L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tosca e l'alba messicana

Ricardo Marcos G.

Prosegue con una Tosca di successo la stagione lirica del Teatro del Bicentenario a Leon (Messico), conferma della continua crescita quantitativa e qualitativa delle proposte musicali di teatri emergenti che ormai contendono il primato alla capitale.

LEON, 10-16 agosto 2014 - Senza dubbio, quando si parla d'opera nel mondo, si è abituati a pensare subito ai maggiori centri e alle capitali. In particolare in Messico si tende a identificarla con la Compañía Nacional de Ópera de Ciudad de México, sottovalutando la storia lirica di città come Guadalajara, Monterrey, Guanajuato, Culiacán, Tijuana, Mérida, Xalapa, per dirne solo alcune.

Progetti impegnativi come quello del Teatro del Bicentenario di León, Guanajuato, non solo contribuiscono a sviluppare la varietà di proposte e il decentramento artistico in Messico ma fanno anche sì che gli occhi degli appassionati non sia rivolti unicamente alla capitale. La stasi di quest'ultima è sicuramente una causa, ma lo è ancor più il lavoro convincente, in alcuni casi di livello anche più elevato, delle realtà locali.

León ha dato una gran lezione a diverse città messicane con un passato operistico più blasonato e ha scommesso sul Teatro Bicentenario, nuovissima struttura capace di ospitare circa millecinquecento spettatori, con platea, palchi e balconate e un'acustica che permette di udire l'orchestra con un nitore e un riverbero che si avvicinano molto all'ideale.

È difficile dire qualcosa di nuovo a proposito di un consolidato cavallo di battaglia come la Tosca di Puccini. Forse non è tanto importante perdersi in elucubrazioni quanto invece presentarla con rigore, in forma drammaticamente plausible e facendo onore a questa musica che non cessa di sedurre.

Il debutto di Tosca, lo scorso 10 agosto, è stata una serata di grande omogeneità artistica. Non si può chiedere di più in un'attualità in cui le Callas e le Price, i Di Stefano e i Bergonzi, i Taddei e i Gobbi, sono storia.

La produzione, con scene di Philippe Amand, ha presentato l'opera in una felice trasposizione nell'Italia nel XX secolo, durante il Fascismo. La musica si presta perfettamente a questa ambientazione, molto più pertinente, a mio giudizio, di quella napoleonica originale.

Amand ha utilizzato grandi colonne distribuite in modo diverso così da suggerire diverse prospettive, a partire dall'interno di una cattedrale nel primo atto, sottolineando così il lavoro dei cantanti senza soffocarli con una vacua opulenza. La piattaforma dove Cavaradossi canta “Recondita armonia” è un'idea classica ma sempre funzionale. Non mi ha convinto del tutto la sproporzione fra questa, troppo grande, e le colonne della chiesa. Forse il "Te Deum" non è stato il più maestoso che si potesse immaginare, ma sortisce il suo effetto permettendo a Scarpia di rimanere al centro della scena mente la processione si sviluppa alle sue spalle, così da giustapporre al contesto sacro la libidine blasfema del capo della polizia.

Nel secondo atto le colonne formano lo studio di Scarpia. Per una volta la sua tavola ha dimostrato la fredda grandezza che si addice allo spietato personaggio; toni di marmo verde.

Infine il terzo atto ci presenta la cella di Cavaradossi e la terrazza di Castel Sant'Angelo in un quadro di grande effetto tragico compiuto dall'esecuzione del pittore.

Le luci di Víctor Zapatero hanno dato un fondamentale contributo all'atmosfera complessiva. Nei costumi di Carlo Demichelis prevalevano i colori cupi delle camicie nere (e del Sagrestano) in contrasto con lo stile sfavillante di Tosca, diva sempre elegante. Si sarebbe giusto potuto mostrare più chiaramente i segni della brutale tortura subita da Cavaradossi nel secondo atto.

La regia di Enrique Singer è parsa naturale e ha costruito con gli interpreti un'azione concreta e favorevole al canto. La morte di Scarpia è semplice ma d'effetto, molto più plausibile che in altre occasioni. Buona anche l'idea di costringere Cavaradossi nella sua cella senza lasciarlo vagare sulla terrazza. Il pastorello diviene una soldatessa che serve il rancio ai soldati: così la sua scena resta un momento di riposo drammatico senza perdere di vista il contesto.

