Aida si specchia nel Bosforo

 di Roberta Pedrotti

 

In memoria di Leyla Gencer, la Borusan Istanbul Philharmonic Orchestra diretta da Sascha Götzel, nell'Auditorium Istanbul Lütfi Kırdar, propone un'Aida con un cast di respiro internazionale e la partecipazione - davvero straordinaria - del Coro dell'Accademia di Santa Cecilia. Un'occasione per condividere l'universalità dell'arte e dell'opera come patrimonio dell'umanità in un luogo il cui fascino eterno, delicato e prezioso, consiste proprio nel millenario incontro di uomini e culture, oggi più che mai da prendere a esempio e preservare per il futuro.

ISTANBUL, 14 maggio 2015 - Sarà anche vero che fra le azioni di Costantino ve ne fu più d'una che “di quanto mal fu matre”, ma di certo l'imperatore dimostrò buon gusto e lungimiranza nell'eleggere la sua capitale orientale e non possiamo che essergli grati per aver reso definitivamente una delle più grandi città del mondo l'insediamento di Bisanzio, elevandolo alla gloria cui lo predestinava il controllo del passaggio verso il Mar Nero – e i relativi commerci con l'Oriente e le terre degli Slavi – già motore dell'impresa degli Argonauti e della guerra di Troia.

Il tramonto fra il Bosforo e il Marmara ha un profumo delicato e penetrante, il panorama che avvolge l'attesa di Aida ha la placida malìa dei millenni che si condensano in un istante.

Varcata la soglia del Lütfi Kırdar Anadolu Auditorium, il pubblico, sorridente, piacevolmente eterogeneo per età e serenamente sobrio nell'eleganza, confluisce nell'ampio foyer dove su ogni colonna compare l'effige di Leyla Gencer, il genius loci musicale alla cui memoria è dedicato il concerto.

Leyla sarà là, anche durante lo spettacolo, perché, ad arricchire la forma oratoriale che i movimenti dei cantanti e la caratterizzazione dei loro abiti rende già, praticamente, semiscenica, la regista Yekta Kara ha predisposto anche uno schermo su cui vengono proiettati di volta in volta dettagli dell'esecuzione in corso, paesaggi egiziani, frammenti di altri allestimenti e di teatri italiani (riconosciamo la Scala e, ovviamente, l'Arena) e, soprattutto, spezzoni del noto video veronese con la Gencer protagonista al fianco di Carlo Bergonzi.

Leyla è presente, proprio perché non si ha l'impressione di assistere a una commemorazione ripiegata su se stessa, ma a un sentito omaggio a quello che è anche un simbolo come artista turca, orgoglio nazionale di respiro e fama internazionali, amata e familiare in Italia e nel mondo come in patria.

Il cast di questa produzione, frutto del mecenatismo privato che sostiene l'attività della Borusan Istanbul Philharmonic Orchestra, annovera un soprano statunitense, un tenore italiano, un baritono e un mezzosoprano georgiani, due bassi turchi come i giovani interpreti della sacerdotessa e del messaggero, un concertatore viennese e un coro italiano.

E proprio dal coro vorremmo partire, ché il pizzico d'orgoglio nazionale che ci inumidisce le ciglia ascoltandoli va di pari passo con la ben motivata ammirazione e la commozione suscitata dall'eccellenza della prova musicale. Direttori o solisti italiani, cantanti o strumentisti, non sono certo una novità o una sorpresa sui palcoscenici internazionali, ma, soprattutto in momenti difficili come quelli che viviamo da qualche anno, assistere alla trasferta non di un singolo, ma del complesso di un'istituzione italiana capace di esprimersi a questi livelli fa riflettere e dà speranza. Certo, stiamo parlando del coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia preparato da Ciro Visco, vale a dire uno di quei rari casi in cui la parola eccellenza può avere un senso libero dal logorìo dell'abuso cui è sottoposta. Musicalmente perfetti, e non è una sorpresa, vocalmente imponenti, ineffabili nell'articolazione della parola, nella duttilità di fraseggio, nel dominio dinamico e nella plasticità timbrica, gli artisti ceciliani giungono a plasmare perfino uno spazio teatrale, descrivendo solo con la voce ambienti e atmosfere; fermi nella loro postazione dietro l'orchestra realizzano l'incantesimo di un canto che veramente pare provenire ora dalle quinte, ora dal proscenio, ora raccolti in un punto, ora a riempire l'intera scena virtuale. Il coro è, così, molto più di un popolo, molto più di un gruppo di sacerdoti, del pilastro delle pagine più imponenti: è l'anima e la suggestione stessa dell'opera, la sua architettura drammaturgica, il suo colore. Non siamo di parte, ma siamo orgogliosi, applaudendoli alla fine insieme con il pubblico locale, che per loro esplode in un travolgente boato d'entusiasmo.

