Valle d’Itria, giardino d’Armida

di Francesco Lora

Il Festival della Valle d’Itria restituisce l’Armida di Tommaso Traetta, ennesimo titolo d’opera più citato che ascoltato. Eccellente la parte musicale, con la direzione di Diego Fasolis e il protagonismo di Roberta Mameli. Non a fuoco la parte registica e visiva, che spreca l’appuntamento con un testo d’eccezione.

MARTINA FRANCA, 27/07/2014 – L’Armide di Philippe Quinault e Jean-Baptiste Lully, Parigi 1686, è assai più che il capolavoro d’un librettista e d’un compositore: a fine secolo varcò i confini della Francia e, in traduzione italiana, fu rappresentata a Roma (caso unico); i cinque atti e la partitura furono un modello di drammaturgia musicale per i posteri; tra ammirata soggezione e volontà d’emulazione rimase testo di discussa attualità sino al cadere dell’ancien régime. Fu un fenomeno culturale, in qualche modo paragonabile alla secolare fortuna del teatro metastasiano. Prima che Christoph Willibald von Gluck intonasse di nuovo il libretto quinaultiano, Parigi 1777, dichiarando d’aver cercato d’essere più pittore che musicista al gran cimento, almeno un’altra rivisitazione di quella poesia aveva fatto fortuna sulle scene operistiche. Qualche mese prima dell’avvio della riforma gluckiana con il balletto Don Juan, Vienna 1761, andava infatti in scena un’Armida revisionata secondo stile e prosodia italiani, per festeggiare il compleanno dell’arciduchessa Isabella di Borbone-Parma; libretto di Quinault tradotto, adattato, sforbiciato, ribaltato, più spesso banalizzato che nobilitato da Giovanni Ambrogio Migliavacca; e musica di Tommaso Traetta, al servizio particolare dell’arciduchessa stessa e già primo attore d’esperimenti d’infranciosamento e riforma dell’opera italiana alla corte di Parma. L’atto unico, inframmezzato da balli analoghi d’altra penna, ebbe gran successo anche grazie al protagonismo di Caterina Gabrielli, impressionò e commosse Metastasio in persona, rinnovò poi il successo in varie riprese tra le quali quella napoletana del 1763.

Scoccato il terzo millennio, l’Armida di Migliavacca/Traetta era l’ennesimo titolo d’opera citato a oltranza dagli studiosi ma non più effettivamente ascoltato in età contemporanea. Come al solito, il Festival della Valle d’Itria ha provveduto a riportarlo alle scene: due recite, il 27 e il 30 luglio, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, con l’occhio implorante verso un cielo di piombo e molta gratitudine per la tregua concessa da Giove Pluvio. S’è riscoperto un lavoro-cardine del teatro musicale di metà Settecento, forte nonostante tutto delle sue incoerenze: arie di delirante virtuosismo accanto ad altre tutte d’espressione, da una parte l’esibizione senza rete e dall’altra un finale di nuda austerità. Formidabile è stato il contributo del concertatore Diego Fasolis, cui non sfugge il piacere d’articolare il sovraccarico dettaglio figurativo rococò, ma che ha dell’opera un’idea unitaria, autorevole, pregnante nella narrazione benché severa nel porgere; dalla sua sagoma escono pochi gesti, ma con chiarezza e forza da titano; si concede licenze interpretative, ma le giustifica nella loro stessa perentoria efficacia (vedi la conclusione del recitativo sul quale cala la tela, asciutta in partitura e qui addirittura fulminante). Un attestato d’alta sapienza direttoriale e fervida fantasia espressiva. Il merito è condiviso con l’Orchestra internazionale d’Italia, che segue il maestro con speciale dedizione e realizza tutte le sue minuzie di lettura: dopo il caso di Fabio Luisi nella Donna serpente, si deve prendere atto che il Valle d’Itria ha oggi un’orchestra di livello, la quale è sempre la medesima da molti anni ma gode ora di guide sempre migliori. E puntiglioso è, come già in Casella, anche il Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca, preparato da Cornel Groza.

