Onegin, addio

di Roberta Pedrotti

Assente dalle scene bolognesi dal 1991, il capolavoro di Čajkovskij torna al Comunale in una stagione fortemente legata alla musica slava, lirica e sinfonica. Purtroppo però la resa non è all'altezza delle aspettative, con una messa in scena pretenziosa ma vuota e confusionaria, una direzione poco sfumata e autorevole e, soprattutto, una prima compagnia dalle preoccupanti lacune tecniche e musicali.

[Leggi la recensione della seconda compagnia]

BOLOGNA, 1 aprile 2014 - C'è un dato empirico che turba e spaventa: la constatazione, scevra da ogni laudatio temporis acti, di problemi d'intonazione gravi e diffusi, di carenze tecniche e musicali che non possono essere iscritte in un'evoluzione del gusto e dell'estetica, ma che pure parte del pubblico sembra non notare e perfino gradire, premiando esecuzioni sotto il livello di guardia del minimo professionale.

Di fronte alla prova di Arthur Rucinski nei panni di Evgenij Onegin è impossibile non porsi dei seri interrogativi: il baritono polacco è scenicamente agile, disinvolto, il timbro sarebbe di natura anche versato a esprimere una certa perversità, una malattia dell'animo, uno spleen implacato, ma sembra mancare totalmente d'ogni disciplina tecnica e musicale. L'intonazione è difficoltosa, l'emissione tende al grido e non riesce a trovare colori, accenti e fraseggio, non riesce a cantare, mancando di legato, né a interpretare. Così declamato violentemente l'arioso del terzo atto è del tutto sprecato e il finale si avvicina pericolosamente a una cattiva esecuzione del finale dei Pagliacci. La responsabilità è comunque ben ripartita con la Tat'jana di Amanda Echalaz, parimenti in debito d'intonazione e di fiera difficoltà nella gestione del fiato e nel sostegno del suono, con conseguente emissione frastagliata e periclitante, grigiore timbrico, legato stentato.

In queste condizioni è praticamente impossibile creare dei veri personaggi e, complici direzione e regia, il controverso dandy, fascinoso e tormentato, e la trepidante fanciulla sognatrice che diverrà una donna matura e consapevole appaiono banalmente come un arrogantello superficiale e una insulsa marionetta. Come un castello di carte, se crollano Tat'jana e Onegin, sembra crollare tutto: sfuma la complementarietà fra le due sorelle, fra il temperamento romantico dell'una e quello più frivolo e spensierato dell'altra, se anche Lena Belkina, Ol'ga, è insipida e incolore, anonima nell'accento e priva di fascino timbrico, sicurezza e incisività nel canto, che si confonde in un insieme femminile sfocato, monocromo e monocorde sia nella resa musicale sia nelle definizione delle psicologie, con le due sorelle indistinte rispetto a quella che dovrebbe essere l'autunnale signorilità della vedova Larina (Elena Traversi) o la popolaresca e materna semplicità della njanja Filipp'evna (Cristina Melis), entrambe scialbe e poco convincenti. Parimenti lontano dalla sensibilità poetica, dalla passionalità e dalla malinconia di Lenskij, il tenore Sergej Skorokhodov mantiene forse il maggior decoro professionale nel quartetto protagonista, con qualche suono ben emesso, ma una sostanziale durezza e uniformità di fraseggio, siglando un “Kuda kuda” assai parco di pathos. Meglio comunque del principe Gremin di Alekej Tanovitskij (incredibile dictu, reduce dall'inaugurazione del Metropolitan di New York nel medesimo ruolo, registrato anche in DVD): emissione greve e grezza, intonazione ancora una volta peregrina, come il suono, che oscilla alla vana ricerca di un qualche sostegno. A lui l'unica, meritatissima, contestazione della serata.

Cade nelle facile trappola della macchietta la caratterizzazione di Monsieur Triquet, circondato da giovanotti in mutande e alucce rosa da fatina, cantato da un non entusiasmante Thomas Morris. Nicolò Ceriani è il Capitano della guardia e Luca Gallo Zareckij.

In una serata infelice, in cui pure l'orchestra pare immersa in un indefinito grigiore, limitato nella dinamica e increspato da più d'una imprecisione, e il coro istruito da Andrea Faidutti non pare al meglio della forma e preparato in maniera impeccabile, molti problemi stanno alla radice. Aziz Shokhakimov ha ventisei anni ed evidentemente non è uno di quei talenti dotati dell'istintivo senso del teatro. Possiamo augurargli una crescita con il tempo e l'esperienza, ma oggi lo troviamo in difficoltà nel mantenere il controllo del rapporto fra la buca e il palcoscenico, nel gestire la drammaturgia nelle sue sfumature, nel guidare il canto con fermezza e proprietà stilistica, senza ammettere derive veriste o sbandamenti musicali tanto vistosi, cogliendo una verità e una varietà di colori, atmosfere e affetti qui irrimediabilmente latitante.

Così come latitante pareva un'idea registica forte e coerente da parte del polacco Mariusz Treliński, che ha immerso le scene liriche di Čajkovskij in un'atmosfera onirica e allucinata, dominata da un curioso personaggio dall'identità indefinita e proprio per questo distraente e poco significativo. Ora un vecchio Onegin che rivive i suoi ricordi, ora Puškin o un anonimo narratore, ora il destino, ora uno spettatore esterno; sempre, semplicemente, l'attore Emil Wesolowski impegnato in un impiccio inutile per l'azione. I tagli inflitti alla partitura (oltre alle danze scozzesi del terzo atto, che rende assai brusco il trapasso fra gli ultimi due quadri, il coro dei contadini nel primo quadro, importante per definire l'idillio campestre da cui ha inizio la vicenda e formalmente bilanciato dal secondo intervento speculare in chiusura d'atto) non paiono giustificati da una lettura forte e coerente. Si ammicca (anche nelle coreografie di Emil Wesolowski) al teatro di Carsen o Decker, ma senza averne la classe e il gusto, e dunque nel migliore dei casi si pecca d'eccessiva e goffa ambizione, inciampando fra personaggi che non trovano uno spessore né un qualche significato nell'apparire fantocci bidimensionali. Fra le scene di Boris Foltýn Kudlicka mantiene una certa qual suggestione il bosco di ghiaccio dove si svolge il duello, ma per il resto paiono costrette alla meno peggio in uno spazio non congeniale, i costumi di Joanna Klimas sono neutri o sciatti per i protagonisti, semplicemente brutti per il ballo nel palazzo di Gremin, potenzialmente più riusciti per le altre scene corali o per la festa in casa Larin, anche se con la pesante caduta nel kitsch più becero per i couplet di Triquet. Le luci di Felice Ross riprese da Sofia Alexiadou sono assai elaborate, ma sovente ridondanti e poco eleganti.

Tutte le implicazioni simboliche, sociali, psicologiche di quest'opera fascinosa e conturbante evaporano in una vuota visionarietà fine a se stessa, mentre Čajkovski, quasi sgomitando, riesce solo a tratti a far capolino con la bellezza assoluta di alcune frasi, che riescono a vincere perfino una carenza tecnica e musicale che dovrebbe far riflettere. Come dovrebbe far riflettere la soddisfazione che spirava in sala non solo per l'allestimento scenico (de gustibus non disputandum est), ma perfino per un canto tanto periclitante.