L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Entusiasmo a Reims

 di Gina Guandalini

Damiano Michieletto regala un modello esemplare di teatro di regia intelligente che trova terreno ideale nella cantata scenica rossiniana. Valorizza così appieno anche un cast di perfetti cantanti attori, che lo asseconda con esiti teatrali e musicali spesso rilevanti.

AMSTERDAM, 3 febbraio 2015 - Bisogna confessarlo, ad allontanare dall’opera lirica chi la frequentava da molte, da troppe stagioni è stato anche il dilagare dell’importanza del regista, la cui principale preoccupazione sembra essere quasi sempre quella di salvare lo spettatore dalla noia profonda, dallo strazio inenarrabile del canto. “Oddio, ora canta!” è il grido d’angoscia che immaginiamo emesso dal dittatore scenico di turno al primo incontro con il titolo di cui gli è stata affidata la regia; “adesso devo assolutamente inventarmi qualcosa in ogni istante”. È la mentalità che ha portato l’opera lirica allo sfacelo. Poteva essere così anche nel caso del Viaggio a Reims di Rossini, offerto alla Nederlandse Opera di Amsterdam in questi giorni; ma, prima di tutto, componendo una cantata celebrativa, l’autore ha lasciato uno spazio teatrale vuoto; poi la vivace cultura, lo spirito brillante e l’umorismo scoppiettante di Damiano Michieletto hanno trovato, in questo Hellzapoppin’ ante litteram che è Il viaggio a Reims, un terreno non solo favorevole, ma ideale. Il pubblico olandese, tradizionalmente estraneo al belcanto, ha reagito con entusiasmo a questa messa in scena.

Mentre i cantanti svolgevano il loro compito – spesso piuttosto bene – li accompagnavano controscene di divertente assurdità. La locanda del Giglio d’Oro a Plombières non c’è, siamo nella galleria d’arte Golden Lily, di cui Madama Cortese è dittatoriale e snobbish curatrice. Vanno e vengono opere celeberrime da Velasquez a Keith Haring; ora sono reali, ora sono impersonate da comparse per mezzo di costumi sorprendenti. Tutto è un surrealismo alla Magritte nel quale passeggia anche un quadro di Magritte divenuto vivo. Ogni numero vocale ha la sua controparte in qualche sketch assurdo ed esilarante; Lord Sidney restaura di un ritratto femminile di John Singer Sargent, di cui si è innamorato e che diventerà vivo e vero. “Medaglie incomporabili” è la colonna sonora di un’asta con clienti che salgono in palcoscenico dalla platea, e la vince il direttore d’orchestra, aggiudicandosi un elmo prussiano. Quando canta Corinna si svolgono virtuosistici miracoli di metamorfosi: le tre Grazie di Canova si rivelano essere danzatrici vere e non statue di marmo; nel grande peana finale della poetessa improvvisatrice tutti gli interpreti vanno lentissimamente a comporre un enorme quadro vivente, che poi si rivelerà esattamente identico a La coronation de Charles X di François Gérard. Apoteosi di applausi; e ha vinto Rossini perché ha vinto la teatralità italiana. La musica è buffa ma può esserlo anche l’arte. È vero, ammetto di non aver ascoltato con attenzione il duetto Corinna-Belfiore perché contemporaneamente si dipanava una gag divertentissima tra il tenore e un visitatore del museo. Questo è il problema delle regie geniali.

Stefano Montanari, come tanti direttori di oggi, arriva all’Ottocento italiano dall’esperienza barocca; non è Abbado, ma dirige la Nederlands Kamerorkest con finezza e verve, mai o quasi mai coprendo le voci. Al fortepiano, infine, è instancabile. Se problemi ci sono stati, segnaleremmo solo qualche occasionale rigidezza negli ottoni: ma Rossini, si sa, è diabolico nel pretendere dagli strumentisti la stessa bravura dei cantanti.

Nel cast c’è un raggiante “veterano” (che nella sua esemplare carriera rossiniana è stato anche Don Profondo) , per il quale il tempo non sembra passare: parliamo di Bruno de Simone, un Trombonok cantato e recitato con surreale bravura. Sul piano dell’esecuzione vocale note molto positive anche per la Folleville di Nino Machaidze, il Lord Sidney di Roberto Tagliavini, di voce bella e ricca, il poetico Belfiore di Juan Francisco Gatell, l’interessantissima Melibea di Anna Goryachova. Eleonora Buratto ha affrontato il ruolo di Corinna, che qualche musicologo dovrebbe un giorno analizzare in profondità, perché sulla Pasta ci direbbe forse di più che quello di Norma o Anna Bolena. Doveva essere una personalità timbricamente, tecnicamente e interpretativamente straordinaria, perché chiunque assume il ruolo della poetessa improvvisatrice dal 1984 ad oggi o lascia un senso di inadeguatezza o – come nel caso della Buratto – ha il “paravento” di una messa in scena inventiva a distrarre il pubblico. Questo soprano ha bel timbro e bella tenica; farà strada. Michael Spyres (Libenskof) ha il timbro baritonaleggiante e l’ottima scuola dei tenori rossiniani che vengono dagli Stati Uniti e siamo certi che nel repertorio italiano antico ha un futuro. Carmen Giannattasio (Cortese) e Mario Cassi (Don Alvaro) sono, dal lato musicale, professionistici e piacevoli a fronte di uno dei compositori più difficili della storia. Nicola Ulivieri rientra in quella tradizione trentennale secondo la quale Don Profondo deve essere un fine dicitore più che un vocalista, e in questo ambito è stato disinvolto.

Tutti i membri del cast hanno recitato con estrema vivacità, entrando nello spirito della messinscena di Michieletto con bravura di attori provetti. Le scene di Paolo Fantin sono già degne di entrare nella storia del teatro, come pure molti dei sorprendenti costumi di Carla Teti. Questa produzione andrà a Copenaghen e a Sydney, per cui è arduo consigliare agli italiani di non perderla. Ma ci proviamo; e chissà che qualche teatro italiano non si faccia sotto.

foto Clärchen & Matthias Baus


 

 

 
 
 

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