Arrestati, sei bello

di Roberta Pedrotti

Vincenzo Bellini
I puritani

Lord Gualtiero Valton Graziano Del Vivo
Sir Giorgio Agostino Ferrin
Lord Arturo Talbo Nicolai Gedda
Sir Riccardo Forth Sesto Bruscantini
Sir Bruno Roberton Valiano Natali
Enrichetta di Francia Flora Rafanelli
Elvira Cristina Deutekom

Riccardo Muti
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Maestro del Coro Adolfo Fanfani

Firenze, Teatro Comunale, 1 dicembre 1970

2 CD, OF 021 2 CD MONO ADD

Cinquant'anni (anzi, quarantanove e qualche mese) ci separano da questi Puritani. Molti, pochi? La tecnologia - il riversamento è molto ben fatto, ma un live del 1970 ha certamente dei limiti e qualche inciampo per i parametri attuali - può tradire il trascorrere del tempo, ma lo annulla anche, conservando l'attimo fuggente di una serata per permetterci di ascoltarlo in eterno. Ma proclamare allora "Arrestati, sei bello!" a quello stesso istante può essere assai pericoloso: suggello di dannazione, forse, o forse porta del paradiso. Dipende dall'intenzione: Mefistofele sa quanto possa essere pericoloso perdersi nell'estasi di un momento cancellando il divenire della storia, ma Faust l'ha vinta perché la sua intenzione è un divenire costruttivo, la pulsione verso un'utopia. 

Catapultandoci, allora, nella Firenze di cinquant'anni fa, osserviamo l'attimo fuggente per capire perché, oggi, ci paia più o meno bello, e cosa abbia dunque a costruire per noi e per il domani.

Senz'altro il ventinovenne Muti, traboccante di energia, può sembrare a tratti fin troppo irruente, proteso al modello toscaniniano nel non concedere indulgenze nello stacco dei tempi, che dipende sempre dal suo concetto e mai dall'agio dell'espansione vocale. Però, proviamo a pensare all'effetto che doveva sortire una visione come questa, che non protende Bellini verso un tardo romanticismo come magari capitava ancora di sentire - seppure, ormai, non più di tanto - in qualche Norma veristeggiante, ma nemmeno si alleggerisce supina in ossequio all'esibizione virtuosistica dei cantanti. Insomma, ci dice che l'era del Belcanto come piacevole decorazione è conclusa per fare spazio a una consapevolezza della sua verità drammatica, del suo proprio linguaggio, in cui l'orchestra non è servile accompagnamento ma parte integrante del discorso drammatico. Infatti, se si presta attenzione fra le righe dell'esuberanza del primo Muti, si noterà già la cura del dettaglio, la volontà ben precisa impressa al fraseggio in maniera non certo superficiale. Una fase importante nella storia dell'interpretazione, contestualizzata e sicuramente per molti versi superata (se non altro perché nel frattempo è arrivata anche un'edizione critica che dà all'opera tutt'altro respiro), ma per altri foriera di stimoli sempre attuali.

E tributato tanto di cappello al Sir Giorgio di Agostino Ferrin, è inutile negare che il terzetto principale espanda un'aura mitica sull'ascoltatore del XXI secolo. Eppure, cinquant'anni fa, il successo non era così scontato, vuoi perché Sesto Bruscantini era associato per lo più al repertorio buffo (poco importa che avesse già interpretato uno dei più rilevanti Rigoletto che la storia ricordi o che il suo futuro non troppo lontano riservasse anche un fenomenale Simon Boccanegra per la BBC), vuoi perché si diffidava di Cristina Deutekom nel repertorio italiano, mentre Nicolai Gedda, forse il più accreditato al momento per la sua parte, inciampò leggermente nell'aria di sortita. Eppure, per il tenore svedese irrompe in un momento in cui, se non mancano validissimi artisti nella sua corda, l'eroe romantico belcantista resta ancora una spina nel fianco, con impavidi Manrico e Cavaradossi costretti a venire a patti e arrancare con Arnold e Arturo. Gedda no, lui canta con l'argentea nobiltà che questo repertorio esige, assolve alle esigenze della tessitura  con souplesse, virile baldanza e senso dello stile, senza far scalpitare fuori luogo fumi di pire quando non scintillii di vini siciliani, giubbe e biacche di attori girovaghi. Non arriva il Fa sovracuto, che Gedda comunque aveva, sebbene resti preservata l'acmé della progressione disperata dell'eroe; soprattutto, però, si misura il suo Arturo nello slancio della sfida a Riccardo nel primo atto, nell'abbandono accorato di "Alla fonte afflitto e solo" nel terzo. 

Deutekom si fa senz'altro notare per il trillo perfetto e per le tipiche note staccate, ma la sua Elvira colpisce e interessa per la capacità di coniugare nel timbro e nell'accento l'argentina chiarezza della fanciulla, la nevrosi e il dolore della donna ferita. Quella voce ampia e penetrante che in teatro le ha permesso di arrivare ad Abigaille e Turandot, anche in registrazione mostra quello smalto, quel metallo particolare che conferisce mordente e verità all'espressione pur tanto esatta musicalmente e stilizzata nel belcanto della malinconia, della tenerezza, della follia. Un altro passo nella rinascita, già intrapresa, di un'estetica in cui anche l'eroina più fragile e liliale non sarà mai una pupattola intenta solo a fiorire ghirigori sovracuti.

Quando, poi, si ascolta Sesto Bruscantini, si ha la sensazione che la perfezione possa essere di questo mondo, quando un canto sembra la materializzazione stessa dell'intelligenza, per di più con uno strumento di fascinosa nobiltà, sostenuto da una tecnica che permette al timbro e all'accento di diventare cosa sola con disarmante naturalezza.

In assenza di edizioni critiche, quando la cabaletta "Ah, sento o mio bell'angelo" (in versione solistica) era ancora un'aggiunta da primedonne in odor di sfoggio divistico, Muti gestisce anche al meglio l'insidioso e sbrigativo finale di tradizione: tal dei tempi era il costume, ma gli artisti sanno distinguersi con attimi fuggenti che possono arrestarsi per indicarci una strada proficua e beata, non solo una stasi dannata.