Puccini è altrove

 di Roberta Pedrotti

Alberto Cantù

L'universo di Puccini da Le villi a Turandot

introduzione di Daniele Gatti

nuova edizione

IV-252 pagine

ISBN 978-88-6540-157-6

Zecchini editore, 2016

Ha ragione Daniele Gatti quando, nella sua introduzione, mette in relazione la popolarità straordinaria di Puccini presso il pubblico con le sue alterne vicende critiche e la complessità di una valutazione estetica della sua opera. Tanto più, è inevitabile aggiungere, che praticamente ogni partitura del Lucchese si presenta come un work in progress, rivisto e rielaborato a più riprese da un autore che difficilmente dopo il debutto abbandonava la sua creatura, pago del risultato. Al di là di tante elucubrazioni – proposte anche in questo volume – anche lo stato di incompiuta di Turandot potrebbe realisticamente essere imputato soprattutto alla malattia e alla morte di Puccini coincidenti con il suo abituale modus creandi, reso sempre più laborioso con l'avanzare della carriera.

Date queste premesse e queste aspettative, la ristampa del volume di Alberto Cantù, rinnovato riveduto e riscritto rispetto alla prima versione del 2008, non convince del tutto e lascia adito a più d'una delusione.

Quel che più si apprezza è ritrovare, nell'appendice “Il caso” La rondine, la firma del compianto Alfredo Mandelli, con la sua competenza animata da una passione vivida e profonda per l'opera pucciniana (e in particolare per la sua poco fortunata commedia lirica), con la sua prosa inconfondibile, di sapida tradizione meneghina.

Per quanto concerne il corpo principale del volume, lo studio di Cantù, si sarebbe apprezzato un andamento più omogeneo, un'organizzazione più chiara – anche a costo d'apparir schematica – dei contenuti, essendo l'approfondimento di ogni titolo strutturato e orientato in modo autonomo. Vi sono casi in cui l'analisi musicale procede minuziosa scena per scena, altri in cui si predilige una prospettiva a volo d'uccello; talora si elencano tutte le varianti delle diverse versioni, talaltra si accenna ad alcuni elementi salienti focalizzando l'attenzione su altri aspetti. Un tratto rapsodico è legittimo, certo, ma, in una panoramica come questa sull'intera produzione teatrale di un autore, sicuramente un maggior rigore formale si sarebbe fatto preferire, anche perché, ad esempio, i capitoli sulle Villi e su Edgar, così accuratamente analitici, finiscono per perdere un po' di vista la chiarezza dell'esposizione delle fasi creative e delle versioni licenziate, risultando un tantino ridondanti e ripetitivi. L'impressione, in ogni caso, resta quella di una raccolta d'articoli sciolti più che di un libro pensato organicamente.

A proclamare l'occasione perduta stanno poi alcune distrazioni formali, come nel trattamento dei titoli troppo spesso orbati tout court del loro legittimo articolo, con effetto tutt'affatto colloquiale: non prendendo univoco partito, per esempio, fra “de La bohème”, “di La bohème” o “della Bohème” giunge troppo spesso a scrivere “di Bohème”, o “di Fanciulla”, opzione ben poco letteraria e saggistica. Anche alcune considerazioni di – discutibilissima – psicologia spicciola lasciano decisamente il tempo che trovano, quando non fanno decisamente rabbrividire come quella su “Giacomo, cresciuto in una di quelle famiglie prepotentemente al femminile – orfano di padre a cinque anni, sei sorelle, un fratello soltanto – dove una plausibile conseguenza è il dongiovannismo o l'omosessualità”.

Qualche pasticcetto si nota anche nelle citazioni dalla Turandot di Gozzi, dove Cantù attribuisce, per esempio, al detronizzato Timur disposizioni ovviamente pronunciate dall'imperatore Altoum. Sempre riferito al povero padre di Calaf, questa volta in Puccini, si legge a pagina 222 un passo piuttosto sconcertante, specie per un testo di questo tipo: “Da notare come Timur, insieme al Colline della Bohème ma con più forte sugestione, sia l'unico importante contributo del baritono al teatro di Puccini. Baritono è anche Ping [...]” Se non fosse per l'immediato riferimento all'effettiva vocalità del ministro cinese si potrebbe pensare a un brutto refuso, ma così come è posto il paragrafo porta a ritenere che veramente l'autore intenda i due bassi puri Timur e Colline come baritoni e per di più che escluda un “importante contributo al teatro di Puccini” da parte di personaggi come Scarpia, Michele, Schicchi, Jack Rance, Marcello o Sharpless. Insomma, righe che non ci si aspetterebbe uscire dalla penna di un musicologo (ma nemmeno di un appassionato con un minimo di competenza), né passare indenni dal controllo di un revisore di bozze e di un editore.

Per il resto, troviamo alcune considerazioni comunque stimolanti alla riflessioni, quand'anche non sempre condivise, e affermazioni un po' più difficili da apprezzare, come la definizione ribadita di “Bimba dagl'occhi pieni di malìa” come “primo duetto d'amore” pucciniano, sia perché di vero amore non si tratta, ma di pura ingannevole concupiscenza da un lato e d'ingenuità trasognata dall'altro, sia perché le argomentazioni formali di Cantù sulla struttura che per la prima volta non sarebbe quella di “un arioso del tenore e uno del soprano dove i personaggi si presentano” non arrivano a persuaderci a escludere del tutto i duetti fra Roberto e Anna o Edgar e Fidelia, per non parlare di “Vedete io son fedele”, “Tu, tu, amore? Tu?”, “Oh soave fanciulla”, “Mario! - Son qui!”, “Franchigia a Floria Tosca”...

Anche il parallelismo fra “In questa reggia” di Turandot e la “solita forma” ottocentesca dell'aria di sortita non convince, e proprio per un'argomentazione debole nella terminologia quando si parla della “vecchia maniera della 'grande scena': recitativo e aria in due parti”. La Gran scena, val la pena ribadirlo, difficilmente presenta un personaggio e consta non di recitativo e aria bipartita, bensì di scena (ovvero coro e/o preludio con recitativo accompagnato) – cavatina (in senso settecentesco di cantabile monopartito) – tempo di mezzo – rondò: non proprio assimilabile al secondo quadro del secondo atto dell'ultima opera pucciniana. Né parlare di “recitativo arioso” per quel che precede “O principi, che a lunghe carovane” riesce a non apparire una forzatura poco persuasiva.

Insomma, si era aperto il volume con grandi aspettative, auspicando un'aggiornata rassegna, non necessariamente rivelatrice e troppo dettagliata sotto il profilo musicologico, su genesi, versioni, incidenza critica del teatro pucciniano; lo si chiude con un pizzico di delusione, con il desiderio di cercare altrove approfondimenti e dibattito sull'inesauribile universo pucciniano. Peccato.