Per un Barbiere surrealista e trash

di Stefano Ceccarelli

La seconda opera in cartellone per la stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma (Terme di Caracalla) è il capolavoro rossiniano Il barbiere di Siviglia, battezzato, col nome di Almaviva o sia l’inutile precauzione, proprio nella Città Eterna, al Teatro Argentina, centonovantotto anni or sono. Un dittico speculare, che racconta due modi d’intendere l’amore, quello costituito da Barbiere e Bohème, che si alternano per circa due settimane nel suggestivo scenario.

ROMA, 30 luglio 2014 – Più fortunata della sua ‘collega’ Bohème in questi giorni di turbolenze politiche e non solo, Il barbiere di Siviglia è uno di quei titoli di sicuro effetto e impatto sul pubblico, un evergreen che è riuscito a superare, seppur manomesso, persino il secolo del medioevo rossiniano. Infatti, proprio con il lavorio filologico su quest’opera s’aprì l’era della Rossini Renaissance: frutto ne è l’edizione critica di Alberto Zedda (Ricordi), oramai datata 1969.

Proprio quest’edizione ha tra le mani il direttore, Stefano Montanari: apporta alcuni tagli – peraltro supportati dalla tradizione interpretativa corrente –, ma c’è quasi tutto. Spirito rock, con una vena dark, agli applausi finali (che sono arrivati spontanei e divertiti) si presenta sul parco tutto in nero, con stivaloni e una blusa nera aperta, a voler marcare il suo animo anticonformista. Anticonformista sì, ma nell’abbigliamento e non in altro: lo si vede, infatti, sedere al clavicembalo, secondo la più antica tradizione – e a dispetto dell’uso moderno, che, in ottemperanza alla rigida divisione dei ruoli, vede un clavicembalista a parte −, e accompagnare lui stesso i cantanti durante i recitativi secchi, come fece Rossini durante le prime recite del 1816. E che senso della pagina rossiniana: sconfina quasi nel geniale nelle diverse soluzioni che adotta di volta in volta. La partitura non è mai sforzata né svilita, né tantomeno letta con sufficienza – il maggior pericolo per il Rossini comico: alla conduzione piana, regolare, di base, con un volume orchestrale ridotto, ma preciso (restituendo un suono autenticamente storico), frizza e sbrilluccica dove la partitura lo richiede. Sa concertare le voci con grandissima, raffinata intelligenza, permettendo ai cantanti tempi umani nelle irte variazioni delle arie e degli assiemi – cosa non è scontata: si pensi al caso di Pollini con La donna del lago al Rossini Opera Festival del 1981 e ‘83. Un ottimo gusto, affinato da una certa qual frequentazione del repertorio e degli autori limitrofi, gli consentono di interpretare al meglio il tutto, fornendo una compattezza musicale inusuale per la maggior parte degli interpreti, anche non saltuari, di Rossini.

Un’opera rossiniana non potrebbe reggersi senza buone voci, versate nel repertorio: per fortuna, quelle scritturate per questa edizione non deludono, con le dovute distinzioni, ovviamente. Il Conte d’Almaviva di René Barbera è di razza: una bellissima voce, tersa, chiara, squillante, dal chiaro pedigree rossiniano, gli consentono di eseguire agevolmente le sue arie, la cavatina «Ecco, ridente in cielo» (dove Montanari gli permette di interpolare il do sovracuto finale, sulla scia d’una inveterata, ma deteriore, consuetudine) e la romanza «Se il mio nome saper voi bramate». (Non esegue – ed è un vero peccato – l’aria «Cessa di più resistere», collocata poco prima del finale II: è vero che tradizionalmente venne tagliata, anche col consenso di Rossini, ma Barbera sembrava francamente in voce e in grado di poterla agevolmente eseguire). Grazioso il duetto del I atto con Figaro «All’idea di quel metallo» e il terzetto del II «Ah! Qual colpo inaspettato!». Veramente deliziosa la Rosina di Annalisa Stroppa: una voce calda, morbida, vibrante e leggermente ombrata, sorretta da una tecnica sopraffina (s’è sentito di tutto: fioriture di ogni genere, passaggi, salti, portamenti, messe di voce, smorzando), ci fanno godere un’ottima Rosina, mai volgare né strabordante, con un fraseggio sempre controllato e comico, come si deve in Rossini. Nella sua cavatina («Una voce poco fa») manda in delirio il pubblico, soprattutto dopo la cabaletta strappa-applausi; scanzonato il duetto con Figaro, «Dunque io son… tu non m’inganni?»; salda e ottima attrice nell’aria della lezione (II), «Contro un cor che accende amore». Vito Priante, che trova nel Barocco il suo giardino prediletto, canta il più famoso barbiere di tutti i tempi, Figaro. Fin dalla sua stracelebre cavatina, «Largo al factotum», emergono chiare le sue caratteristiche: voce duttile, timbro baritonale che trova le più gradevoli soluzioni nella tessitura medio-alta, ma passaggi di fioriture poco sgranati e una verve più interpretativa che vocale; se la sua prima aria risulta un po’ sottotono, si riprende nel resto della performance, procedendo in una climax interpretativa ascendente (trova le migliori soluzioni, a mio avviso, nei pezzi d’assieme). Omar Montanari canta Don Bartolo: personaggio spesso bistrattato, affidato a interpreti che vi sovrappongono lazzi vocali da comicità cabarettistica, viene qui invece depurato da incrostazioni e restituito addirittura, forse, troppo lindo. Come che sia, vocalmente ci siamo: il basso buffo Montanari lo sa interpretare bene, mercé anche il suo training nell’opera comica settecentesca, riuscendo particolarmente bene nella singolare aria «A un dottor della mia sorte», con il tour de force della seconda sezione di semicrome in allegro vivace. Buono il Don Basilio di Mikhail Korobeinikov (ero in teatro quando, nel 2012, fece il suo debutto europeo proprio in questo ruolo al Costanzi): voce profonda, che ha un suo colore opaco e squillante, fa molto bene nella sua aria, «La calunnia è un venticello». Eccellenti i due comprimari. Gianluca Margheri è un Fiorello di lusso: una voce morbida, voluminosa, ben vibrata, gli consentono di ambire a ruoli di ben altro peso. Stupisce la sua abilità di attore: è praticamente sempre in scena e fa di tutto! Egualmente talentuosa, Eleonora de la Peña si distingue pure per buone attitudini vocali, ricevendo sonori applausi nell’aria di Berta («Il vecchiotto cerca moglie»). Buono il coro, per quel poco che canta (Roberto Gabbiani).

