La commedia è finita

di Roberta Pedrotti

Nel dittico che apre la stagione 2014 del Regio di Parma il cast dei Pagliacci manca l'obbiettivo di offrire una moderna visione dello stile verista, confondendolo con cattivo gusto e canto dozzinale. Non migliora le cose la bacchetta di Francesco Ivan Ciampa, che tarpa le ali anche al Gianni Schicchi pucciniano.

PARMA 24 gennaio 2014 - Il gusto e lo stile non sono la stessa cosa. Il primo attiene al modo di mettere in comunicazione l'opera con l'epoca e il mondo in cui viene eseguita; il secondo all'essenza dell'opera stessa. L'uno cambia fisiologicamente con il tempo, l'altro riguarda la natura stessa, al linguaggio con il quale e per il quale l'opera è concepita. Gusto e stile non possono esser confusi, ma nemmeno essere considerati indipendentemente, giacché la percezione di questo è condizionata dall'evoluzione di quello, la coscienza del secondo contribuisce a formare il primo.

Così, come nell'ultimo mezzo secolo si è studiato e recuperato lo stile del belcanto, si è purtroppo caduti nella tentazione di confondere tout court il linguaggio del canto verista con quanto di più esteriore e datato ci appare nel gusto della prima metà del ventesimo secolo. Al contrario dovremmo recuperare un'idea di naturalismo musicale che non sia sinonimo di urla e strepiti che strapazzino la partitura secondo i più viscerali istinti, bensì di rispetto del medesimo rigore tecnico e musicale del belcanto, ma con un accento diverso, con uno stile peculiare particolarmente attento all'articolazione della parola, delle consonanti, all'immediatezza drammatica e alla forza carnale del testo. Il che non significa essere volgari: i popolani Turuiddu e Canio non potranno esprimersi come un duca di Mantova o un Infante di Spagna, ma nemmeno come il contadino Nemorino, né la principessa Fedora Romanoff o il poeta Andrea Chénier avranno molto a che fare con i più altolocati personaggi concepiti qualche decennio prima, pur senza perdere la loro nobiltà. Solo cogliendo la peculiarità dello stile attraverso cui leggere queste opere è possibile che esse svelino le loro qualità e la loro teatralità, altrimenti passeranno sempre e solo come musicaccia.

Questa purtroppo è la cifra unitaria del cast dei Pagliacci che hanno aperto, in dittico con Gianni Schicchi, la stagione 2014 del Regio di Parma.

Da qualche anno Marcello Giordani, creando anche un'apposita Fondazione, si sta dedicando a promuovere concorsi e iniziative a sostegno dei giovani artisti. Forse farebbe bene a consacrarsi interamente a queste attività, essendo ormai lo squillo lucente dei tempi migliori inquinato dallo sforzo perenne di un'emissione dal sostegno periclitante quanto precaria nell'intonazione e appiattita in una dinamica costantemente tesa e faticosa. Musicalmente banale e imprecisa, confusa nella dizione e tendente sovente al grido è pure la Nedda di Kristin Lewis, e non convince nemmeno il Tonio di Elia Fabbian, cui concediamo l'attenuante di essere subentrato alla vigilia della prima a un collega dopo essere stato scritturato inizialmente solo come Gianni Schicchi. Giova però ricordare che anche questo ruolo bifronte, ideato per un artista colto e raffinato come Victor Maurel e chiamato nel Prologo a enunciare la poetica dell'Autore e nel dramma a tramutarsi in una sorta di truce emulo di Jago, richiede oltre all'arte dell'attore e del dicitore anche l'autentica padronanza del legato e del canto sul fiato, sia per “Un nido di memorie” sia, per esempio, per “Sai ben che difforme”. Anche e soprattutto Silvio richiederebbe la finezza quasi salottiera del baritono lirico, ma la mezzavoce di Marcello Rosiello pare un sussurro confidenziale non impostato e in generale non troviamo mai la morbidezza e il controllo che avremmo auspicato. Troppa spinta e troppa poca arte anche nel Peppe di Davide Giusti, tanto che pare che qualcosa di davvero buono si possa ascoltare solo dal coro, quello adulto preparato da Martino Faggiani (dalle cui fila vengono i contadini Alessandro Bianchini – qui sindaco – e Demetrio Rabbito) e quello di voci bianche istruite da Gabriella Corsaro.

Se però le cose non funzionano come dovrebbero e paiono così omogeneamente livellate verso il basso nei ruoli solistici e nella tensione complessiva, una responsabilità non indifferente va alla bacchetta di Francesco Ivan Ciampa, che sembra disinteressarsi della precisione e dell'equilibrio fra palco e orchestra, privilegiando una drammaticità malintesa come mero – e piatto – impatto sonoro. Questi limiti sono ancor più evidenti in un'opera corale come Gianni Schicchi, dove il concertatore è quanto mai fondamentale per sbalzare il gioco di dettagli ritmici e timbrici, gli ammiccamenti, le tensioni e le sospensioni, gli idilli e le ironie della commedia pucciniana. Altrimenti il rischio di ottundere irrimediabilmente la genialità della partitura si tramuta in triste realtà.

Ed è un peccato perché il gruppo dei parenti terribili è tutto sommato ben assortito e le personalità ben definite, con Gianluca Margheri, Betto, Silvia Beltrami, Zita, Matteo Mezzaro, Gherardo, Eleonora Cantucci, Nella, Matteo Ferrara, Simone, Romina Bosco, Ciesca, ancora Rosiello come Marco e il piccolo Luca Faroldi come Gherardino. Anche Stefano Rinaldi Miliani realizza bene i bozzetti di Mastro Spinelloccio e di Ser Amantio, assistito dai testimoni Matteo Mazzoli e Romano Dal Zovo. Sarebbe bastato davvero qualche stimolo e qualche cura in più dal podio per dare il giusto passo a questo Schicchi, anche se Davide Giusti mostra come Rinuccio più ancora che come Peppe il fianco di un'emissione di fibra, bassa di posizione, senza reale proiezione e appoggio sul fiato. Ekaterina Sadovnikova è una Lauretta corretta ed Elia Fabbian si trova nel complesso più a suo agio come Schicchi che come Tonio, anche se il gioco d'accenti e colori è passibile di rifinitura, così come la tecnica, che per ora sembra contare più che altro sulla generosità dei mezzi naturali.

La messa in scena di entrambe le opere era a cura di Leonardo Grazzini, regista giovane e capace, senza dubbio promettente e tecnicamente solido, per quanto questo non ci sia parso il suo spettacolo più riuscito. L'impianto scenico di Andrea Belli è ben congegnato e decisamente azzeccato per entrambe le opere, con l'ottima illuminazione di Pasquale Mari, che contribuisce non poco all'atmosfera di casa Donati nel titolo pucciniano, e i costumi generalmente appropriati di Valeria Donata Bettella. Purtroppo nei Pagliacci i protagonisti appaiono goffi, approssimativi e manierati nella recitazione al pari che nel canto, sprecando alcune buone intuizioni, mentre non tutti i dettagli (in primis l'inserviente del teatro, un po' troppo insistitamente caricaturale) ci hanno pienamente convinti. Bene nel complesso lo Schicchi, con il suo procedere vagamente coreografato, in odor di musical.

Pubblico non proprio numeroso, con molte presenze però di studenti e di neofiti, nel complesso soddisfatti. Speriamo sia lo stimolo per tornare a vedere nuove produzioni, che ci auguriamo più compiute, sia per la scelta dei cast sia per la presenza di bacchette in grado di restituire lo stile delle partiture al gusto del nostro tempo.

foto Roberto Ricci