Il successo è, comunque, ben distribuito e se nel corso della serata l'ascolto piuttosto compassato ci aveva fatto temere una certa riservatezza, se non freddezza, delgli spettatori, il grande calore finale ha svelato l'anima appassionata e mediterranea dei musicofili turchi, evidentemente solo concentrati e attenti a interrompere il meno possibile il flusso drammatico dell'opera.

Associandoci all'apprezzamento generale, notiamo soprattutto la prova di Latonia Moore nel ruolo eponimo. Il soprano statunitense ha tutte le carte in regola per candidarsi a essere una delle migliori interpreti odierne di Aida: il peso vocale è conveniente, ma l'anima è giustamente e dolcemente lirica, il colore fresco e giovanile, gli acuti sicuri. L'impegno espressivo è innegabile e spesso efficace; e solo le manca quella scintilla in più, quella capacità di entrare intimamente nel senso della parola cantata e tradurlo in più raffinate soluzioni musicali. Ciò va detto non come rilievo alla cantante, nel complesso, lo ribadiamo, ottima, bensì a sottolineare come molte istituzioni italiane – in cui, a dispetto del prestigio, non abbiamo certo visto sfilare Aide di livello superiore alla Moore, anzi! – bene farebbero a coinvolgerla, offrendole anche la possibilità di approfondire il repertorio italiano in un contesto madrelingua.

Della pratica di Verdi e Puccini in Italia si è evidentemente giovato George Gagnidze, cantante che qui ci stupisce delineando un Amonasro di tutto rispetto, convinto e convincente come non l'avevamo mai sentito prima.

La sua compatriota Stella Grigorian sembra aver meno dimestichezza con la parte di Amneris, soprattutto nel momento più drammatico della scena del giudizio e dell'anatema: ma è ben comprensibile, trattandosi di un ruolo al limite nel suo repertorio versato soprattutto al lirismo se non al belcanto. L'artista non manca di pregi e ci piacerebbe riascoltarla in futuro anche in altre parti.

Unico italiano fra i solisti, Antonello Palombi, giunto in extremis a sostituire il previsto Fabio Sartori, è un Radames d'impostazione drammatica, dalle sonorità scure e muscolose e d'animo prima di tutto guerriero, in cui si apprezza dunque la volontà di non risolvere di forza tutto il ruolo e, per esempio, rinunciare all'esibizione della corona di “Sacerdote, io resto a te”.

Kenan Dağaşan porta a Ramfis tutta la sua esperienza di storico basso stabile all'Opera Nazionale, il più giovane Göktuğ Alpaşar reca in dote al Re i suoi studi milanesi con Vittorio Terranova e Richard Barker. Ali Murat Erengül, poco più che ventenne, è un messaggero ardimentoso, ancora in via di maturazione e consolidamento tecnico, mentre colpisce, e molto, il talento di Gülbin Günay, già nota come vincitrice AsLiCo e dotata di voce assai bella, morbidamente impostata, propensa al legato e – cosa rara anche se l'artista non è confinata nel retropalco – capace di articolare con chiarezza la preghiera della sacerdotessa.

Sul podio, Sascha Götzel, che è anche direttore artistico della Borusan Istanbul Philharmonic Orchestra, frutto del mecenatismo delle imprese Borusan e affermatasi al punto di essere la prima orchestra turca a esibirsi alla Royal Albert Hall di Londra per i BBC Proms. L'organico è piuttosto giovane e si tratta solo del secondo cimento verdiano nella storia dell'orchestra, la cui attività è prevalentemente sinfonica, dopo La traviata, opera certo insidiosa ma per peculiarità affatto diverse rispetto a quelle di Aida. Si rimane, perciò, molto favorevolmente colpiti dal lavoro svolto dal maestro e dalla qualità degli strumentisti, che non lasciano intendere alcun impaccio o inesperienza, anche senza considerare i tempi ristretti delle prove e l'acustica della bella sala polifunzionale non pensata, però, espressamente per la musica e il melodramma. In caso di difficoltà li avremmo potuti invocare come attenuanti, ma poiché tutto fila liscio ne prendiamo atto a ulteriore conferma della solida qualità musicale che sta alla base della produzione. Götzel dimostra di avere le idee chiare, tecnica salda – già violinista dei Wiener si è perfezionato con Valeri Gergev – e sacrosanto senso pratico: cura attentamente voci e strumenti, soli e assieme, non disperde le energie inseguendo chimere, ma bada a dare coerenza e costruire man mano la propria lettura, fluida e ben ponderata, equilibrata e teatrale.

Il risultato ottenuto non è da poco e siamo grati a chi ci ha permesso di godere della gioia di un'opera italiana data con tanto amore in una delle più belle città del mondo. Di godere, senza retorica ma con tanta passione, dell'universalità dell'arte e della musica nel piccolo, prezioso e delicato paradiso di questo felice crocevia di uomini, tradizioni e pensieri che ci auguriamo possa sempre rimanere tale: Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, greca, romana, bizantina, ottomana, moderna ed eterna.

Video, Gli italiani a Istanbul

foto Özge Balkan