Le scene (William Orlandi) e la regia (Lorenzo Mariani e Luciano Cannito) sono quanto di più singolare mi sia mai capitato di vedere a teatro. Il trend in voga è quello di rappresentare Il barbiere di Siviglia come fosse la tana del Bianconiglio: questa nuova edizione non fa eccezione, ma con alcuni tocchi che spaziano dal surrealismo al trash. I personaggi sono caratterizzati in maniera surreale, pirandelliana. Si cambiano spesso d’abito e assumono diverse ulteriori identità: il caso della Rosina-canarino (geniale!) è un esempio calzante. Le scene sono poverissime: una scritta che spesso s’illumina, “HOLLYWOOD”, fa da fondale al palco, dove si avvicendano nei diversi sketch insegne giganti da barbiere, sedie da barbiere classiche all’americana, una grossa gabbia, un gigantesco pianoforte e molte scale multicolore – va da sé che molto del materiale scenografico è trito e ritrito, ma per fortuna non usato banalmente. Si capisce che s’è in una sorta di set cinematografico o addirittura proprio in un film – del resto le continue citazioni o suggestioni filmografiche sono evidenti, una su tutte quella della celebre scena del pluripremiato I’m singing in the rain (1952) in cui Kelly canta sotto la pioggia, ripresa durante il temporale del II atto. Quindi, sono la recitazione dei cantanti e l’abilità del regista di muovere la macchina teatrale gli elementi che sorreggono la produzione. E se, ovviamente, non tutto è di qualità, alcune scene sono indimenticabili: l’aria di sortita di Rosina, in cui la ragazza è un canarino cullantesi in gabbia, una delle rappresentazioni più icastiche del supplizio cui la peperina è costretta dal suo tutore; la scena dell’aria di Don Bartolo, in cui entrano dei figuranti in costume da bagno e si dà inizio a quello che sembra un party a bordo piscina misto a una lezione di nuoto; o la fantasiosa resa dell’aria di Berta, in cui quella che dovrebbe essere una serva vecchia e rancida si trasforma in una soubrette da bourlesque, con tanto di spogliarello e piume di pavone; o il finale in cui Almaviva e Rosina sono sollevati su una gigantesca torta nuziale con tanto di coriandoli dorati sparsi per gli spalti e un happy ending anche per Don Bartolo, che si piglia una Berta svecchiata. Suggestioni sono tratte anche dai cartoons: si pensi ai poliziotti – che molto devono anche a Charlie Chaplin – del coro. Insomma un cocktail dell’assurdo, che rimescola figure e personaggi famosi (Almaviva, per esempio, ha molto, specialmente nella prima scena, di Frank Sinatra, con uno smoking strassato). I costumi (Silvia Aymonino) sono di buona fattura: interessanti sono le sue tavole sul programma di sala che mostrano proprio l’intento di collage che c’è dietro alla ricerca e alla realizzazione dello spettacolo. Singolare è la rappresentazione dell’ouverture, che presenta una sorta di toga-party, finito con l’arrivo della polizia, che ci potrebbe aprire uno spiraglio esegetico: tutta l’opera è un nonsense generato proprio da diversi spettacoli che si sovrappongono in un set. I figurati, acrobati e ballerini, sono tutti bravissimi.

Il barbiere di Siviglia è una di quelle opereche non ci si stanca mai di ascoltare, vedere, godere. Il tutto mi pare mirabilmente espresso da queste parole di Ildebrando Pizzetti, dal sapore epigrammatico: il Barbiere «è tutto un fluire facile e felice di musica chiara, limpida e pura che ci sembra sgorghi dalla fonte della divina gioia proprio in quel momento che noi l’udiamo».