Sono convinto che Scarpia appaia assai più pericoloso se è un malvagio costruito sulle sfumature così come lo hanno inteso Singer e Rubén Amoretti. Ugualmente molti dettagli chi fanno intendere che Cavaradossi sa in fondo che non potrà aver salva la vita, con un sentimento molto ben espresso da Andeka Gorrotxategi nel terzo atto.

Violeta Davalos ha cantato una Tosca vocalmente assai solida e di gran partecipazione scenica. Ha colto bene la leggerezza (e una certa ingenuità) della diva, il suo “Vissi d’arte” era misurato e ben fraseggiato, meritando un'ovazione. Ancor più degni di memoria i confronti con Scarpia e soprattutto il duetto del terzo atto con il tenore, nel quale ha esibito una vivida espressività ben intonata al timbro splendente del suo partner. In somma, una ben meditata ed efficace interpretazione di Tosca, con solo un paio di appunti: in alcuni momenti un'emissione non proprio fermissima e un certo retrogusto metallico negli acuti.

Una delle sorprese più gradite è venuta dal Cavaradossi di Andeka Gorrotxategi. Il tenore basco possiede una voce privilegiata per franchezza d'emissione, colore lirico di una certa morbidezza e acuti emozionanti. Il suo Cavaradossi ha forse patito un po' solo l'inesperienza della gioventù rispetto a Tosca, e certo in pochi anni saprà rendere un personaggio un più compiuto drammaticamente. Il suo "Vittoria" sebbene reso con l'impeto richiesto, dovrebbe essere recitato anche con maggior convinzione e magniloquenza (dopotutto questo momento causa definitivamente la sua condanna a morte). “E lucevan le stelle” è stato veramente un addio alla vita e non solo un exploit spettacolare. In diversi momenti ha comunque messo in evidenza un fraseggio molto più maturo di quanto ci si sarebbe potuti aspettare in questo contesto.

Rubén Amoretti, basso baritono spagnolo, ha dispiegato una voce scura, dal timbro incisivo e una presenza scenica ideale per Scarpia:  alto e debitamente altero. Non gli è stato necessario gridare, puntando soprattutto sulla tornitura di alcune frasi liriche come nel breve monologo che apre il secondo atto. La sua morte è stata gelida e dignitosa. Come capita abbastanza comunemente, l'orchestra talora tendeva a coprirlo un poco nel "Te Deum".

Charles Oppenheim è stato un Sagrestano divertito senza giungere alla caricatura, possiede una piacevole voce di basso ed è preciso nelle intenzioni e nel ritmo. Caratterizzando il personaggio anche con una peculiare andatura, lo ha reso più che vigliacco, ingenuo di fronte agli eventi che lo circondano.

Enrique Ángeles incarnava un Angelotti ideale: lirico, musicalissimo, per quel che il piccolo ruolo permette d'intendere, e recitato con autorità. Orlando Pineda, Jehú Sánchez, Jonathan Martínez e Carolina Torres hanno soddisfatto nei loro brevi ruoli, soprattutto Pineda, con una caratterizzazione degna di un film gotico.

Il Coro del Teatro del Bicentenario, diretto da José Antonio Espinal ha convinto, senza tuttavia un corpo sonoro del tutto omogeneo, come è parso evidente in alcuni momenti del "Te Deum".

Il direttore italiano Marco Boemi, a capo dell'orchestra del Teatro del Bicentenario (formata da musicisti provenienti da diversi altri ensemble del Paese) ha realizzato un lavoro ammirevole. La sua lettura si è dispiegata in grandi affreschi sonori, come quello del "Te Deum".  Ha accompagnato i cantanti con somma attenzione, ma anche con un'idea ben definita dello sviluppo drammatico della partitura. Non è mancato il lirismo dei momenti chiave, in particolare nella suggestione di "Vissi d'arte" e in un'eccezionale morte di Scarpia piena di cupe sfumature.


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