Atemporale onirico: l’Aida romana

 di Stefano Ceccarelli

Al Teatro dell’Opera di Roma va finalmente in scena l’Aida: era dallo scorso anno, dalla defezione di Muti, che il pubblico romano attendeva la sua Aida. Fortunatamente, la direzione è affidata a un musicista dal talento specchiato, Jader Bignamini, che rende piena giustizia alla partitura. La regia è demandata a Micha van Hoecke, coreografo del corpo di ballo capitolino: il tutto è un po’ statico, ma vi sono trovate molto piacevoli. I costumi e le scene sono di Carlo Savi: alla bellezza dei costumi, si riscontra un’estrema povertà scenografica, che però regala atmosfere piacevoli grazie all’uso illuminotecnico. Nel cast brilla chiaramente la bravura dell’Amneris di Anita Rachvelishvili.

ROMA, 29 aprile 2015 – Al Costanzi, alfine, va in scena l’Aida che il pubblico romano attendeva fin dall’apertura della stagione, funestata dai noti problemi che hanno condotto Riccardo Muti a scegliere di defezionare e abbandonare la direzione delle due opere di cui si era preso carico. Ma l’Opera di Roma non vuol far mancare al pubblico un’Aida: fa, così, un’operazione dai costi contenuti, fuori abbonamento, che pur con qualche riserva ha non pochi punti positivi.

Primo fra tutti, la squisita direzione di Jader Bignamini: giovane, saldo, dal gesto sicuro e preciso, produce una lettura sofisticatissima, agogicamente sempre studiata e mai scontata. Lo si vede dal gioco di chiaroscuri con cui disegna il preludio al I atto o alla nettezza con cui dipinge gli screziati arabeschi nilotici di quello del III. Cava sonorità fini e sorregge le voci con grande perizia e attenzione: qualche volta ha persino la prontezza di recuperare qualche cantante periclitante (mi viene in mente il recitativo d’apertura del I atto, dove deve correre dietro al Radames di Sartori; o quando insegue l’Aida della Boross nel portamento troppo anticipato verso la conclusione dell’aria del Nilo nel III). Insomma: raffinato (indimenticabili le sue esecuzioni dei diversi ballabili, primo fra tutti la celebre marcia trionfale), fa vivere vividamente la partitura ed è un intelligente concertatore di voci. Si può dar di meglio? E se si prescinde da qualche imperfezione, anche l’orchestra dell’Opera di Roma lo segue con maestria, regalandoci un’ottima serata d’opera. Il coro (Roberto Gabbiani) fa egregiamente il suo dovere: non strappa mai, adeguandosi alla forza dei volumi orchestrali o ammorbidendosi nei momenti di maggior delicatezza o pathos (si pensi ai frequenti cori retroscenici: la soffusa delicatezza di quello all’inizio del III atto; o l’indefessa spietatezza di quello dei sacerdoti nel IV).

Il cast vocale è più che buono. Ma analizziamo con ordine. Il Radames di Fabio Sartori ha un ottimo mezzo, ma − ed è un vero peccato! − spesso non lo usa con la dovuta intelligenza musicale. In parte è un problema di affinamento di gusto; in parte è un vizio che caratterizza sovente i cantanti che la natura ha particolarmente dotato: il narcisismo che li spinge a tirar fuori più decibel possibili. Lo si è visto in maniera lampante in «Celeste Aida», tanto che il si bemolle finale sovracuto, che Verdi raccomanda soffuso (e a ragione, visto che rappresenta l’anelito verso la donna amata), esce come un bronzeo squillo di tromba etrusca. Eppure, con una voce capace di un repentino squillo, di velature e bruniture nei bassi, chiari e udibili, Sartori potrebbe fare quel che vuole: il tutto, per di più, unito a una voce − diciamolo pure − veramente ragguardevole. Così, fa benissimo nei concertati e negli ensemble; e dal III atto in poi, sa anche regalarci qualche gentilezza vocale, soprattutto nei duetti con Aida (III e soprattutto quello del IV), nonché in quello con Amneris (IV). Ma la caratteristica fisiologica che lo contraddistingue è sempre quella del fiero squillo: dà tutto sé stesso, infatti, nel finale I e nel III, dove a pieni polmoni ci regala un epico «Sacerdote, io resto a te».

L’Aida di Csilla Boross ha, sì, una voce potente, ma non certo raffinata: un vibrato stretto è sempre in agguato in ogni armonico, inficiando molto della languida naturalezza con cui andrebbe eseguita molta della parte della sventurata Etiope. Devo dire che con gli anni la voce le si è potenziata, ma permane poco espressiva: un ruolo come Aida non le è, dunque, propriamente congeniale. Detto ciò, bisogna ammettere che qualche fraseggio azzeccato, qualche espressiva raffinatezza riesce a trovarla anche lei, soprattutto nei duetti: sia in quello con Amneris (II), tra i momenti migliori della serata, sia in quelli con Radames, soprattutto nel primo (III) dove riesce a rendere quel senso di seducente inganno che Aida, anima candida, solo qui è costretta a operare in nome dell’amor di patria − penso soprattutto alla lettura di frasi come «Là… fra foreste vergini / di fiori profumate, / in estasi beate / la terra scorderem». «Ritorna vincitor» è cantata, ma non sentita: la Boross ancora ignora le cesellature di storiche interpreti, come la Callas, la Tebaldi, la Price (Leontyne, sia chiaro!) e la Freni. L’aria nilotica (III atto: «O cieli azzurri, o dolci aure native») è più curata della precedente; la Boross si sforza di snaturarsi e giocare di fioretto, ma non le riesce sempre. Poi, il cedimento sull’arduo do naturale sovracuto, preso incoscientemente “di petto” anziché sfruttando la voce “in testa” (che sarebbe stata sufficiente, visto che Verdi scrive chiaramente che va eseguito in piano, come espressione parossistica dell’ansia erotica del personaggio), la costringe a un prematuro portamento: Bignamini la insegue, tentando di salvare il salvabile.

