La scuola di Kundry e Gurnemanz

di Francesco Lora

Cronaca del tradizionale Parsifal di Pasqua all’Opera di Stato di Vienna: è pace fatta con lo spettacolo di Christine Mielitz, ormai assimilato; la vena narrativo-espressiva latita nella direzione di Franz Welser-Möst; prevedibilmente superba, per contro, la prova tecnica dell’Orchestra e quella stilistica di Waltraud Meier e Peter Rose

 

VIENNA, 24 aprile 2014 – Nei teatri di solida tradizione germanica, le feste di Pasqua chiamano il Parsifal: anche solo una, due o tre recite, ma immancabili e tutti gli anni, tra marzo e aprile. Così a Berlino, così a Monaco di Baviera e così a Vienna, nella cui Opera di Stato, gli scorsi 17, 21 e 24 aprile, l’ultimo capolavoro di Richard Wagner è andato in scena con un allestimento scenico di repertorio e interpreti musicali di vaglia. Lo spettacolo con regìa di Christine Mielitz e scene e costumi di Stefan Meyer ha compiuto, quest’anno, il suo primo decennio di vita e le sue prime 42 serate.

E si sorride: recensendolo nel 2004, lo si classificava come figlio del Regietheater alla tedesca e ci si affannava a indagarne le minuzie esegetiche, ora ipotizzando vie di giustificazioni alle bizzarrie, ora arrampicandosi sugli specchi, ora deprecando i cattivi costumi dei tempi odierni; rivedendolo oggi, con molta acqua passata sotto i ponti, tutto sembra tradizionale e confortevole, tuttalpiù spoglio di apparati e persin scarno d’idee che propongano od offendano. Si avverte la mancanza di Thomas Quasthoff, padrino dello spettacolo al suo battesimo e carismatico interprete della parte di Amfortas, il quale contribuiva con prepotenza, muovendo il proprio corpo focomelico, all’impatto visivo, concettuale e drammaturgico dello spettacolo. Mentre vedere il giardino incantato di Klingsor tra luci psichedeliche e biancheria sexy oggi non scandalizza davvero più; e fa, appunto, sorridere.

Il discorso si fa serio, invece, passando alla parte musicale. Col pacifico invecchiare dello spettacolo della Mielitz, la direzione di Franz Welser-Möst condivide l’orizzonte piccolo-borghese: tutto si risolve nell’oro massiccio delle prime parti dell’Orchestra dell’Opera di Stato, alias Wiener Philharmoniker, con risultati scontatamente esaltanti per finezza di fraseggio e pregnanza timbrica; e l’esibizione dei muscoli raggiunge, soprattutto nell’interludio di trasformazione dell’atto I, vette di guizzante e turgido culturismo sinfonico. Non si coglie, però, veruna linea narrativa ed espressiva che non sia di maniera, e che meriti di fissarsi indelebilmente nel ricordo o di serpeggiare anche solo un istante come brivido lungo la schiena. Questo è, d’altra parte, il limite artistico comune a pressoché tutte le letture teatrali dell’attuale direttore musicale dell’Opera di Stato: ottima tecnica e spirito scarso; e conviene più abituarcisi che innalzarvi sopra canti di scorno.

Tanto più che la personalità della compagnia di canto, in più di un caso, straripa e compensa i limiti del podio. C’è innanzitutto Waltraud Meier, veterana della parte di Kundry e sua regina da interi decenni: il timbro non ha più il velluto di un tempo e cerca nelle cavità nasali i colori impalliditi, così come l’ascesa agli acuti non afferra sempre a dovere i suoni (per esempio al termine del lungo e stancante duetto col protagonista nell’atto II); ma il testo letterario e musicale, le sue risorse retoriche e le sue richieste espressive, nel Parsifal, non hanno più segreti per la Meier: ne fa fede un temperamento in sé rovente, che tuttavia sa di preferenza cedere il passo a soluzioni misurate, dove la sottigliezza d’accento vale assai più del gran gesto istrionico. Mentre all’Opera di Stato va simultaneamente in scena il Rosenkavalier di Richard Strauss, fa specie trovare non in quella, bensì nella locandina del Parsifal il nome di Peter Rose: ma il massimo Barone Ochs dei nostri giorni viene a ricordarci d’essere anche un Gurnemanz da manuale, tutto giocato sulla semplicità di un canto ortodosso, e su toni paterni, accorati, benevoli, capaci di riscaldare umanamente i lunghi racconti del cavaliere.

Attore modesto, Johan Botha ha tuttavia dalla sua, come Parsifal, il timbro di radiosità mediterranea, un’estensione ampia e facile, un’emissione corposa e squillante. Doti che difettano per contro a Matthias Goerne: acclamato finché si vuole come liederista, nella parte di Amfortas egli si presenta però con timbro plumbeo e canto sforzato, annacquando nel disagio tecnico le volontà espressive. Spiace, nel contempo, osservare l’affaticamento del promettente baritono Boaz Daniel come Klingsor, forse a monito dell’usura che parti onerose prematuramente frequentate possono recare a voci di taglio non più che lirico. Valida la folta schiera dei comprimari, eccellente il Coro preparato da Thomas Lang e ovazioni, sacrosante o di stima, per tutti gli interpreti principali.