Il dittico di Ravel incanta Roma

di Stefano Ceccarelli

Dopo l’ennesima burrasca economica (in sintonia con la situazione d’emergenza climatica della capitale), sempre per l’annoso problema dei conti del teatro che ha portato allo sciopero per la prima del dittico, la recita del 1 febbraio – ipso facto una première – impressiona positivamente, soprattutto per la a dir poco stupenda regia di Laurent Pelly, già collaudata al Glyndebourne Festival, e per la sapiente bacchetta di Charles Dutoit.

ROMA 1 febbraio 2014 – Secondo appuntamento in cartellone per la stagione del Teatro dell’Opera di Roma, il cosiddetto ‘dittico di Ravel’, L’heure espagnole e L’enfant et les sortilèges, torna dopo sessantasei anni nel maggior teatro della capitale. L’unico precedente risale, appunto, alla stagione 1947/48, in cui venne presentata in prima assoluta L’enfant; invece, L'heure aveva avuto la sua première circa sette anni prima (stagione 1939/40), assieme a Le Coq d’Or di Rimsky-Korsakov: dirigeva allora nientemeno che Tullio Serafin. Val la pena ricordare che nel 2012 a Roma andò in scena L’heure alla sala Petrassi dell’Auditorium, per la stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

 Ambedue le opere raveliane hanno avuto una lunga gestazione e sono profondamente diverse, frutto maturo di anni storicamente e stilisticamente assai differenti: fra le due, infatti, corre il trauma profondo della Prima Guerra Mondiale. L’heure espagnole, secondo le fonti già sbozzato nel 1907, andò in scena il 19-05-1911 all’Opéra-Comique, come esordio operistico del francese: in una lettera alla testata nazionale “Le Figaro”, Ravel dichiarò di aver voluto autenticamente «rigenerare l’opera buffa italiana», ma forse varrebbe meglio dire reinterpretare, persino fagocitare tutta la tradizione buffa di matrice italiana a lui precedente. L’opera è di fatto strutturata come un lungo, interminabile recitativo, ingemmato qua e là da qualche breve inserto arioso, cui l’orchestra pone un raffinatissimo, ironico e irriverente commento musicale; i personaggi, più che cantare, devono spesso recitare. Su un vellutato accompagnamento dell’orchestra intera, fatto di ritmi inconsueti, glissati, le voci leggono una partitura che ha negli effetti di suono puro e di ritmo trascinante, inesorabile, mai arrestato, la sua geniale comicità; l’atmosfera è sovente esotica e richiama ovviamente la Spagna dov’è ambientata e le cui sonorità Ravel ben conosceva e utilizzava nelle sue composizioni, fra cui la più celebre è certamente il Boléro del 1928 (ma si ricordino in particolare la Pièce en forme de Habanera e la Rapsodie espagnole, ambedue non a caso del 1907, anno in cui prendeva forma L’heure; e non è sempre un caso che nell’opera sono disseminate citazione della Carmen di Bizet).

Di tutt’altra pasta L’enfant et les sortilèges. In piena guerra, la scrittrice Colette propose a Ravel un balletto d’argomento infantile da inscenarsi all’Opéra; Ravel sulle prime rifiutò, ma poi s’indusse a accettare e cambiò l’impiantito del lavoro per trasformarlo in un’opera. L’enfant è un autentico miracolo di melodia, intrisa di ogni genere ritmico-melodico, dal canto sacro, passando per minuetti e pastorali, fino alla scala pentatonica, al rag-time e alla cacofonia: «la sua tavolozza è di una precisione e varietà che toccano il miracolo», grazie alla «magica capacità raveliana di trasformare perfino l’imitazione del rumore in musica, di fare di qualunque impegno imitativo o descrittivo un affascinante esercizio di gusto» (Fedele D’Amico, dal programma di sala). La première s’ebbe a Monte-Carlo, il 21-03-1923, e fu tenuta a battesimo da due grandissimi: Victor de Sabata sul podio e il coreografo Georges Balanchine, ambedue assai giovani. L’attenzione per «la liberazione del senso melodico» (D’Amico), che in questo caso si traduce in una pittura bozzettistico-miniaturistica congeniale a un universo infantile, sfrutta la salda esperienza di partiture come Ma mère l’oye (1908-10, più volte ritoccata, fino al 1912), senza dimenticare le iridescenze melodiche del balletto Daphnis et Cloé (1909-1912). Charles Dutoit, un esperto di Ravel, ben dirige i complessi dell’Opera di Roma, affrontando due partiture che hanno il difetto di apparire superficialmente naïf, nascondendo la loro reale insidia: ritmi perennemente cangianti coniugati a una poliedrica musicalità. La sua resa è elegante e raggiunge il culmine nelle cullanti melodie de L'enfant. Il cast vocale è poderoso: più di dieci cantanti in scena! Ne L'Heure si distinguono positivamente la Concepciòn di Stéphanie d’Oustrac, timbricamente più vicina a un mezzo e dalle buone qualità vocali, e il Ramiro di Jean-Luc Ballestra, che possiede anche il physique du rôle del mulattiere; convincenti i tenori François Piolino (Torquemada) e l’inglese Benjamin Hulett, che affronta il non semplice ruolo del bacelliere Gonzalve, irto di fioriture e ariosi all’antica ─ l’emissione non è sempre eccezionale, anzi in alcuni tra i passaggi più acuti risulta sfibrata; Andrea Concetti ha buona presenza scenica nel ruolo di Don Inigo, ma canta in un francese che lascia a desiderare.

Ne L'enfant non c’è un ruolo fuori posto. La D’Oustrac ricompare come La Chatte nel famoso e delizioso duetto con Le Chat, che è ancora Ballestra, ambedue irresistibili. Momenti memorabili sono il bozzetto pastorale, reso arcaizzante con un canto allusivo a quelli sacri, con la pastorale cantata da Chiara Pieretti (La Pastourelle); il duetto in un grammelot strampalato de La Tasse Chinoise con La Théière, rispettivamente Hanna Hipp e il già citato Piolino, dove al black rag-time si mescolano suoni pentatonici; la struggente morte de La Princesse splendidamente cantata da Kathleen Kim, che affronta anche la difficile aria de La Feu ─ sul modello classico di quelle da soprano d’agilità ─, cui segue la languida aria de L’enfant, ruolo en travesti cantato da Khatouna Gadelia, notevolissima oltre che vocalmente anche scenicamente. Eccellente anche la performance del coro (Roberto Gabbiani) e delle voci bianche (José María Sciutto). Ma sicuramente la parte più emozionante dello spettacolo rimane la versione scenica di Laurent Pelly, vero genio registico, ripresa qui a Roma (Paul Higgins) da quella da lui apprestata per il Glyndebourne Festival. L’heure espagnole è tutto giocato sulla metà palco: la scena (Caroline Ginet) si presenta come un muro pieno di orologi di ogni tipo e di cianfrusaglie gettate alla rinfusa (uno scheletro, una lavatrice con un orologio per oblò, un’icona sacra, scatole di ogni tipo…e perfino il cofano di una macchina); sulla destra l’entrata del negozio, con il tavolo disordinato da lavoro; sulla sinistra una scala che conduce all’appartamento interno. Tutta l’azione si gioca su equivoci e colpi di scena: botole segrete che nascondono i due amanti in incognito di Concepciòn, celati dentro le due pendole, oggetti che si muovono da soli e che si illuminano. I vari cantanti offrono una recitazione spassosa, piena di doppi sensi, mai volgare.

Assai più sofisticata e complessa la scenografia (Barbara de Limburg) e la regia de L’enfant et les sortilèges, che regala momenti di valore assoluto. Si pensi alla scena d’apertura, a prospettiva distorta, in cui c’è un enorme tavolo e un’enorme sedia con sopra la Gadelia, che appare proprio come un bambino ─ vero colpo di genio l’entrata della madre su un macchinario coperto da una gonna, che la rende altissima; su quel tavolo, dopo ballano la teiera e la tazza cinese. Notevole la scena in cui da un’enorme carta da parati rotta esce il coro e i cantanti vestiti come figure da parati, mentre altri fanno capolino da dietro dei buchi; la stessa carta da parati fa da sfondo alla scena del fuoco, in cui la cantante che interpreta Le Feu, attaccata a un braccio semovente, va su e giù simulando il movimento altalenante di una fiamma; per finire, gli splendidi fondali del giardino di casa, dove, mentre sono disposti immobili i coristi vestiti da alberi, entrano i cantanti e attori saltimbanchi vestiti da ogni sorta di animali (scoiattoli, insetti, rane), osservati da un’enorme luna in alto a destra su un fondale blu notte. I costumi del Pelly sono notevolissimi. Certamente meno curati quelli semplici e dal sapore moderno-borghese de L’heure ─ e non ci sarebbe stato il bisogno di far di più; più spumeggianti, cangianti e particolari quelli de L’enfant: oltre a citare tutti quelli degli insetti, molto bello è risultato quello della rana e soprattutto quello svolazzante e vaporoso de Le Feu, di raso bianco, illuminato da una luce arancione per simulare il divampare del fuoco. Un successo indiscusso, suggellato da calorosi applausi del pubblico. Le opere del repertorio novecentesco, messe in cartellone a Roma ─ per tradizione ─ sempre come prima opera dell’anno, dopo il balletto, mantengono oramai da anni un’alta qualità: ricordo di aver assistito alle piacevolissime produzioni di Candide di Bernstein e Midsummer night’s dream di Britten. Non fanno eccezione la boccaccesca L’heure e la fantasmagoria de L’enfant.