Anita Rachvelishvili è l’indiscussa protagonista della serata: un vero miracolo vocale. La sua Amneris è storica. Perfetta, senza se e senza ma. La voce è prorompente, tripudiante di armonici, bellissima, ricca di tinte diverse, molto espressiva, sensualissima: ha, insomma, tutti i pregi di un autentico mezzosoprano. Deliba ogni sentimento del personaggio di Amneris: ce ne restituisce la frivola gelosia, l’intensa capacità di amare, la regale iracondia, il sacro pentimento. Straordinario il suo duetto con Aida (II), dove le due interpreti ci regalano anche una perfetta mimica recitativa. Indimenticabile il suo ingresso nel III («Sì: io pregherò che Radamès»), castamente sensuale. Straziante il suo duetto con Radames (IV). Perfetta la scena del giudizio: la maledizione ai sacerdoti risuona terrifica, scatenando fra il pubblico un’ovazione.

Il Ramfis di Roberto Tagliavini è fresco e assai virile, de-mummificato rispetto alla stragrande maggioranza degli interpreti odierni e passati del ruolo. Una voce chiara, piena, caravaggesca, scolpisce un saldo, ieratico recitativo, senza dimenticare un più soffuso abbandono al divino («Nume custode e vindice»). Giovanni Meoni canta un Amonasro assai convincente; la granulosità del suo timbro si attaglia a un re orientale e sottomesso. Peccato non abbia un mezzo potentissimo: nel duetto con Aida (III), se non manca di minacciosità, certo un volume più espanso avrebbe aiutato il tutto. Sottotono, non in serata, il Re di Luca Dall’Amico, che fa fatica a sentirsi. Buoni i comprimari: il Messaggero di Antonello Ceron è vocalmente centrato; delicata la Sacerdotessa di Simge Büyükedes.

La regia e la coreografia sono sostenute da Micha van Hoeck. Per questo, sarebbe meglio parlare di una coreografia registica. La regia in sé è, se non assente, perlomeno assai carente: unici momenti in cui si vede un accenno di regia (ragguardevole, peraltro) sono i vari duetti, dove le posizioni e i gesti dei personaggi non vengono quasi mai affidati al caso − lo si è visto chiaramente, per esempio, nel duetto Aida-Amneris. Il tutto si incardina sulle coreografie e su pizziani tableaux, ambedue, certamente, gradevoli. Molto del merito è dei costumi di Carlo Savi, di buona foggia, variegati, e dell’uso delle luci di Vinicio Cheli. Le scene pensate da Savi sono, infatti, praticamente prive di elementi scenografici. Sta all’abilità dell’uso delle luci di Cheli creare atmosfere oniriche. Sì, oniriche, non egizie, giacché van Hoecke si propone programmaticamente di creare un mondo che si genera oniricamente con i pensieri dei personaggi tradotti in azione. Il suo mondo egizio è fiabesco, sospeso; solo pochi elementi vi rimandano: il costume di Amneris, quello del Faraone, i paramenti di Ramfis, gli obelischi ricalcati sulle sculture di Arnoldo Pomodoro che si vedono nella scena del trionfo, le agili e stilizzate imbarcazioni del Nilo. In queste situazioni, il flop è sempre in agguato: ma, devo dire, l’amalgama complessivo regge. Mercé soprattutto delle luci, come ho detto, giocate sui cromatismi del blu oceano, del lapislazzuli, del celeste, fino a arrivare all’acqua marina e al grigio opaco. I costumi spesso contrastano presentando giochi di nero e oro (Radames): il coro di Sacerdotesse e Sacerdoti ha l’aspetto di austeri iniziati misterici, più che di classici egiziani. Come che sia, la commistione ha un suo certo fascino. Dicevo, delle coreografie: deliziosa quella dello schiavetto moro (Alessio Rezza, bravissimo!); semplice, ma non scontata, quella dello schiavo in gonna che durante la marcia trionfale esegue una danza di un derviscio; più entusiasmante quella in cui la Dea della Vittoria (la sensuale Annalisa Cianci) combatte contro dei Guerrieri. Ma la migliore è, a mio avviso, la danza delle Sacerdotesse nel tempio di Vulcano: semplice, giocata su geometrie circolari, dal gusto primitivo, d’effetto sicuro. Citavo anche i tableaux: se alcuni stancano, come quello del boudoir di Amneris (II) o quello troppo fisso del trionfo, altri stupiscono per la proporzione geometrica sempre giocata su una sezione piena opposta a una vuota − si pensi a Ramfis sopra la scalinata che attende, sfingeo, Amneris all’inizio del III; o i sacerdoti posizionati sul lato sinistro del palco, ascendenti le scale, che si ergono minacciosi su un’Amneris distrutta (IV). Ma l’effetto registico più gradevole è certo il finale. Amneris sta sopra la tomba di Radames e Aida, sovrastata da un mistico cerchio gigante (la luna?); al momento della morte vengono sparate delle luci dal palco e, in controluce, i due amanti trasmigrano nell’aldilà, verso il cerchio divenuto nero, un astro circonfuso di luce. Un’Aida che si deve apprezzare per uno sforzo dietro il quale si intravede una chiara qualità (lo spettacolo di van Hoecke, peraltro, era una ripresa di un’edizione pensata per Caracalla). I nostalgici di uno sfarzo egizio saranno rimasti delusi; chi ama l’azione sul palco sarà certamente insoddisfatto: ma talune trovate fanno intravedere un’idea chiara e in più punti apprezzabile.

foto © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma