Otello senza Otello

di Giuseppe Guggino

Va in scena al Teatro Massimo di Palermo una produzione del penultimo capolavoro verdiano in un allestimento interessante firmato da Henning Brockhaus, con l’eccellente direzione musicale di Renato Palumbo e un buon cast vocale, purtroppo deficitario nel ruolo eponimo.

PALERMO, 21 febbraio 2014 - «Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dèi e reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro risotto alla milanese ingredienti di primissima qualità». Carlo Emilio Gadda, dal palato non meno raffinato della sua penna, nel suo “rècipe” del risotto alla milanese (confluito nel volume antologico Verso la Certosa), è attentissimo alla casseruola in rame, prodigo di indicazioni per il burro di Lodi «quantum prodest, udito il numero de’ commensali», sostituibile in extrema ratio con quello di Melegnano o Melzo, sensibile nell’aggettivazione delle aggiunte accessorie di funghi, tartufo o midolle di osso. Ma tanta prosa impagabile diviene insolitamente asciutta ed essenziale quando si tratta dell’ingrediente fondamentale: «l’approntamento dei un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità»; perché in Gadda, prosatore inarrivabilmente sofisticato, coesiste pur sempre la forma mentis dell’ingegnere, poco incline per formazione alla sofisticazione; e concretezza culinaria vuole semplicemente velleitario il risotto in assenza di un riso decente, seppur con tutti gli altri ingredienti in giusta dose e buona qualità.

A meno di non confidare nel palato non troppo attento dei commensali, parimenti impraticabile dovrebbe essere ritenuto l’allestimento di Otello con un tenore incapace di cantare se non sbraitando sulle vocali (tutte trasformate in “a”) con suonacci aperti con cui, al più, si può fare Canio in teatri di provincia. Fatta questa antipatica ma evidentemente necessaria premessa, non rimane che parlare di tutto il resto. Per portare in scena la tragedia del moro di Venezia Henning Brockhaus si serve di uno spazio absidale con due pareti semoventi color ardesia e aspre rocce laviche (tutto sotto il disegno di Nicola Rubertelli), rileggendo l’azione come scaturita dall’atto della personificazione del male (Jago) che, sull’accordo iniziale dell’opera, scaraventa al suolo una tela raffigurante il dettaglio del pannello centrale del “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, eletta a paradigma dell’infranta pace interiore. Tutto quello che segue è ambientato in un orizzonte di miseria e distruzione, popolato da figure lascive inclini all’amplesso continuo (c’è l’effetto un po’ eccessivo di bordello perenne da primo quadro di Rigoletto), armi da guerra, lettighe in cui anche l’oasi musicale del giardino con i mandolini del II atto riporta l’immagine di Desdemona crocerossina intenta a servire il rancio a soldati infermi. Nonostante la mancanza di coerenza (tanto d’epoca quanto di risultati) nei costumi di Patricia Toffolutti, nonostante i rimandi troppo espliciti a più di un momento dell’allestimento scaligero di Vick del 2001, la realizzazione complessiva - anche grazie al suggestivo disegno luci (e fumi) di Alessandro Carletti - è piuttosto accurata ed efficace nell’esaltare la densità delle peculiari scelte timbriche verdiane della partitura, volutamente sinistre, mai così espressionistiche altrove.

Sul cast si impone lo Jago di Giovanni Meoni, baritono con tutta la solidità vocale necessaria per risolvere il difficile ruolo nel canto, con tutte le mezze voci richieste, senza sconti sui trilli e senza gli usuali effetti macchiettistici nei falsetti; gli difetta un poco la musicalità nella grande anticipazione falstaffiana di “Quest’è una ragna”, ma tutto il resto è semplicemente inappuntabile. Julianna Di Giacomo disegna una Desdemona convincente grazie al suo mezzo davvero ragguardevole che le consente di condurre agevolmente il grande sestetto del terzo atto; a tanta generosità di mezzi, tuttavia, serve ancora un affinamento tecnico, prima ancora che artistico. Il Cassio di Giuseppe Varano è poco udibile, oltre che di troppo scarsa avvenenza timbrica. Buono il livello dei comprimari Anna Malavasi, Pietro Picone, Maurizio Lo Piccolo e Riccardo Schirò; viceversa si può nutrire più di qualche dubbio sul fatto che la rampante Repubblica di Vinegia mandasse in giro ambasciatori senili e oscillanti come Manrico Signorini, ancorché sonori, ahinoi. Coro efficiente, specie nel settore maschile, rimpolpato per l’occasione da validi elementi aggiunti; un po’ meno superlativa che nel recente Feuersnot la prova del coro delle voci bianche.

Di grande polso ed esperienza, Renato Palumbo è capace di guidare tutti come meglio non si potrebbe (e in Otello, sin dall’uragano iniziale, le difficoltà tecniche oltre che concettuali per la bacchetta sono enormi), cavando un bellissimo suono dalla duttile Orchestra del Teatro Massimo, magnifica in tutti i settori, tranne per qualche scarsa omogeneità tra i contrabbassi nel IV atto. Tiepido successo tributato indistintamente a tutti, purtroppo, che assolve una direzione artistica senza «animo timorato degli dèi» - direbbe Gadda - nel mancato controllo della dispensa all’inizio delle prove, nonché nel mancato ricorso al mercato di riparazione per l’ingrediente principale.