L'anima di Aida nella gabbia dorata

di Antonio G. Ruggeri

La direzione di Gianandrea Noseda impone alla ripresa scaligera di Aida un passo personale, asciutto e nervoso che non lascia indifferenti, così come il cast, che - esclusa la pessima Nadia Krasteva come Amneris - convince pienamente proprio sul versante musicale, con la punta di diamante della straordinaria protagonista Hui He. Si conferma una pesante, sfarzosa zavorra, invece, la produzione rutilante e kitsch di Franco Zeffirelli.

MILANO, 16 novembre 2013 - Fin dalla sua prima rappresentazione assoluta, il 24 Dicembre del 1871 per inaugurazione del nuovo teatro del Cairo, e, in seguito, dalla sua prima europea al Teatro alla Scala di Milano solo due mesi più tardi, Aida è stata riconosciuta tra i capolavori assoluti del dramma verdiano, ed è presto diventata una delle opere liriche più rappresentate al mondo. Da 100 anni a questa parte ha creato, poi, nell’immaginario collettivo un binomio inscindibile con le rappresentazioni spettacolari dell’Arena di Veron,a che non sempre, però, le hanno restituito un buon favore. Diventata, infatti, oggetto tradizionale di pompose, coloratissime e magniloquenti regie, è sempre stata messa in rilievo l’esteriore spettacolarità dell’opera, ponendo in secondo piano il vero carattere intimo e privato. Solo a partire dagli anni '80 illustri registri come Pizzi, Ronconi, Bolognini, Wilson etc. hanno ricercato un'estetica depurata da ogni cianfrusaglia decorativa, pensando a un Egitto nudo, essenziale, senza ori, argenti e costumi luccicanti come carte di cioccolatino, con una specifica ricerca di introspezione psicologica nel carattere dei personaggi. Franco Zeffirelli uomo di teatro di lunghissimo corso non si è mai distinto per regie così dette "di rottura", con vedute, se non innovative, quanto meno originali. Ha sempre avuto la sua cifra distintiva, invece, in allestimenti di monumentale spettacolarità fine a se stessa e risolti esclusivamente sul piano dell'edonismo estetico. Col passare degli anni, poi, è diventato maestro insuperato dell'autoriciclo, con una successione di spettacoli ridondanti, poco significativi e cadute di gusto nel più consueto kitsch d'antan. Eccezione fatta per lo spettacolo creato nel piccolo teatro di Busseto, dove si vide costretto a realizzare una prospettiva scenica fatta di intimismi e introspezioni, non ha sottratto neppure le numerose produzioni di Aida alle consuetudini e ai canoni del “suo" teatro musicale, riaffermando quelle ormai pretenziose e inutili esibizioni di effetti e stereotipi egizi (sfingi, piramidi, imponenti strutture dorate ricoperte di geroglifici, grandi masse di schiavi e di armigeri etc.).

Per il San’Ambrogio del 2006 il Teatro alla Scala, fresco allora di nuova gestione Lissner, mise in scena Aida dopo 21 anni di assenza, dando la responsabilità dello spettacolo a Zeffirelli. Il regista non si è spremuto troppo le meningi e, con diversi autoimprestiti, non rinunciò a ostentare tutto il suo campionario egiziano più folcloristico, pur mediando in parte il gigantismo faraonico con una scenografia composta e meno invadente. Oggi il teatro meneghino riallestisce questo spettacolo a chiusura della stagione 2013 inserendolo nelle celebrazioni per il bicentenario verdiano e, come allora, resta la sensazione di un’occasione in parte perduta o, se si preferisce, non sfruttata a dovere, in cui colpiscono soprattutto le buone soluzioni luminose ai fini narrativi (dorate e sfolgoranti per il trionfo e incorporee e misteriose per il III atto), ma si riconferma purtroppo la mancanza di una vera visione registica innovativa, limitata da scelte antiquate se non deteriorate, prive di quelle intuizioni che dovrebbero esaltare la drammaturgia verdiana.

Per i ruoli principali la Scala, a garanzia di una piena riuscita musicale, chiama Hui He, Marco Berti e Marco Spotti, ormai interpreti conosciuti e sicuri nelle rispettive parti. Relativamente meno consueti - almeno per il titolo in questione - sono i nomi di Nadia Krasteva, Zeljko Lucic e Gianandrea Noseda. Al baritono che dà forfait fin dalle prime sue recite subentra, però, Alberto Mastromarino, mentre il tenore, indisposto la sera prima dello spettacolo, viene di tutta fretta sostituito da Fabio Sartori.

Alla fine la novità di maggior interesse di questa ripresa risulta innegabilmente la direzione d’orchestra di Noseda, che tornava alla Scala in qualità di direttore verdiano offrendo una visione di Aida molto precisa. Fin dal preludio impone una direzione incisiva e asciutta, dove l’espansione melodica è sempre controllata e la ricerca analitica del particolare si integra nella compatta tensione dell’arco narrativo. Il passo teatrale è incalzante, nervoso, percussivo, sapientemente armonizzato nella ricerca di colori e sfumature. Da parte sua, quindi, una concezione dell’opera verdiana ambivalente, da leggere per alcuni come significativa per idee interpretative mature e avvincenti che formano la sua cifra esecutiva; per altri, invece , come eccessivamente schizofrenica e priva di autentico respiro verdiano, in particolar modo nel III e IV atto, dove i momenti di esotico lirismo sono d’obbligo. L’orchestra del Teatro alla Scala asseconda la sua scelta interpretativa creando un tappeto sonoro compatto e di pregevole bellezza (con una menzione speciale per gli ottoni, in questa occasione veramente impeccabili), a differenza del cast, a tratti in difficoltà nel seguire le richieste del maestro.

