati: in questo caso i dettagli discutibili, che pure non mancano, s'inseriscono però in una lettura complessiva di tale vitalità e piacevolezza da valere l'indulgenza plenaria. Proprio in virtù della felicità dell'esecuzione, lamenteremmo piuttosto alcuni tagli (come quello dell'arioso di Rosmene in apertura del secondo atto) che davvero non avrebbero ragion d'essere in questo contesto di festival e di prima proposta assoluta nel nostro paese. Allo stesso modo ci sarebbe piaciuta una maggiore cura nella trascrizione e nell'impaginazione del libretto, non esente da refusi ed errori di metrica. Davvero poco sarebbe mancato per fare di una splendida serata un evento memorabile e musicologicamante ancor più rilevante. Anche in quest'occasione il pubblico accoglie con calore e meritatissimi consensi gli artisti e in particolare Ann Hallenberg.