L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tanti affetti, in tal momento

di Roberta Pedrotti

Come ormai consuetudine da tre anni a questa parte, il Rossini Opera Festival si è chiuso con l'esecuzione un'opera in forma di concerto proiettata su maxischermo anche in Piazza del Popolo. La donna del lago programmata quest'anno è stata però turbata da un malore di Alberto Zedda sul podio. Dopo un'interruzione forzata il maestro, direttore artistico del Rof, ha portato a termine l'opera, in cui ha brillato l'eccellente Rodrigo di Michael Spyres.

 

PESARO, 23 agosto 2013 - Sulle ultime battute del coro Michael Spyres entra in scena, sguardo fiero, incedere sicuro. Il guerriero Rodrigo incita i suoi con una delle più aspre sortite mai uscite dalla penna di Rossini: “Eccomi a voi, miei prodi, onor del patrio suolo; se meco siete, io volo già l'oste a debellar. Allor che i petti invade sacro di patria amore, sa ognor di mille spade un braccio trionfar”. Subito dopo il canto si scioglie nella melodia d'amore che incantò Stendhal, “Ma dov'è colei, che accende dolce fiamma nel mio seno? De' suoli lumi un sol baleno fa quest'anima bear!”. Un attimo di silenzio che misurato varrebbe forse meno di una manciata di secondi, ma per noi in sala (e per la folla assiepata di fronte alla videoproiezione in Piazza del Popolo”) è più di un'eternità: è un tempo sospeso. Tutti guardano Alberto Zedda sul podio, in attesa di un cenno per attaccare la cabaletta; forse si attende un applauso dopo il cantabile? Ma l'aria non è finita, non s'usa; l'espressione dell'eroe Rodrigo si trasforma in quella di un bambino ansioso e spaventato, con lui tutto il palcoscenico è percorso da un brivido. Zedda, appoggiato al parapetto, pallidissimo fa per voltarsi e sussurra qualcosa. Si scusa, ma non ce la fa. Nello stesso istante Gianfranco Mariotti, l'amico e il sovrintendente, è già balzato sul proscenio mentre dal palco sua moglie Silvana gli porge un ventaglio; il primo violino cerca di fare aria con la partitura, Spyres, rosso in viso, cerca di sistemare una sedia e Simone Alberghini, pronto a entrare nei panni di Duglas, fa capolino con un bicchiere in mano, ma qualcuno ha già provveduto e si ritira, bianco come se non avesse più una goccia di sangue in corpo. Ecco il medico del festival, poi una voce dall'alto: intervallo. Un grande applauso risponde al saluto di Zedda, accompagnato ai camerini. Seguono quaranta minuti d'ansia, senza che nessuno sappia o abbia il coraggio di andare a chiedere, con il timore di disturbare i momenti delicatissimi che si staranno consumando dietro le quinte. Si fanno ipotesi sui potenziali sostituti. Gli amici in piazza mandano messaggi per sapere se noi, in teatro, siamo più informati, ma i telefoni si sono attivati solo per loro e solo quando la pausa è stata ufficializzata. Il rispetto verso l'uomo viene prima di ogni cosa e il cronista si deve fermare. Stringe il cuore lo sdegno vedere invece subito accendersi display di vari telefoni e tablet per riprendere il mancamento e aggiornare i social network. Magari anche in buona fede, ma quanto la buona fede è distorta dalla smania comunicativa dei nuovi media? La democrazia informatica non deve confondersi con il delirio d'onnipotenza di documentare tutto e sempre, prima degli altri, più degli altri. Questo non era spettacolo, era un uomo che si è sentito male: un po' per il caldo, un po' per il superlavoro di questi giorni (ma chi conosce Zedda sa che è impossibile mantenerlo inattivo), un po' per l'età, ha portato a termine la sezione dell'aria ed è crollato. Non è spettacolo, il teatro e la vita forse non sono la stessa cosa, ma quando si incontrano in questo modo non possiamo far altro che tacere e riflettere. Riflettere anche su cosa sarebbe il Rof senza quel gruppo di persone, non più giovanissime, che l'hanno creato e lo reggono non solo dagli uffici di sovrintendenza e direzione artistica.

Dopo quaranta minuti Zedda rientra, senza giacca e rinfrancato, e conclude il primo atto. Ancora quindici minuti di pausa e segue regolarmente il secondo, che va a concludersi oltre mezzanotte. Consideriamo lo choc subito dai solisti (che sicuramente non avranno impiegato la drammatica pausa imprevista per vocalizzare e concentrarsi sulle rispettive parti), dai professori d'orchestra, dagli artisti del coro; consideriamo lo stato di salute non ottimale del concertatore, ma per rispetto alla sua volontà di portare a termine l'opera come previsto, come previsto rendiamo conto dell'esecuzione. Su tutti s'impone proprio il Rodrigo di Michael Spyres, che anche in forma di concerto, con sguardi e gesti misurati, dà vita al condottiero e amante. Non riconosciamo in lui un semplice antagonista, bensì un uomo valoroso, l'eroe del suo popolo, sinceramente innamorato di una donna che non immagina già legata a un altro. Sanguigno, fiero, irruente, carismatico, non negativo: il fraseggio imperioso, capace di dolcezza poetica senza perdere mai d'autorità, il registro grave formidabile gli permettono di scolpire frasi altere del finale primo e del terzetto come non ricordavamo dagli anni migliori di Chris Merritt. “Da' vostri aguati uscite, figli di guerra!” si imprime nella memoria e basterebbe sola a suggellare una prova superlativa, che finalmente rende ai giorni nostri nella sua completezza anche psicologica uno dei personaggi più ardui vocalmente, e interpretativamente semplificati, dell'intero repertorio. Finalmente habemus baritenorem. Per dovere di cronaca registriamo un lieve appannamento in acuto dopo l'interruzione forzata, ma se così non fosse stato, Spyres avrebbe avuto veramente dell'inumano: invece, grazie al cielo, è un artista umanissimo, e straordinario.

