Candide, ottimista disilluso

 di Valentina Anzani

Al Maggio Musicale Fiorentino uno sfarzoso allestimento della comic operetta bernsteiniana.

Firenze, 31 maggio 2015 – Se Candide sia un’opera comica o un modo di mettere in musica un trattato di filosofia si discute sin dal suo primo apparire. La trama della comicissima partitura di Leonard Bernstein non è molto diversa da tutti i viaggi di formazione durante i quali un giovane protagonista conosce il mondo e se stesso, fino a che, una volta adulto, non riesce a realizzarsi come uomo. Per Candide la realizzazione consiste nella creazione di una famiglia con l’amata Cunegonde. Che poi, sottesa a questa trama semplice, vi sia sciorinato l’intero pensiero filosofico illuminista di Voltaire e il suo tentativo di decostruire quello del rappresentante della filosofia dei sistemi metafisici, Leibnitz, diventa chiaro per i continui riferimenti che i personaggi fanno nei loro dialoghi. Terzo e ulteriore livello lo aggiunse Bernstein stesso negli anni ’50, quando dal romanzo di Voltaire Candide, ou l’Optimisme trasse un’opera in cui rifletteva sulla società a lui contemporanea dominata da McCarthy, condita di jazz, musica da cinema e sinfonismo. Di per sè ci sarebbe stata già abbastanza carne al fuoco per ragionare sulla natura umana con un sorriso sulle labbra; ma la produzione del Maggio Musicale Fiorentino fa di più, affidandosi alla regia brillante – e di un disilluso pessimismo – di Francesco Micheli.

Il narratore onniscente è una magnifica Lella Costa, che da Voltaire diventa una donna delle pulizie volteggiante sui pattini a rotelle, osserva la fabbrica in cui lavora e legge Candide, osservando che le analogie tra il racconto filosofico e la realtà della fabbrica non sono poi molte.

La fabbrica in cui è trasposta la vicenda è la Wesfalia Human Factory, che produce stereotipi umani, perfezionati ad hoc per occupare il ruolo che spetta loro nella società: purtroppo questo ruolo non ha niente a che fare con le singole individualità, ma corrisponde tristemente alla posizione più produttiva. Nessuno si stupisce quando, nel finale, nel momento in cui un coro trionfante accompagna il coronamento dei sogni di Candide, finalmente sposato alla donna che – anche dopo aver conosciuto la vera essenza di lei – ama, i nostri eroi risultano nient'altro che burattini telecomandati. Privati di ogni personalità, indossano con soddisfazione le tute da lavoro, in un ossimoro tragicamente attuale.

Il discorso sulle voci di un’opera come questa è delicato: forse solo vocalità “americana” è la definizione giusta, una vocalità che conosce tanto il musical, quanto il belcanto, quanto lo sprachgesang; in cui la preparazione lirica necessaria per affrontare la scrittura impervia deve fondersi con in buona dose di controllo della voce di petto e del declamato. Chi più, chi meno, tutti gli interpreti hanno dato una buona prova, dalla voce tenorile chiara di Keith Jameson (Candide), ai frizzi di Laura Claycomb come Cunegonde, al crudo Pangloss di Richard Stuart, all’ammiccante Paquette di Jessica Renfro. Particolarmente calzante la scelta di Anja Silja come Old Lady: nella sua voce, che l’ha resa capace di una carriera strepitosa, ci sono tutte le tracce del tempo, ma (come può ben dichiarare nel duetto con Cunegonde “We are women”), il suo fascino è intramontabile. Chris Merritt, l'altro illustre veterano del cast, si è prestato con agio all’interpretazione di personaggi multipli (è di volta in volta Captain, Governor,  Vanderdendur, Crook), emergendo soprattutto nei panni del Governatore. Interprete spassoso di un Cacambo transgender era poi Gianluca di Lauro, mentre Maximilian era Gary Griffiths.

Nonostante qualche zoppicante imprecisione, la direzione di John Axelrod non è stata priva di mordente, nelle corse verso i crescendo dei finali solenni ed entusiastici e nel sottolineare gli aspetti giocosi della partitura.

Nelle luci di Angelo Linzalata, nei luminosi e sgargianti costumi di Daniela Cernigliaro, nelle coreografie di Alfonso Cayetano per i ballerini di MaggioDanza, vi era poi una pregevole eco degli sfarzi e del piglio entusiasta delle ribalte di Broadway, al cui richiamo il pubblico non è stato insensibile.