Si dovea miglior mercede

di Roberta Pedrotti

Due anni dopo Le nozze di Figaro, Michele Mariotti sale sul podio del Comunale per Così fan tutte. La concertazione è sempre d'alto livello, ma la magia non si ripete a causa di una compagnia di canto per lo più non all'altezza della situazione, con alcuni elementi particolarmente inadeguati, nonostante le cure di una bacchetta sempre sensibile alle voci. In luogo del previsto allestimento di Mario Martone, si è ripreso quello, parimenti noto, di Daniele Abbado.

BOLOGNA 6 giugno 2014 - Sfogliando il programma di sala emerge ripetutamente, dai documenti raccolti in oltre due secoli di storia e critica ed esecutiva, un'evidenza quasi incredibile, che bollerebbe da più parti Così fan tutte come opera minore, e – incredibile dictu – dal libretto infelice. Eppure la bellezza dei versi di Da Ponte, la freschezza con cui ogni volta ci sembrano ombreggiarsi di nuovi significati, illuminarsi di lampi inaspettati, profumare di inedite fragranze, sembrano lì ad ammonirci del contrario, senza possibilità di replica. È vero piuttosto che, fra il meccanismo perfetto dell'indiavolata commedia delle Nozze di Figaro e il mito titanico di Don Giovanni, il viaggio nella dimensione dei sentimenti della Scuola degli amanti non possiede la stessa immediatezza, e richiede una particolare intelligenza e coesione nell'interpretazione per percorrere il labirinto senza perdersi in una scontata sequenza di arie e duetti a coppie incrociate.

Fiumi d'inchiostro, o di pixel, potrebbero spendersi per entrare nei meandri di Così fan tutte, forse più che per le sue magnifiche sorelle, ma per dire quanto sia sublime e terribile basta riflettere sull'esito della produzione in scena al Teatro Comunale di Bologna, con una bacchetta eccellente, un solido allestimento in circolazione da oltre vent'anni e un cast vocale a dir poco zoppicante.

Michele Mariotti ci aveva offerto due anni fa con Le nozze di Figaro una delle recite mozartiane più sconvolgenti degli ultimi anni, una di quelle produzioni che restano nella memoria come un'imprescindibile pietra del paragone. Un incanto che lasciava adito ai più rosei auspici per Così fan tutte. Auspici tutti ben intelleggibili in potenza fin dall'ouverture in mille dettagli e sfumature sbalzati con la grazia del vero maestro della drammaturgia musicale nell'età del Belcanto. Il finale secondo è dipanato, per fare un solo esempio, con una finezza di pesi e colori che rendono densa, quasi opprimente e irreale l'atmosfera dei concertati, dove l'inganno, il tradimento, il dubbio pulsano e sanguinano sotto la maschera del giubilo nuziale, costretti nell'attesa del futuro, nella speranza e nell'angoscia. L'attenzione alle arcate dei violini, come il cesello di ogni intervento dei fiati, permette alla musica di frustare e accarezzare, di blandire e fremere , di sorridere e palpitare senza mai forzare i confini dello stile, che romantico ancora non è, ma contiene in nuce tutta la tempesta dell'anima che esploderà di lì a poco. È un vero peccato che talora, soprattutto nel primo atto, il disegno altissimo dei numeri d'assieme debba fare i conti con un palcoscenico non altrettanto a fuoco e debba talora subordinare il fraseggio alla coesione, con alcuni rubati e rallentandi che sembravano più che altro funzionali alla correttezza generale. Nel riconoscere il merito di Mariotti di saper coniugare pratica e grammatica, ideale e necessità contingente, venendo incontro alle difficoltà degli artisti per garantire il miglior esito possibile (vedasi il provvidenziale taglio di “Ah lo veggio, quell'anima bella”, salutato con un sospiro di sollievo), ci rammarichiamo però del vedere come i limiti della compagnia abbiano più volte tarpato le ali o comunque impedito di emergere in tutto il suo potenziale alla sua interpretazione, davvero notevole nei suoi perturbanti chiaroscuri e nella sua cura impressionante di tutti i sottintesi del linguaggio mozartiano, nella fluidità sempre incisiva del fraseggio e delle dinamiche.

Se, insomma, non si è ripetuta la magia delle Nozze di Figaro di due anni fa, la causa è da individuarsi essenzialmente in una compagnia di canto generalmente non all'altezza della situazione, sia per qualità tecniche e mordente interpretativo sia soprattutto per precisione, intelligenza e sensibilità musicale. Purtroppo con Mozart non si può barare e vengono al pettine tutti i nodi per nascondere i quali altri autori pietosamente potrebbero offrire qualche appiglio.

L'assenza dei soprattitoli, che notiamo costringere un certo numero di spettatori ad affondare il naso sull'i-phone per seguire il libretto, permette altresì di far risaltare in massimo grado le differenti virtù interpretative, la chiarezza di dizione e la capacità di dar vita a uno dei più affascinanti e sfuggenti, poetici e intellettuali, frutti della penna di Da Ponte. Da questo punto di vista trionfano gli italiani, e, fra questi, i più esperti: Simone Alberghini e Nicola Ulivieri, già visti insieme nelle Nozze.