Protagonista era dunque Hui He, la quale dopo aver già vestito il costume della schiava egizia in numerosissime produzioni internazionali, giunge finalmente anche sul palco del massimo teatro meneghino, imponendosi con successo e riaffermandosi la più importante Aida del momento. Un primato meritato in virtù della voce bellissima di soprano lirico, calda e vellutata, che identifica un personaggio inconfondibilmente dolce e giovanile, cui non difetta quando necessaria anche una certa ampiezza e corposità per i passi più drammatici come il confronto con Amneris, il concertato del II atto e il duetto col padre Amonasro. La tecnica eccellente le consente padronanza di morbidissime mezzevoci, filati seducenti, acuti svettanti e una linea di canto purissima che si piega alla maggior parte delle indicazioni dinamiche. La frequentazione assidua del ruolo le ha poi permesso di approfondire il carattere del personaggio in ogni sua sfaccettatura: sensibile, inquieto, volitivo, ardente di passione e risoluto nel sacrificio finale. Restituisce così ad Aida un seducente amalgama di carnale sensualità e fierezza; “Ritorna vincitor” è risultato sbalorditivo per la cura irreprensibile della parola scenica e nel III atto ha realizzato un crescendo coinvolgente per accenti intimistici, quasi ipnotici. Una lezione di canto e di interpretazione per una parte che sembra fatta apposta per lei e che non poteva non riscuotere un meritato e convinto trionfo. Fabio Sartori dopo essere stato protagonista del recente Don Carlo, torna alla Scala, anche se solo per due recite, nel temibile ruolo di Radames e si presenta in ottima forma vocale. Bisogna subito dire che il tenore, abbigliato con pesanti tuniconi e mantelli di scarso appeal eroico, non convince del tutto in quanto a recitazione e resa teatrale del baldanzoso condottiero. E’ un artista serio, però; sicuro fin dalle prime note di “Se quel guerrier io fossi” nel sostenere senza problemi la tessitura e le difficoltà della parte con un timbro caldo e brunito nel registro centrale che si schiarisce nell’ascesa in acuto. Plasma un Radames personale, più eroe romantico, innamorato, sognante e vittima degli eventi che condottiero virile e orgoglioso, esprsso attraverso un canto limpido, perfettamente a fuoco nelle mezzevoci e sempre attento a colori e accenti. Molti applausi anche per lui dopo un toccante e commovente duetto finale. Difficile invece trovare una cantante meno adatta ad Amneris di Nadia Krasteva, dalla voce troppo piccola per la sala del Piermarini e nemmeno di particolare pregio timbrico. La ricerca costante di maggiore spessore porta a forzature del suono, rendendo il centro della voce vuoto, chiaro e ancora più arido, tra acuti poco centrati e un registro grave artificiosamente gonfiato. Difficile parlare di definizione della complessa psicologia del personaggio: la cantante si arrangia come può con una recitazione eccessiva e sopra le righe, rendendo insignificanti o ai limiti del ridicolo passaggi fondamentali dell’opera. Inevitabili per lei le contestazioni da parte del pubblico. Alberto Mastromarino, che pure non si è mai distinto per particolari finezze vocali, ricerca, nonostante le sue tipiche risonanze nasali, un’insolita linea di canto pulita e lirica in frasi come “Ma tu, Re, tu signore possente”, salvo infervorarsi poi con accenti troppo vigorosi nelle grandi frasi drammatiche della maledizione. Con un gioco scenico efficace e un’interpretazione musicale sorvegliata è stato un Amnonasro dignitoso. Marco Spotti si conferma autentica voce di basso verdiano, tra le più in vista dei nostri tempi e a cui si spera si diano finalmente occasioni per emergere in ruoli più significativi. Timbro brunito, sicuro nelle note gravi e opportunamente solenne nei cantabili, il suo Ramfis ieratico, di insinuante sottigliezza e con autorevole physique du rôle ,colpisce fin dalle prime frasi, cantate con pronuncia impeccabile e nobiltà. In crescendo dopo un avvio un po’ problematic,o il Re d’Egitto di Alexander Tsymbalyuck, penalizzato dalla regia che lo voleva sempre in secondo piano nel fondo del palcoscenico. Voce ia basso cantabile non particolarmente possente, ha la giusta dizione scandita per dare importanza al personaggio, risultando così corretto e pertinente. Completavano il cast l’eterea edintonata sacerdotessa di Sae Kyung Rim e il preciso, ma poco energico, Messaggero di Jaeheui Kwon. Di toccante rilievo è stato l’intervento del coro con suggestivi pianissimi nelle invocazioni alla divinità che aprono la scena della vestizione di Radames, confermandosi poi encomiabile in tutto l’arco della rappresentazione grazie all’ottima preparazione di Bruno Casoni (premiato tra l’altro recentemente con l’Ambrogino d’Oro). E altrettanto importante è stato il contributo del corpo di ballo,con Denise Gazzo ,Marco Agostino come coppia di Selvaggi e Beatrice Carbone nel ruolo immaginario di Akhmet, che, pur danzando sulle coreografie un po’ superate di Vladimir Vasiliev, hanno reso stilizzati e suggestivi i balletti ,che rischiano altrimenti di risultare troppo caricaturali.

Anche se musicalmente questa Aida non passerà di certo alla storia, raccoglie consensi incontrastati (a eccezione, come detto, della Krasteva) da parte di un pubblico numeroso, attento e partecipe e già in smaniosa attesa per La traviata del 7 Dicembre.