La compagnia di canto è ancora una volta esempio di lungimiranza nella scarsezza di finanze e di giusta valorizzazione delle voci giovani. La parte d’Armida è disumana per lunghezza, varietà di scrittura, pretese virtuosistiche e abbandoni patetici: Roberta Mameli, che forse non aveva mai interpretato nulla di più impegnativo, e che non troverebbe facilmente colleghe pronte a ripetere l’impresa, coglie un successo personale facendo valere la disinvolta presenza scenica, le qualità di netta dicitrice nei recitativi e l’impavida ascesa al registro sopracuto pur sempre mantenendo la giovanile, vaporosa, delicata pasta timbrica. Ella forma un’ideale coppia amorosa con Marina Comparato, esperta di ruoli en travesti dall’Adriano mestastasiano al Cherubino dapontiano: il suo Rinaldo, ben equilibrato tra il tenero e l’eroico, vanta fraseggio incisivo e una rara facilità di tenere insieme una tessitura che scorre senza sconti da un capo all’altro della gamma. Un equivoco ha pesato sulla prova di Leonardo Cortellazzi, tenore peraltro dotato di materiale fragrante e coscienza tecnica: la parte d’Idraote, notata in chiave di tenore con qualche salita oltre il rigo, è però tutta fondata su un àmbito centrale, baritonale, faticoso per un tenore in senso puro, il quale si trova così precluso il naturale sfogo estensivo e timbrico. Virtuosismo ed eleganza di modi sono ugualmente richiesti alle altre parti di contorno, tutte sostenute con finezza e perizia: Fenicia da Federica Carnevale, Argene da Leslie Vinco, Artemidoro da Maria Meerovich e Ubaldo da Mert Süngü. Purtroppo non v’è da dire dell’Odio, trascinante personaggio principale in Quinault, eliminato da Migliavacca a caro prezzo di senso teatrale.

Eccellente sin qui, lo spettacolo ha un punto debole nella sua parte registica e visiva: il solo caso di vistosa debolezza nel corso dell’attuale Festival. Delle scene di Nelson Willmotte, pallidi solidi astratti funzionali al resto, è detto in queste stesse parole. Ben più caratterizzanti sono i costumi disegnati da Vanessa Sannino, i quali sono anch’essi senza connotazione storica e puntano a quella psicologica impostata dalla regista di Juliette Deschamps. Qui non avviene il disastro da far gridare allo scandalo, ma una sagra della superficialità interpretativa di fronte a un testo d’eccezione; e i pochi momenti lieti vengono dal divertimento per le spiritose coreografie di Riccardo Oliver e per i relativi danzatori della Fattoria Vittadini. La regista pone l’accento su alcuni temi, individuati come cardinali e in verità generici, comuni a tanti drammi per musica e qui non sviluppati in forma inedita. Alla Deschamps interessa la paura d’Armida di fronte all’amore, al maschio, al suo proprio ruolo di guerriera e seduttrice; e ne esce così una donna virilizzata, caricaturale nel costume, fustigatrice dei pretendenti, opposta a un Rinaldo al contrario stravagante e femmineo, brillante nello sguardo come un punkabbestia e scialbo nell’aspetto come una porcellana di Capodimonte. Eppure il libretto di Quinault, quand’anche menomato da Migliavacca, analizzerebbe altre e più degne cause: il progresso e il declino dell’innamoramento ripercorso a ogni dubbiosa fase, la coscienza d’amare chi non potrebbe essere più diverso da sé, la tortura di sapere che la persona amata ricambia solo in virtù d’un incantesimo; materiale dal quale un regista potrebbe cavar fuori un mondo, seguendo alla lettera o reinterpretando. Ma qui s’è rimestata l’acqua sporca mentre il bambino rimaneva nelle carte di Traetta.

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