Cambiando l'ordine degli addendi, l'Elisir non cambia

di Roberta Pedrotti

 

Il Regio di Torino chiude la stagione con una nuova produzione dell'Elisir d'amore in cui brilla il Nemorino di Francesco Meli al fianco di Désirée Rancatore, Nicola Ulivieri e Fabio Maria Capitanucci. Convince la direzione di Giampaolo Bisanti, meno la nuova produzione di Fabio Sparvoli.

 

TORINO (30 giugno 2013) Cambiando l'ordine degli addendi il risultato non cambia. E il risultato può essere riconfermare che L'elisir d'amore è una di quelle opere perfette, praticamente impossibili da rovinare anche se una qualche componente visiva o musicale non dovesse funzionare a dovere. Il risultato è anche che difficilmente si potrà definire tale una nuova produzione qualora manchi un interessante lavoro di regia sui personaggi e si cambi solo la forma e la disposizione delle balle di fieno o di un edificio rustico. Ecco dunque che, se l'Elisir è sempre godibilissimo, il nuovo allestimento di Fabio Sparvoli appare scontato, noioso e pesante. Nulla da dire sull'agile scenografia di Saverio Santoliquido, direttore di produzione del Regio, che ridispone sul palcoscenico tutti gli elementi classici utili all'azione, né sui costumi colorati e assolutamente convenzionali di Alessandra Torella (con una riserva sul secondo di Amina, che l'avvicina pericolosamente ad Heidi): tutto spira una tranquilla aria di rassicurante déjà vu che può anche funzionare per una chiusura di stagione in un giugno assolato, presumibilmente destinata a tornare stabilmente come spettacolo di repertorio a basso costo. Il problema è che la comicità immediata di questo tipo di produzioni (pensiamo al Barbiere e all'Italiana curati da Vittorio Borrelli sempre al Regio, spensieratamente concepiti semplicemente per divertire) non solo si sposa a fatica con un'opera così ricca di chiaroscuri sentimentali, ma viene resa in questo caso anche con un repertorio di gag e mossette ormai risapute e stucchevoli, che nulla aggiungono alla caratterizzazione dei personaggi, ma li riducono a macchiette bidimensionali. L'impressione è quella di un cast lasciato libero di ripetere semplicemente azioni e lazzi abituali senza cercare lo stimolo di costruire insieme una commedia di esseri umani e non una farsa di maschere e marionette. E' un peccato, perché bacchetta e cast promettevano molto e infatti, in virtù di questi addendi, il risultato è positivo e non manca di dare soddisfazioni musicali. Diamo merito a Giampaolo Bisanti di aver concertato con la sicurezza che deriva da una giusta e proficua gavetta, ma soprattutto di aver condotto la recita con autorità, gusto sorvegliato, attenzione ai dettagli anche strumentali, senza mai prevaricare il canto. Gli si potrà giusto consigliare di perseguire sempre, soprattutto in questo repertorio, l'obbiettivo della leggerezza e ci si potrà rammaricare dei tagli che hanno variamente ma inesorabilmente colpito cabalette, strette e riprese.

 

Sul palcoscenico trionfa Francesco Meli, splendidamente tenorile nel senso migliore del termine, ovvero senza che la generosità si trasformi in compiacimento gigionesco. Questo è un Nemorino tenore fino al midollo, semplice, solare, ingenuo, sempre in sospeso fra sicumera e incertezze, allegramente e inevitabilmente centro dell'attenzione. È un piacere quando la sua voce, ideale per la parte, si illumina e si espande, ma ancor più lo è osservare come sia sempre gestita con giusta intenzione nel legato e nella dinamica, impreziosita da pregevoli messe di voce; la strada segnata è quella di un artista di primissimo ordine, uno dei più rappresentativi dei nostri tempi e l'auspicio è sempre quello di un continuo affinamento e perfezionamento in questa direzione.

 

Se la regia non sembra interessata a una più sfaccettata lettura di Nemorino, Meli trova nella sua personalità una credibile coerenza per il personaggio, tanto che anche la corona di “Dulcamara corro tosto a ricercar”, applaudita a scena aperta, non appare come uno sfoggio atletico fine a se stesso, ma come un'espressione del carattere dell'innamorato di Adina. Il bis della “Furtiva lagrima” consacra un vivissimo e meritato successo personale. Anche Desirée Rancatore non si risparmia e concede, come ormai consuetudine, la replica della cabaletta “Il mio rigor dimentica”; rispetto ad altre occasioni il gusto sembra più sobrio e controllato e permette di apprezzare meglio le innate qualità del soprano palermitano, talvolta offuscate da un abuso di puntature sovracute. Senza dubbio è nei vertici del pentagramma che la sua vocalità dà il meglio di sé, ma se gestita con la giusta misura; la tendenza a cercare una maggiore rotondità nei centri, soprattutto in parti più liriche e centrali come quella di Adina, lo strumento perde di duttilità, proiezione, qualità, mentre giocando nella leggerezza che le è congeniale potrebbe ottenere risultati superlativi se mantenesse sempre il controllo stilistico e scegliesse sempre variazioni più raffinate e meno appariscenti.

Bravissimo Nicola Ulivieri, un Dulcamara dal canto elegante, signorile, sottilmente ironico, dalla bella timbratura e dall'ottima musicalità. Seppur impegnato nel ruolo sulla carta più buffo (ma che per impressionare tanto i paesani il dottore enciclopedico dovrà pur saper ostentare una certa qual autorevolezza scientifica) riesce più dei suoi colleghi a evitare troppi stereotipi attoriali. Annie Rosen è una Giannetta vocalmente sempre presente, e sempre efficace è, al solito, il Coro del Regio.

Punto debole della compagnia, purtroppo, il Belcore di Fabio Maria Capitanucci, per il quale riscontriamo purtroppo un periodo di difficoltà, con problemi di gestione del passaggio e proiezione del suono, che spesso si opacizza o si rifugia in risonanze nasali: l'impressione è quella di un nodo tecnico venuto al pettine e non compensato dalla natura, di certo una fase interlocutoria che speriamo l'ancor giovane baritono possa sciogliere e superare.

Cala così fra gli applausi l'ultimo sipario della stagione 2012/2013 del Regio di Torino. L'appuntamento è ora a ottobre per Simon Boccanegra.