L'unico altro interprete ad aver già cantato l'opera completa era Simone Alberghini, Duglas autorevole e disinvolto, nel quale spiace solo l'esclusione totale dal finale: un effetto drammatico migliore anche nella forma oratoriale si sarebbe ottenuto facendolo entrare al “Vieni Duglas, l'abbraccia... io ti perdono” di Giacomo e conservandogli almeno il ringraziamento con Malcom ed Elena, la quale si trova anche a commentare “Oh Re clemente” in luogo del basso Bertram (parte minima sovente tagliata e assorbita in questo punto proprio da Duglas). Gli altri erano tutti debuttanti nei rispettivi ruoli, e fra tutti la prova più interessante è stata quella di Chiara Amarù come Malcom. Sicuramente il mezzosoprano siciliano è ancora molto giovane e talora il cimento può apparire un po' prematuro, ma la musicista si destreggia con intelligenza e belle intuizioni mettendo in luce ottime potenzialità che avrebbero forse potuto trovare partito ancor migliore, o quantomeno assai interessante, nel ruolo Colbran di Elena. Questa era Carmen Romeu, che pure ha dimostrato uno studio accuratissimo della parte e un grande impegno interpretativo, ma la vocalità pare meno interessante, un po' opaca (forse per un'emissione leggermente larga e bassa) e poco a fuoco, dunque, nella coloratura e nella tessitura decisamente troppo grave per lei. L'artista ammirata per la valorizzazione, lo scorso anno, di Argene e Roggiero, non sembra trovarsi altrettanto a suo agio come primadonna, anche se ovviamente nel corso della serata, in questa situazione, non le è stato possibile scaldarsi ed eventualmente crescere fino al rondò, le cui polveri pirotecniche sono parse piuttosto umide, per cui il giudizio completo resta ancora sospeso.

Mantiene invece una solida continuità la prova di Dmitry Korchak come Giacomo V, il terzo debuttante e, per quanto fra i più esperti del cast, forse il meno sicuro nella parte, con qualche attacco poco cristallino. La voce si è piacevolmente sviluppata acquistando spessore e riflessi bruniti, ma il canto appare tendenzialmente spinto e monotono nel fraseggio, povero di colori e limitato ad allargare sistematicamente alcune corone. Ne soffre soprattutto “O fiamma soave”, in cui per di più perde spesso il fuoco dell'intonazione. In generale la figura fiabesca – ma sottilmente ambigua – del re clemente appare dimidiata e cede inesorabilmente lo scettro tenorile della serata al Rodrigo di Spyres. Completano il cast il Serano di Alessandro Luciano e l'Albina di Mariangela Sicilia, cui consigliamo una maggior cura della pronuncia, poco intellegibile, e della morbidezza d'emissione.

Resta da dire della direzione di Zedda, che, malore a parte, ha confermato la sua straordinaria simbiosi con la musica di Rossini. L'esecuzione, fin dall'inizio, non è troppo precisa: i complessi del teatro Comunale, d'altra parte, vengono da un mese di prove e recite serratissime fra Guillaume Tell e Italiana in Algeri e la stanchezza talora si fa sentire; Zedda non è mai stato famoso per la chiarezza del gesto e la forma non ottimale non lo aiuta. Da sempre, però, nelle esecuzioni del maestro milanese non è la precisione, non è la pulizia assoluta che si ricerca, quanto piuttosto la compenetrazione fisica, l'energia, l'amore intensissimo e quasi palpabile per quella musica così intimamente sentita. Al rientro sul podio il gesto si fa ancora più travolgente, febbrile, scattante, come se il concertatore trovasse in quella musica la sua dimensione e la sua stessa forza vitale, come a farsi parte di essa. Le sbavature in una recita di Zedda non saranno mai come quelle smorte e scolorite di un qualunque Encinar, per restare nell'attualità pesarese, ma viceversa suonano come esplosioni d'una passione incontenibile, di un'anima rossiniana che è come un fiume che gli argini rompe e sorpassa. L'applauso è interminabile, ancor più sentito e affettuoso, la conclusione della serata commuovente. Sì, il teatro e la vita non sono la stessa cosa, ma la vita talvolta irrompe, e ci perdonerà Zedda se anche concentrandoci con lui nella Donna del lago il cuore ci batteva soprattutto seguendo i movimenti di un piccolo uomo, di un ragazzino di 85 anni. 


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