Curiosamente invertiti i ruoli cui eravamo abituati ad associarli, sono anche i due cantanti pù convincenti. Ulivieri, già Guglielmo con Claudio Abbado nel 2000 e nel 2004, presta a Don Alfonso la sua voce nobile, il suo modo di porgere signorile, il suo stile mozartiano ineccepibile, anche ad onta di un certo affaticamento in alto. Alberghini, quindici anni fa su questo stesso palcoscenico nei panni del filosofo in alternanza con il sommo Alessandro Corbelli, è sempre un attore formidabile, capace di conferire al suo Guglielmo una vitalità e una simpatia guascona che però rivelano anche una più profonda umanità: buttatosi a capofitto, senza pensarci troppo, nel gioco di travestimenti e seduzione, nello scoprirsi tradito sembra l'unico a mostrare autentico sgomento (come suggerirebbe lo stesso Mozart, isolandolo nel canone “E nel tuo, nel mio bicchiero”), avvicinandolo all'amata Fiordiligi in un equilibrio che incrina il classico schema che vorrebbe soprano e tenore più sentimentali e sensibili rispetto all'irruente sensualità di mezzosoprano e baritono.

La vocalità di Alberghini non si può dire levigata e del tutto ortodossa, specie nel passaggio all'acuto, ma l'interprete riesce a convincere e “Donne mie la fate a tanti” strappa, meritatamente, l'applauso più schietto della serata.

Terza per chiarezza di dizione e intenzione, Giuseppina Bridelli è una Despina corretta e spigliata, ma sottile sottile, di voce poco proiettata, calibrata più sulle esigenze di altro repertorio.

Così si chiudono le – parche – consolazioni vocali di questa prima, e non ci resta che allargar le braccia con sconforto. Perché se Dmitry Korchak è un Ferrando particolarmente insipido, una marionetta nelle mani di Don Alfonso senza nessuna psicologia, è soprattutto un cantante con gravi e imbarazzanti problemi musicali. Come dobbiamo, purtroppo, regolarmente constatare da qualche tempo – almeno un anno – a questa parte, il tenore non è solo spesso e volentieri al limite della precisione negli attacchi e nel solfeggio, ma, soprattutto, non centra mai esattamente il fuoco dell'intonazione, circumnavigando la nota con approssimazione, per lo più calando, anche vistosamente. Difetto non da poco, che si sposa a un legato terribilmente difficoltoso, che trasforma perfino “Un'aura amorosa” in un percorso frastagliato, non privo di un certo qual involgarito anacronismo stilistico.

La Dorabella di Anna Goryachova conferma amaramente, purtroppo, i danni di una errata classificazione vocale forzata con una tecnica impropria. Ricordavamo il registro acuto lucente, nel ruolo estesissimo di Edoardo nella Matilde di Shabran a Pesaro nel 2012, che ci fece dubitare della sua natura contraltile; dubbio confermato poi dalle difficoltà incontrate nella tessitura di Isabella nell'Italiana in Algeri del 2013, che la costringeva a riparare ai vertici del pentagramma in puntature sempre più sfogate e indurite. Ci auguravamo, però, che in una parte più ambigua come quella mozartiana, la tessitura alta la favorisse nell'esprimere al meglio la sua natura. Invece abbiamo dovuto riscontrare come questa natura sia ormai compromessa, il timbro sfocato e granuloso, l'emissione faticosa e goffa, la posizione del suono aperta e bassa alla vana ricerca di un suono che non sarebbe il suo, né quello di Dorabella, contro i principi della tecnica belcantista.

Yolanda Auyanet, almeno, non si può dire abbia sbagliato così clamorosamente la definizione del proprio strumento, ma Fiordiligi è un ruolo decisamente al di sopra delle sue possibilità di garbato e corretto soprano lirico e mette impietosamente in evidenza il sapore acidulo degli acuti e il legato poco sostenuto, pone in tensione oltre misura il suo strumento, soprattutto in “Per pietà, ben mio perdona” in cui Mariotti sembra diluire i tempi in modo da sfumare la sensazione di un'arcata di suono disomogenea (un tempo che le permettesse di legare adeguatamente le frasi facilmente sarebbe stato troppo veloce, mentre uno appena più sostenuto di quello scandito, assai lento, avrebbe messo in luce un affanno che invece così è parso ricondotto a un più coerente, languido sospiro), ma che si trasforma, da paradiso, in un prolungato purgatorio.

Il coro, nei suoi brevi interventi, è corretto ma senza particolare smalto, sotto la guida di Andrea Faidutti. Bravi Nicoletta Mezzini e Vittorio Piombo al continuo per i recitativi.

L'allestimento, abbiamo detto, è quello ben noto di Daniele Abbado, in circolazione da una ventina d'anni e i cui nostri primi ricordi in merito si perdono nella foschia delle prime memorie operistiche. Al di là di un certo abuso di proiezioni e incursioni in platea, secondo la moda dei primi anni '90, si tratta comunque sempre di uno spettacolo sempre efficace, tutto sommato godibile, chiaro, che lascia margine di movimento a chi sa recitare (che, in questo caso, è anche chi serve meglio la musica). Insomma, un buon allestimento di routine, con alcuni spunti felici, come nella lunga prospettiva di archi scenici – o cornici di specchi - ideata da Luigi Perego, anche costumista, per delineare i confini del gioco di simmetrie, riflessi, inganni, realtà e finzione. Ben fatte anche le luci di Daniele Naldi, che colgono puntualmente il clima ambiguo del crepuscolo del secolo dei Lumi.

Alla prima, si sa, il pubblico non è mai dei più calorosi, ma questa sera possiamo ben capirlo se si accende solo per Mariotti, divide equamente vivi apprezzamenti per Alberghini e Ulivieri, ma poi, salvo qualche isolato gruppetto, mostra maggior distacco fino a un singolo, ma ben udibile, Bu all'indirizzo di Korchak.

foto Rocco Casaluci