Il cellulare indiscreto

di Valentina Anzani

Per la XXIII edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico, Così fan tutte con una geniale regia di Lorenzo Regazzo.

VICENZA, 20 giugno 2014 – Il Teatro Olimpico è location preziosissima e fragile per la scenografia lignea originale fatta costruire a Vincenzo Scamozzi dagli Accademici Olimpici per il loro Edipo re del 1585, a cui sarebbe rischioso chiedere di ospitare più di un’opera all’anno. Per questa edizione delle Settimane Musicali la scelta è ricaduta sul mozartiano Così fan tutte, ultimo appuntamento dopo i concerti che hanno occupato il teatro fin dal 25 maggio scorso.

Per mettere in scena l’opera, arcate e sculture del proscenio sono divenute le pareti della dimora aristocratica in cui si sono mossi conquistatori in kilt scozzese e viziate ragazzine.

L’arcinota trama dapontiana prevederebbe che due ragazzi, tentassero (non riconosciuti) di sedurre l’uno la fidanzata dell’altro. I due agirebbero provocati da un vecchio che intende dimostrare loro che la fede delle femmine, come l’araba fenice, non esiste. Lorenzo Regazzo, nell’efficacissimo gioco metateatrale che ha visto il regista dell’allestimento entrare in scena come cantante nel ruolo dell’intrigante Don Alfonso che continua a gestire movimenti e parole degli altri personaggi, ha sviluppato un’esegesi personale del testo letterario e musicale, addomesticandolo alle proprie esigenze. Lo ha fatto tagliando versi di recitativo che hanno stravolto l’effetto di intere scene: espunto ogni riferimento al cioccolatte, per la sua prima apparizione, Despina ha esclamato un “che buono!” di apprezzamento per il contenuto della bottiglietta di superalcolico che aveva in mano; lo ha fatto sostituendo termini, come quando si impadronisce del verso dapontiano che informa dell'ambientazione partenopea in cui si finge la vicenda, per mutarlo in “Dal Veneto partiti/son gli amanti nostri”. Quando ha citato materiale estraneo all’opera, ma dello stesso librettista (un sonetto satirico dapontiano recitato da Don Alfonso) e dello stesso compositore (un passo del “catalogo” di Leporello starnazzato da una Despina indaffarata nelle faccende domestiche), ha aderito alla pratica dell’autoimprestito, aggiungendo un pregio in più ai già tanti di una regìa tanto intelligente da risolvere le incogruenze maggiori della trama. È infatti sempre parso inverosimile quanto prescrive il libretto dapontiano, in cui le due ragazze non riconoscono nelle fattezze dei nuovi corteggiatori il fidanzato della sorella. Regazzo ha fatto togliere a Guglielmo (Marco Bussi, che unisce presenza scenica e voce potente, piena e ben adatta al ruolo) i mustacchi mentre seduceva Dorabella (Raffaella Lupinacci, brava e capace di sapida ironia), che lo ha riconosciuto: ben consapevole che il tradimento sarebbe stato doppiamente grave, la ragazza ha confermato la propria natura viziata e frivola, concedendosi comunque al corteggiatore. Fiordiligi è capitolata poi, confermando il pregiudizio misogino di Don Alfonso, solo dopo essere stata sottoposta alla visione di un filmato del tradimento ripreso con un cellulare, che è assurto a Requisit imprescindibile al funzionamento drammaturgico. Ogni personaggio era approfondito caratterialmente con minuzia, merito della bravura dei cantanti sicuramente coniugata con l’attenzione che il regista ha riservato alla componente attoriale dei singoli. Dorabella era quindi una ragazzina maliziosa e fatua accanto a una Fiordiligi di carattere più riflessivo e introspettivo. Guglielmo e Ferrando hanno dimostrato ognuno un grado diverso di infantilità: il primo esibiva i muscoli e trattava in modo superficiale le donne a cui si accostava, mentra l’altro si rifugiava in un mondo di grandi ideali, che lui stesso contraddiceva nel momento in cui, professando fedeltà, si lasciava sedurre dalla bellezza (incarnata dall’attrice Eleonora Fontana, che camminava sulla scena con seducente innocenza).

Giovanna Donadini, navigata interprete del ruolo di Despina, ha tantissima voce, che prontamente scurisce per essere un’esotica cartomante dalle capacità curative mesmeriane, o nasalizza, pur mantenendola perfettamente proiettata, quando si traveste da notaio. Era molto spassosa nel suo ruolo di colf che, pur avendo lei stessa in tasca una foto dell’uomo che vorrebbe, predica bene che non val la pena “morir per un uomo”. Il suo rientrare con un aspirapolvere (acceso!) sul palco all’inizio dell’atto secondo è stato una provocazione ai tradizionalisti, ma d’altronde non è una lamentela che si ode ripetere sin dal tempo dei Torelli e dei Bibiena quella che condanna i rumori prodotti dalle macchine sceniche? Eppure nell’ottica in cui queste sono componente imprescindibile dell’apparato spettacolare, il sacrificio alla musica oscurata dal ronzio dell’aspirapolvere di Despina è parso accettabile.

Il finale risolve in modo acuto l’altra grande inverosimiglianza del libretto originario, ovvero il fatto che due ragazze accettino di darsi in moglie a quelli che fino a poche ore prima erano dei perfetti sconosciuti, pur anche se quel matrimonio le legittimasse a fuggire con loro, sottraendole alla vergogna di dover incontrare i promessi sposi traditi. Nella regia di Regazzo il momento della celebrazione del rito, che dovrebbe essere tra i più comici, si rivela tragicissimo nella sua aura paradossale e nello sguardo perso di una Fiordiligi annichilita e ormai persuasa dell’inesistenza di quell’amore assoluto proprio del teatro tragico che andava proclamando durante le sue arie.

Fin dalle prime note ha colpito l’acustica perfetta del luogo, grazie alla quale i cantanti hanno potuto permettersi ampi scarti di dinamiche fino a pianissimi minimi, tali da produrre effetti graziosi come i piccoli staccati del duetto tra Dorabella e Guglielmo, e conferire leggerezza estrema nell’emissione dei passi vocalizzati, di cui hanno dato prova soprattutto le due efficaci voci acute del Ferrando di Daniele Zanfardino e la Fiordiligi di Arianna Vendittelli. Quest’ultima si è distinta per le originali fioriture della sua «Come scoglio immoto resta», e per l’intensità dello struggimento di «Pietà ben mio», lentissimo ai limiti del concesso. Lo stesso Regazzo, poi, ha potuto esibire sulla scena, con personalità istrionica, una declamazione assai declamazione, gestendo perfettamente ogni minima inflessione della voce. L’orchestra, guidata dal direttore (ch’è anche il fondatore della rassegna) Giovanni Battista Rigon, ha condito il tutto con piglio brillante.

Alla fine dell’opera ognuno è colpevole il doppio e la disillusione sull’esistenza della fedeltà è amplificata al quadrato: riuniti intorno a un tavolo in un’atmosfera da setta satanica, giovani e serva sono diventati adepti alla causa di Don Alfonso, pronti ad aiutarlo nella scelta delle prossime vittime.