Quel direttore guastamestieri

 di Andrea R. G. Pedrotti

Buon cast, soprattutto per quanto concerne i due giovani amanti impersonati da Giorgio Misseri e Mihaela Marcu, per il Don Pasquale al Verdi di Trieste. Peccato che la squadra fosse guidata da un concertatore piuttosto falloso, che ha messo a serio repentaglio la vittoria finale.

TRIESTE, 28 maggio 2015 - Il popolo italiano è famoso nel mondo per varii motivi: la buona tavola, il buon bere e l'avvenenza delle fanciulle sicuramente, ma le due arti che più d'ogni altra hanno reso celebre il Bel Paese sono da sempre la musica e il calcio. La sera del 28 maggio eravamo seduti nella assai poco popolata platea del Verdi di Trieste, principale teatro cittadino, e in più occasioni - durante questo Don Pasquale - eravamo portati a rammentare che la città simbolo degli ideali risorgimentali e principale casus belli - assieme a Trento - della guerra contro l'Austro-Ungheria di cento anni fa diede i natali a uno dei più grandi profeti del gioco del pallone: Nereo Rocco. Come in Italia nacque il melodramma, grazie a Nereo Rocco, nacque anche la tattica brutalmente detta “catenaccio”: difesa rocciosa con rapide e spietate ripartenze. Se, tuttavia, il centrale in questione, cioé colui che nel calcio dovrebbe tener ordine nel reparto arretrato, avesse il medesimo ordine e coerenza dimostrati da Hirofumi Yoshida questo giovedì sera, ci troveremmo innanzi a una sonora sconfitta. La bacchetta del maestro giapponese è perennemente fallosa e, nel non riconoscere la partitura donizettiana, ci auguriamo sovente sia la nostra memoria a fallare, ma, ahinoi, la rimembranza non è affatto fallace. L'insistito fallo della virilmente impetuosa bacchetta di Hirofumi Yoshida trasuda di testosterone, perdendo lucidità nella frenesia disordinata. Ne sortisce un colossale pasticcio in cui il difensore\direttore d'orchestra non riesce a organizzare la squadra\masse artistiche, ponendo in palese difficoltà gli avanti\interpreti che si trovavano sul campo di gioco\palcoscenico.

Già la sinfonia fa sorgere molti dubbi, con tempi staccati in maniera estremamente fantasiosa, crome e semicrome riscritte a piacere e dinamiche, invero, discutibili. In tutto questo il fraseggio musicale, o piatto ai limiti della narcolessia - forse si era esaurito il testosterone -, o disordinatamente frenetico, in afflati di ritrovata vitalità. Come se non bastasse la serata è stata costellata da tagli inspiegabili e dalla conseguentemente inutile riapertura di alcuni recitativi nel terzo atto. Un vero peccato perché la ormai vecchia regia di Stefano Vizioli ben si adattava al teatro giuliano, il cui palco non è sicuramente di grandi dimensioni. La ripresa di Lorenzo Nencini, per di più, era curata, con qualche piccolo mutamento d'obbligo nel movimento dei cantanti, come quando, durante la cavatina del primo atto, viene consegnata a Norina una rosa dalla buca del suggeritore; fiore porto alla giovane vedova romana al lato sinistro della scena, vista l'assenza di una botola centrale. Le scene, un po' troppo rumorose, sono appropriate, con il cielo proiettato sullo sfondo e molti simboli della passione per le antichità dell'anziano Don Pasquale, rappresentati in numerosi oggetti più adatti al magazzino di qualche museo archeologico che non alla vispa abitazione d'un uomo nel pieno delle forze. Tradizionali e funzionali i costumi di Roberta Guidi di Bagno e apprezzabili le luci di Franco Marri.

Ciò che non è stato completamente vilipeso dalla infausta concertazione di Hirofumi Yoshida è stata la compagnia di canto, costretta a lottare perennemente con l'assurdità delle dinamiche che venivano dall'orchestra (tra l'altro scollata fra le sezioni in più punti), che hanno messo a dura prova tecnica e fiati degli artisti, purtroppo portati, senza distinzione alcuna, a errare alcuni attacchi, specialmente nel primo atto.

Andrea Concetti è un Don Pasquale che nella voce soffre effettivamente i malanni del trascorrere del tempo, ma risolve il ruolo con esperienza; attore di buon livello migliora nel corso della serata, portando a compimento un vecchio celibatario non memorabile, ma sicuramente credibile e funzionale. Federico Longhi (dottor Malatesta) declama meno e canta più di Andrea Concetti, si muove bene in scena, ma l'emissione risulta molto cavernosa e la gestione dello strumento vocale non è senz'altro delle migliori. I problemi nella tecnica vengono a galla specialmente durante il duetto “Chieti cheti immantinente”, quando egli palesa evidenti difficoltà in un sillabato mal riuscito. Buona la prova di Giorgio Misseri, come Ernesto: il tenore siciliano non fa dell'interpretazione la sua principale caratteristica, ma regala uno squillo notevole e il timbro limpido è fra i più belli in circolazione. Alcuni acuti risultano poco centrati, ma la prova è nel complesso positiva, specialmente nella serenata “Com'è gentil...” e nel duetto “Tornami a dir che m'ami”.

Migliore del cast sicuramente la Norina di Mihaela Marcu, forte di un'emissione morbida e un timbro pastoso, i quali - unitamente - sottolinenano la rotondità del suono. Come detto in più occasioni, e da più voci, l'artista rumena si dimostra maestra eccellente d'arte scenica in tutte le sfaccettature del personaggio, risultando sicura, insolente e sincera. Forse un po' più veemente di fronte all'anzianità Don Pasquale e nello scherno all'età. I registri sono omogenei con particolare luminosità nell'acuto e nel cantabile. I suoi momenti migliori sono sicuramente il malinconico pentimento, seguito allo schiaffo e la puntuale coloratura del rondò finale, eseguito nella totale piattezza di fraseggio da parte dell'orchestra. Il suo è un registro vocale molto delicato e speriamo che prosegua sulla strada di un repertorio corretto, come fatto fino a oggi.

Completava il cast il notaro di Giuliano Pelizon.

Al termine i più applauditi sono risultati Mihaela Marcu e Andrea Concetti.

Da sottolineare l'ottima prova del coro diretto da Paolo Vero. Il complesso giuliano ha bel colore e buona personalità, caratteristiche che non manca di mettere in luce anche questa sera.

Il riallestimento è in coproduzione con la Fondazione Teatro Comunale di Bologna e la Fondazione Teatro lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste.

foto Fabio Parenzan