Meyerbeer attende ancora

di Francesco Bertini

La Fenice di Venezia inaugura la sua stagione rendendo omaggio al centocinquantesimo dalla morte di Giacomo Meyerbeer, che legò indissolubilmente la sua formazione e i suoi esordi alla città lagunare. L'Africaine, affascinante e tormentata opera postuma, è stata data con qualche taglio di troppo, ma contando sull'arte impeccabile di Jessica Pratt e sull'intelligenza di Gregory Kunde e Veronica Simeoni. Sul podio Emmanuel Villaume, regia di Leo Muscato, per uno spettacolo intelligente, dai molti pregi ma anche con alcuni limiti che fanno rimpiangere un'occasione parzialmente sprecata per rendere giustizia alla complessità del teatro di Meyerbeer.

VENEZIA, 29 novembre 2013 - Il Gran Teatro La Fenice di Venezia non è nuovo ad inaugurazioni delle proprie stagioni liriche con operazioni di invidiabile appeal mediatico e culturale. Dopo ben centoventuno anni d’assenza torna, nel massimo teatro lagunare, L’Africaine di Giacomo Meyerbeer del quale, il prossimo anno, ricorrerà il 150° anniversario della morte. La ripresa si inserisce perfettamente nell’itinerario meyerbeeriano inaugurato, alcuni anni or sono, con la riproposta di Il crociato in Egitto e con la frequente messinscena di opere francesi. Il successo ottocentesco di L’Africaine suggellò il forte legame che unì il compositore berlinese al nostro paese tanto da indurlo a mutare il nome da Jakob in Giacomo. Gli effettivi esordi in campo operistico avvennero infatti in Italia, o meglio in quelli che all’epoca erano due degli stati del Nord, il Regno Lombardo-Veneto e il Regno di Sardegna. Il pubblico lo conobbe ben presto per la determinazione, la tenacia, l’inconsueta attenzione nella stesura dei propri lavori, nel controllo della produzione, in particolare durante il lungo periodo di prove, nella redazione dei contratti con i vari teatri, senza tralasciare la pignoleria nei riguardi dei cantanti, selezionati con cura e altrettanto accuratamente istruiti. Durante l’Ottocento divenne leggendaria, nonché fortemente satireggiata, la tempistica dilatata nella composizione: con il procedere degli anni Meyerbeer, raggiunta la celebrità a seguito di Robert le diable e Les Huguenots, veniva richiesto con sempre maggiore insistenza dal pubblico, in particolare quello francese, inebriato dalla grandeur del genere allora più in voga, il grand opéra. L’Africaine ne è un esempio: tra la concezione del progetto e la messinscena passarono quasi trent’anni, di attesa per gli ascoltatori, di macerazione per gli autori. Ad una prima stesura integrale, ultimata nel 1843 e poi definitivamente nominata “vecchia Africana”, con sostanziali differenze nel plot e pure nei nomi dei personaggi, seguirono multiple riprese ed abbandoni, sempre al fianco del fedele Eugène Scribe, paziente librettista delle fatiche meyerbeeriane entrate nel mito. La partitura venne ultimata soltanto l’1 maggio 1864, il giorno prima della morte del compositore e dopo circa tre anni dalla scomparsa dello scrittore, sostituito dalla coppia Charlotte Birch-Pfeiffer e Joseph Duesberg, con interventi di Camille Du Locle. Il tempo intercorso tra quel maggio e la première dell’opera, il 28 aprile 1865, venne occupato dalla revisione, doverosa per un lavoro ultimato in corsa contro il tempo, affidata al musicologo belga François-Joseph Fétis. Numerosi tagli furono apportati, in molti casi dolorosi per l’assetto di un grand opéra che ha il merito di aver rinvigorito l’interesse per le tematiche esotiche. Nonostante le problematiche del testo, reso zoppicante da un’ambientazione non sempre efficace a causa delle numerose incongruenze, il successo fu travolgente, probabilmente anche per la devozione verso Meyerbeer e come tributo postumo del pubblico parigino verso uno dei beniamini più osannati del teatro musicale ottocentesco. 

La ripresa veneziana, in linea per rarità con lo scarso interesse mostrato nei confronti dell’autore da quasi un secolo, ha il pregio, in un periodo critico come l’attuale, di accollarsi uno sforzo produttivo non da poco, ma allo stesso tempo cede, purtroppo, alla tentazione di applicare quei famigerati tagli che quest’opera ha sempre dovuto patire (solo un esempio: salta per intero la scena prima dell’atto quinto con il suggestivo, e rilevante, duetto Sélika-Ines). L’ennesima occasione persa per rendere giustizia a Meyerbeer, in primis, e al pubblico che così facendo ha l’idea, purtroppo in parte realistica per la dilatazione temporale della composizione, di trovarsi al cospetto di un lavoro per certi versi frammentario. Si assume l’onere di questa scelta il direttore Emmanuel Villaume che torna in Fenice dopo alcuni anni di assenza (proprio lui aveva condotto in porto l’operazione Crociato in Egitto nel medesimo teatro). Fin dalla breve ouverture iniziale Villaume opta per dinamiche prestanti, in alcuni casi eccessive, che fortunatamente con il procedere della recita si assestano raggiungendo, nella scena finale dell’opera, momenti di intensa espressività. L’approccio a questo lavoro monstre esige una certa dimestichezza con i linguaggi musicali di tutta la prima parte dell’Ottocento. Meyerbeer condensa nella propria orchestrazione ispirazioni molteplici che culminano nella scrittura raffinata, estrosa e intrisa di colori dell’Africaine. Proprio i colori che lo scenografo Massimo Checchetto sfoggia nella sua scenografia, spesso minimale nelle pennellate riservate all’incantevole Madagascar, sfondo dell’appassionato canto di Vasco de Gama nel quarto atto. Solo alcuni petali, cadendo, danno l’idea della fragrante atmosfera della terra lontana e sconosciuta. Mentre nell’ultimo atto un’unica fronda di manzaniglio sublima l’intera foresta di piante velenose dove Sélika, vittima sacrificale, si immola per il suo amore impossibile. Il terzo atto si concede, al contrario, all’imponenza scenografica, cara al grand opéra, con una ricostruzione della poppa della nave di Don Pédro. Le proiezioni video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii, non molto giustificate nello svolgersi della vicenda, si basano su filmati delle guerre d’Africa e del colonialismo, nelle sue varie sfaccettature. La regia di Leo Muscato compie una buon lavoro sugli interpreti, pur non curando con la stessa attenzione tutti i protagonisti. Mentre del personaggio di Vasco emergono tanto il giovanile ardore quanto l’immaturità e la volubilità, di Sélika si fatica a cogliere la nobiltà della posizione in favore del servaggio sentimentale e umano. Gli appariscenti costumi di Carlos Tieppo vengono risaltati dal disegno luci di Alessandro Verazzi.

Il personaggio di Vasco de Gama, che nelle intenzioni di Meyerbeer avrebbe dovuto dare il titolo all’opera, è affidato a Gregory Kunde, tenore versatile, in particolare negli ultimi anni. L’artista statunitense è pienamente convincente in scena, capace di dare risalto ad un ruolo per nulla semplice e convenzionale, in bilico tra l’anelito all’immortalità e l’umanissimo, ma un po’ meschino, egoismo. Benché Kunde non riesca sempre a piegare alla personale e ricercata visione dell’eroe una voce che ha alcune udibili tracce di usura, l’emissione è solida, scolpita, con la zona acuta svettante. Il pubblico festeggia l’esecuzione della celebre aria “Pays merveilleux” dove, nonostante l’intonazione vacilli, sono efficaci fraseggio e intenzioni espressive. La protagonista femminile, Sélika, riporta in Fenice una cantante presente spesso nel Teatro veneziano, anche recentemente con Carmen, Veronica Simeoni. Il mezzosoprano si trova al cospetto di un ruolo che eccede le sue possibilità ma del quale, con intelligenza, riesce a dare una propria lettura. La bellezza del suo strumento, brunito e rotondo, si evince nei passaggi cantabili e nell’estatico atto finale. Ottima l’Inès sognante e tormentata di Jessica Pratt che ha vocalità duttile, sicura nell’affrontare le fioriture di cui è intrisa la romanza “Adieu, rives du Tage”. Angelo Veccia, pur con qualche asperità e dizione perfettibile, è un Nélusko carismatico, affascinante e di singolare credibilità scenica. Il baritono coglie le caratteristiche del carattere dello schiavo e riesce nel difficile intento di valorizzarne la parte. Luca Dall’Amico si disimpegna, salvo alcune disomogeneità, nel ruolo dello spietato Don Pédro. Per quanto riguarda i numerosi altri personaggi vanno ricordati, per le prove sufficienti, Rubén Amoretti, Il gran sacerdote di Brahma, Mattia Denti, Il grande inquisitore di Lisbona, e Anna Bordignon, Anna. Da dimenticare la prestazione, censurabile, di Davide Ruberti, Don Diégo. A completare il cast sono presenti Emanuele Giannino, Don Alvar, Giovanni Deriu, un usciere, Carlo Agostini, un marinaio, Dionigi D’Ostuni, un marinaio di vedetta, Cosimo D’Adamo, un sacerdote. L’Orchestra ed il Coro, quest’ultimo preparato da Claudio Marino Moretti, offrono una prestazione positiva. Caloroso il pubblico, specie alle uscite finali, con forti consensi per i quattro interpreti principali.