Nell’Eden di Rameau

 di Francesco Lora

Christophe Rousset e Les Talens Lyriques portano in tournée la loro lettura dello Zaïs: l’ultima tappa, nel Theater an der Wien, si giova di una compagnia di canto ove spiccano Julian Pregardien e Amel Brahim-Djelloul.

VIENNA, 17/04/2015 – Incontenibili sono le declinazioni dell’opera italiana, genere nato in una penisola e poi diffuso in tutto il mondo. Differente è la storia dell’opera francese, confezionata per via parallela come bene culturale di una e una sola nazione: in particolare il repertorio del Sei-Settecento, antecedente alla Parigi ottocentesca che fu meta di tutta l’Europa musicale, necessita di specialisti che sappiano decodificare i testi, tramandare lo stile e far vivere di generazione in generazione un lungo catalogo di capolavori. Nell’ultimo quarto del Novecento, il principale eroe della missione è stato William Christie, con il suo ensemble vocale e strumentale Les Arts Florissants: da lui sono venute letture di riferimento di Campra, Dauvergne, Lully, Montéclair e Rameau tra gli altri. Ora che le primavere di Bill sono divenute numerose e i suoi complessi sono curati perlopiù da altro direttore, l’erede del suo storico ruolo è sotto gli occhi di tutti: non Marc Minkowski e non Emmanuelle Haïm, talvolta estrosi ma non sorretti da pari erudizione e organizzazione; forse Hervé Niquet, eclettico, curioso e disinibito, tuttavia più mordace che raffinato. Piuttosto Christophe Rousset, il paradisiaco clavicembalista che è anche direttore dell’orchestra Les Talens Lyriques: esperto di opera settecentesca italiana, negli ultimi vent’anni egli ha già dato un contributo ulteriore e formidabile al Barocco francese, riconsegnando al teatro e al disco opere di Desmarest, Gluck, Lully, Marais, Mondonville e Salieri tra gli altri. Sul podio come alla tastiera, egli caratterizza le sue letture con gesti stilizzati, colori pastello, ornamentazione adamantina; è il teatro della misura, dell’eleganza e del buongusto.

Al Theater an der Wien, il 17 aprile e in forma di concerto, si è appena svolta l’ultima tappa di un percorso che dall’estate scorsa ha toccato il Festival di Beaune, il Concertgebouw di Amsterdam e l’Opéra royal di Versailles; ne rimarrà memoria in un CD per l’etichetta Aparté (la pubblicazione è prevista per l’autunno prossimo). Il titolo presentato è uno tra i più rari di Jean-Philippe Rameau: si tratta dello Zaïs, partitura varata nel 1748 e dovuta a un autore sessantacinquenne, afferente non al genere coturnato della tragédie lyrique ma a quello più tenue della pastorale heroïque; il che significa, in tutti i casi, recitativi lunghi e ricchi e mobili nelle risorse espressive e retoriche, arie brevi e graziose condotte con imprevedibilità melodica e figurazioni anche minutissime, nonché soprattutto continue occasioni di danze strumentate con il ben noto magistero armonico e timbrico del compositore. Si rinnova in questa sede il consueto giudizio su Rousset e sui suoi strumentisti: idee chiare e pulite, eloquio forbito, prontezza ritmica. Al concertatore si deve inoltre la coordinazione delle sopraffine variazioni vocali nei da capo degli airs, insieme con la giusta lettura dei segni d’ornamentazione: nella civiltà musicale francese dell’Età moderna, essi infatti non invitano il musicista alla libertà interpretativa, bensì mettono alla prova il suo sapere accademico. L’orchestra attacca il Prologue con qualche timidezza e asprezza, si scalda pian piano e attinge infine l’attesa iridescenza e spigliatezza. Accanto agli strumenti si trova ancora una volta, come ormai un partner fisso, il Chœur de Chambre de Namur: formazione vocale iperspecializzata nel Barocco francese, deliziosa negli impasti e attenta ai particolari come un dipinto di Fragonard, esso è qui valorizzato da una partitura che predilige l’Eden del mondo pastorale alle tinte forti del genere tragico.

Discorso articolato sulla compagnia di canto, ove a spiccare su tutti è il tenore Julian Pregardien come Zaïs. Si ammira come egli sappia conciliare un timbro di maschia e franca solarità con un’acutissima tessitura da haute-contre, sfumando la voce piena sino al confine con il falsetto e senza sacrificare l’intelligibilità della pronunzia; dall’atto I al IV, i segni della stanchezza inficiano a tratti l’intonazione, e non mettono tuttavia in discussione un’interpretazione lussuosa sia nel materiale sia nel mestiere. Canto persin più raggiante e cordiale avrebbe, in parte anch’essa di haute-contre, Zachay Wilder come Sylphe, ma in una sola scena egli denuncia l’affaticamento per una tessitura troppo elevata. Mezzi ordinari se non proprio modesti si riscontrano invece in Aimery Lefèvre come Oromazès e in Benoît Arnould come Cindor: baritoni di scarso smalto e proiezione, essi attestano come la scuola di canto francese sappia meglio istruire al fraseggio che formare alla tecnica. Il ruolo della primadonna, Zélidie, tocca alla rinomata Sandrine Piau: ella vanta ancora tutto il possibile coinvolgimento espressivo, benché la linea di canto si sia col tempo infrigidita e resa meno fantasiosa. Per freschezza di mezzi, spontanea comunicativa ed esattezza di articolazione degli abbellimenti, l’alloro passa così alla collega Amel Brahim-Djelloul come Sylphide e Grande Prêtresse de l’Amour. Lunga festa di applausi per tutti.