Sotto il pannello solare

di Francesco Lora

All’Arena di Verona va in scena la ripresa dell’Aida del bicentenario verdiano, nell’allestimento “alternativo” della Fura dels Baus. Eccellente il terzetto dei tre personaggi principali, con Hui He, Fabio Sartori e Violeta Urmana (tornata alla parte d’Amneris). Considerevole l’abilità narrativa del concertatore Julian Kovatchev.

[leggi la recensione del cast alternativo]

VERONA, 06/07/2014 – Ironica, esibitrice, ingenua malgré soi. Questo è l’Aida di Giuseppe Verdi nella regìa di Carlos Padrissa e Alex Ollé, alias La Fura dels Baus, concepita per l’Arena di Verona e per il bicentenario verdiano dell’anno scorso, e lì ripresa quest’anno per dieci recite dal 28 giugno al 3 agosto prossimo. Lo spettacolo vorrebbe forse anche dissacrare: non vi arriva, poiché per farlo si dovrebbe vantare una conoscenza capillare dell’opera, mentre qui il lavoro resta superficiale, esteriore, pregiudiziale. Eppure è uno spettacolo da vedere e, in qualche tratto, da gustare in uno spirito di gioco. Persino e proprio all’Arena. Analisi teatrale, come si diceva, ve n’è poca o punta. V’è per contro molta esibizione sceno-coreografica, centellinata fino alla vetrina della scena del trionfo; una scena del trionfo vera, con fluviale processione di trofei coloniali e tecnologici: elefanti e dromedari di metallo che avanzano col moto d’ingranaggi a vista, barili di petrolio e concomitante erezione d’un colossale pannello solare, monumento al dio-Sole reinventato in salsa contemporanea. Il lavoro registico, le scene di Roland Olbeter, i costumi di Chu Uroz e la coreografia di Valentina Carrasco sono altrove una collezione di miniature e colpi d’occhio, dalla danza dei piccoli schiavi mori risolta come un comico gioco d’ombre cinesi, al palcoscenico allagato dell’atto III, dove mimi-fronde-al-vento e mimi-coccodrilli rendono tutto fluttuante, mobile, insidioso, vivo anche nel silenzio della notte, fino allo spassoso inseguimento dei rettili alle calcagna d’Aida e Amonasro fuggitivi. Quanto alla fatal pietra, essa è appunto il colossale pannello solare, pian piano flesso e chiuso sui moribondi protagonisti duettanti.

Alla compagnia di canto è richiesto né più né meno che il gioco scenico d’ogni Aida tradizionale. Nessuna difficoltà si aggiunge dunque alla conquista vocale del vastissimo spazio aperto. Il colpo di mano d’Aida lascia senza fiato: Hui He, specialista della parte e una tra le voci verdiane più rigogliose d’oggi, a dispetto d’un repertorio contenuto e d’una fama mai esplosa, ha proiezione d’eccezionale ampiezza, e in ogni angolo dell’anfiteatro fa giungere voce non solo voluminosa e timbrata, ma anche facile nell’estensione e pronta a ogni minuzia di fraseggio. L’attrice non è geniale, come del resto non le si chiederebbe nella tradizione areniana, ma sia nel canto sia nel gesto è sollecita, chiara e pregnante. Accanto a lei, il Radames di Fabio Sartori fa riflettere sull’evoluzione artistico-tecnica del cantante e sugli attuali chiari di luna della vocalità verdiana: fermi a un paio di lustri fa, lo ricordavamo campione d’impaccio; riascoltato oggi, ritroviamo la fibrosità d’emissione che gli preclude lo squillo, ma scopriamo anche l’impegno espressivo, la franchezza del timbro, la sicurezza del registro acuto, insomma l’attendibilità d’un interprete ieri snobbato e oggi al contrario prezioso. Le maggiori aspettative della serata sono riposte in Violeta Urmana, sommo mezzosoprano evoluto poi in notevole soprano drammatico e oggi, dopo una dozzina d’anni, incamminata nel percorso opposto verso la corda mediosopranile; la scelta d’abbandonare la parte d’Aida e di tornare a quella d’Amneris la premia: il timbro ritrova lo smalto d’un tempo senza temere tensioni e affaticamento, i colori vocali e le inflessioni espressive illustrano un’ampia gamma di sfumature, il personaggio antagonista ostenta uno sfarzo di mezzi e un’energia di modi che oggi non temono rivali.

Piuttosto anonimo risulta invece l’Amonasro di Gennadii Vashchenko, per estraneità di tecnica e stile rispetto al canto italiano e verdiano in particolare: voce secca, espressione inerte, personaggio ridotto a mera spalla d’Aida nelle scene dell’atto III. Monocromi ma tonanti e solidi, come non ci incresce, il Re di Sergej Artamonov e il Ramfis di Raymond Aceto. E di livello anche il comprimariato, con il Messaggero risonantissimo di Antonello Ceron e la puntualissima Sacerdotessa di Maria Letizia Grosselli. Quanto alla concertazione di Julian Kovatchev, l’Arena non è il luogo adatto per esaltare e valutare i colori dell’orchestra; tutto il resto, però, palesa una cura encomiabile e una considerevole abilità narrativa: ciò si individua soprattutto in tempi e dinamiche flessibili all’estremo, che cangiano, indugiano o precipitano ogni volta che la situazione drammatica e musicale lo giustifichi, senza perdere la giustezza degli attacchi e la naturalezza dei fraseggi. Sonoro a dovere il Coro areniano, perplesso il pubblico che vorrebbe gli elefanti in carne e ossa anziché in viti e bulloni.