L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vagheggiando il soglio inglese

di Roberta Pedrotti

G. Donizetti

Tudor Queens

scene finali da Anna Bolena, Maria Stuarda e Roberto Devereux

soprano Diana Damrau

mezzosoprani Irida Dragoti e Sara Rocchi, tenori Domenico Pellicola e Saverio Fiore, baritono Andrii Ganchuk, basso Fabrizio Beggi

orchestra e coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia

maestro del coro Ciro Visco

maestro concertatore e direttore Antonio Pappano

registrazione effettuata a Roma nel luglio 2019

CD Erato Warner Classics 0190295280932, 2020

Il fatto che illustri belcantiste ne abbiano fatto il coronamento della carriera e il cavallo di battaglia estremo non significa certo che le regine della trilogia Tudor di Donizetti siano lo sbocco – se non addirittura il rifugio – dei soprani al tramonto. Vuol dire, semmai, che esigono una piena maturità artistica, che esigono personalità e dominio assoluto dei propri mezzi. Diana Damrau, peraltro, non è certo un soprano a fine carriera, ma ha pur sempre venticinque anni di attività alle spalle e si trova nel momento in cui Lucia e Gilda, Astrifiammante e Zerbinetta vanno in archivio per guardare altrove. Damrau sceglie, con questo CD, di guardare alle tre regine, dopo aver finora vestito i panni di una soltanto – Maria Stuarda – sulle scene. Che sia la scelta giusta, c'è, però, da dubitare, per il semplice fatto che il cimento nei tre finali, tre grandi scene che costituiscono quasi delle opere in miniature, desta inevitabili aspettative qui insoddisfatte. Diana Damrau non ci dice nulla che non sapevamo: è una professionista solidissima, un'ottima musicista, tecnicamente ferrata, una cantante intelligente. Detto questo, restano i limiti, i difetti, che le tre pagine mettono spietatamente in luce.

Dal punto di vista strettamente vocale, non si può dire che Damrau non sappia cantare, ma è altrettanto vero che in un soprano di coloratura del suo livello certi indurimenti d'emissione pesano, come pesa sentire i trilli ben eseguiti ma anche faticosi, appesantiti nell'attacco giustamente largo che però rischia di aprirsi e perder grazia. Pesano assai le puntature acute che in un disco, e a maggior ragione nel disco di un'ex grande Regina della Notte, non si vorrebbero ascoltare così fortunose. Insomma, quelle che un tempo erano fra le armi migliori di Diana Damrau le si ritorcono contro invece di essere impugnate verso la vittoria o venir riposte sfoderandone altre.

Altre armi avrebbero potuto essere trovate in una chiave interpretativa personale, in una qualche suggestione inedita modellata nel proprio temperamento e nei propri mezzi. Bisogna anche qui ammettere che ci troviamo di fronte a una professionista seria: potrà fare il passo più lungo della gamba, misurarsi con pagine a lei non congeniali, non essere al massimo della forma, ma senz'altro si è preparata con grandissima cura. Perfino troppa. Il recitativo di Anna Bolena, per esempio, è bello, nel senso che è curatissimo, ricco di dettagli e sfumature, ma al punto da sembrare artificioso e quindi freddo. Manca il passaggio fondamentale dallo studio alla naturalezza. Non sembra mai di avere  di fronte Anna, Maria, Elisabetta, ma la diligente, scrupolosissima Diana che analizza e declama i tormenti di Anna, Maria, Elisabetta. Non si avverte  ìil maturare dell'analisi in una sintesi.

Piuttosto, si ha l'impressione che l'approccio ai tre finali, per quanto scrupoloso, venga senza aver acquisito un'adeguata familiarità con la retorica delle potenti eroine belcantistiche. Basta scorrere il repertorio e la carriera di Diana Damrau per rendersi conto che del primo Ottocento italiano ha frequentato o pepate primedonne buffe o fanciulle afflitte da travagli sentimentali e tragici destini. Né sovrane, né sacerdotesse d'Irminsul, né duchesse di Ferrara o contesse di Tenda, insomma, a forgiare l'espressione delle sue regine di fronte al patibolo cui si avviano o hanno appena spedito un amante fedifrago. Ha frequentato solo Maria Stuarda, che difatti si presta a essere più facilmente assimilabile al modello della vittima virtuosa: non la vediamo mai esercitare il potere, è sempre prigioniera, vilipesa, e compensa una reazione d'orgoglio con la santificazione del pentimento e del perdono dovuti, nell'ottica cattolica, alla martire papista condannata da una rivale protestante. Ma Maria Stuarda è, anche per questa esaltazione etico-politico-religiosa, ben più di un'innocente perseguitata: è l'incarnazione stessa di un'idea sublime di regalità che sconta l'errore privato e ribalta l'anatema vendicativo di Roberto in sacrificio perfetto (“il mio sangue innocente versato plachi l'ira del cielo oltraggiato, non richiami sull'Anglia spergiura il flagello di un dio punitor”). Ancor più, per proporzioni (la sua scena finale è la più lunga e articolata) e forme, Anna Bolena guarda all'immensità tragica dei modelli classici. Regina offesa, combattiva, orgogliosa e infine ridotta a vaneggiare prima di elevarsi anche lei in un perdono fiammeggiante: sì, l'etica vuole che l'innocente condannata ascenda al cielo senza macchia e quindi non imprechi “l'estrema vendetta”, ma vada al sepolcro “col perdono sul labbro”, ma la musica potrebbe anche sottintendere il contrario. Viceversa si concentra all'osso, circa nella metà della durata rispetto al finale della Bolena, quello del Roberto Devereux, epilogo di una drammaturgia musicale serratissima, quasi precipitosa, all'opposto delle ampie forme della prima opera “Tudor” di Donizetti (Castello di Kenilworth escluso). Qui la regina non è condannata, ha condannato, qui non approda a un celeste perdono dopo aver vaneggiato come Anna ed essersi pentita come Maria, ma nel rimorso vaneggia senza redenzione, senza sublimazione regale: anzi, inveisce contro Nottingham e Sara, rinnega il trono stesso (“Dov'era il mio trono s'innalza una tomba […] Non regno... non vivo... […] Dell'anglica terra sia Giacomo il re”).

Per padroneggiare questa materia bisogna padroneggiare il linguaggio delle grandi eroine del primo Ottocento o quantomeno bisogna aver forza tale per trascenderlo, non bisogna dimostrare di aver studiato ma metabolizzare lo studio al punto da farlo dimenticare. Qui non riesce Diana Damrau e dispiace che allora, di una cantante del suo valore, resti un cimento risolto solo con professionalità, restino affaticamenti che non fanno onore alla sua caratura di artista.

Peraltro, tutto il CD è realizzato con le migliori cure: ottimi i comprimari che fan da corona alla protagonista, giovani e quasi tutti provenienti dalla Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell'Opera di Roma; l'orchestra e il coro di Santa Cecilia sono una meraviglia di perizia, musicalità ed eloquenza. E poi c'è Antonio Pappano, che sfodera sempre un fraseggio elegante e dinamico, il giusto respiro drammatico, un accompagnamento che respira con il canto, anche se quel canto non vibra ispirato e trascendentale come si vorrebbe.  Una confezione luciccante, ma all'interno nulla di speciale, anzi: un po' di delusione.

Bene, certo, ben fatto, anzi: benissimo. Però, alla fine, non rimane granché, concluso l'ascolto. Un compito arduo e affascinante risolto da uno studente molto preparato e diligente ma portato forse più per altre materie e quindi, nonostante professori e compagni di classe diano spunti brillanti, piuttosto ordinario, non privo di qualche sbavatura.


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