Le colombe di Medea

di Francesco Lora

Il capolavoro operistico di Mayr è il titolo vedette del Festival della Valle d’Itria, in particolare grazie alla dedizione del concertatore Luisi e all’oculata scelta dei tenori Spyres e Scala.

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MARTINA FRANCA, 30 luglio 2015 – Si sorride ad ascoltare i commenti del pubblico anche (soprattutto) il più scaltrito, quando soppesa quanto Mozart e quanto Rossini filtrino dalla Medea in Corinto. Questo capolavoro operistico di Giovanni Simone Mayr fa in realtà storia a sé nell’interregno tra i due compositori, poco battuto dagli studiosi e di rado restituito alla scena; ha il proprio indirizzo nello stile impero e il proprio modello – almeno nei propositi – in Luigi Cherubini e Gaspare Spontini (poi imitati da Rossini stesso). Dopo la creazione al Teatro di San Carlo di Napoli (1813), fu per decenni cavallo di battaglia di Isabella Colbran e di Giuditta Pasta (con qualche adattamento), e ha goduto un precoce recupero dall’oblio grazie all’intraprendenza di Leyla Gencer. Il Festival della Valle d’Itria, sempre versatile nella sua vieppiù ricca proposta di lavori rari, ne ha fatto quest’anno il titolo vedette del proprio cartellone: tre recite, dal 30 luglio al 4 agosto, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca.

La renaissance rossiniana ha fatto scuola e ha giovato non solo alla causa di Gioachino. Si è comunemente riassimilato, per esempio, come nel massimo teatro partenopeo, sotto il viceregno e poi nell’eredità culturale di Murat, castrati e donne specializzate in parti en travesti fossero stati scalzati via dai ruoli di primo e secondo uomo, e sostituiti da una coppia di tenori opportunamente differenziati nella declinazione baritonale o contraltina. In Rossini (1815-1822), ciò avviene nell’Elisabetta con Leicester e Norfolc, nell’Otello con il protagonista e Rodrigo, nel Ricciardo e Zoraide con Agorante e Ricciardo, nell’Ermione con Pirro e Oreste, nella Donna del lago con Rodrigo e Giacomo V nonché infine nella Zelmira con Antenore e Ilo. Non è diverso nella Medea in Corinto, dove le parti di Giasone e di Egeo furono create da Andrea Nozzari (tenore baritonale in tutte le prime rappresentazioni delle opere napoletane di Rossini) e da Manuel García (tenore baritonale qui trattato da contraltino, primo Norfolc e primo Conte d’Almaviva).

E a Martina Franca hanno fatto le cose in grande, innanzitutto preoccupandosi del giusto assortimento dei due primi tenori. A tenere la parte di Giasone è Michael Spyres, che declama con vigore e vocalizza con abilità, e sale e scende in tutti i registri dall’acuto squillante al grave rimbombante, con una disomogeneità timbrica che all’epoca era non solo tollerata, ma anche ricercata a bella posta nei divari estremi del canto di sbalzo. Già assodato in Rossini e ora prestato a Mayr, oggi è egli l’interprete di riferimento sulle tracce di Nozzari. Meno conclamata è l’attitudine alla scrittura protottocentesca di Enea Scala, un tenore la carriera del quale è rapidamente volata da Mozart verso il Rossini (ultimo) del Guglielmo Tell, il Bellini dei Puritani e il Donizetti della Lucia di Lammermoor. Ma la scelta non poteva essere più azzeccata: come Egeo, egli vanta emissione di levità e languore antichi, porgere tuttavia maschio e impetuoso, elegante scioltezza nell’ornamentazione, sbalorditiva facilità di squillo e ascesa a un registro sopracuto saldo e lucente.

La consapevolezza stilistica che oggi restaura la coppia di tenori alla napoletana si arrende, tuttavia, dove vi sia da reclutare un’epigona della Colbran e della Pasta. È un cruccio generale, se si considera quanto rinunciataria sia stata, allo scorso Rossini Opera Festival di Pesaro, la scelta di affidare la parte eponima dell’Armida [leggi la recensione]a una Carmen Romeu ìmpari a priori e su ogni fronte. A Martina Franca, come Medea si trova dunque Davinia Rodriguez, animoso soprano avvezzo anche al Verdi degli ‘anni di galera’. Riferirsi a lei non è privo di senno: timbro vetroso ma capace di evocare subito una psicologia altera, emissione mascherata e coperta che inscurisce il suono e incrementa l’autorevolezza, gamma ora affilata e stridente, ora affondata en poitrine, ma sempre presente con onore e incisività. Ella affronta con agio anche l’ardua cavatina con violino obbligato dell’atto I, per tradizione quasi sempre omessa. Manca il solo requisito-chiave: la strapotere scenico, nella parola scavata e nel gesto che poco muove e molto ottiene, degno di una vera primadonna.

Funzionale in roseo senso è quanto resta dell’associazione di personaggi e interpreti: lo schietto basso Roberto Lorenzi è Creonte, il palpitante soprano Mihaela Marcu è Creusa, Paolo Cauteruccio e Marco Stefani sono rispettivamente i comprimari Evandro e Tideo; bizzarra menzione speciale per Nozomi Kato, giovane mezzosoprano uscito dalla locale Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”, che nella minima parte di Ismene si impone per ampia risonanza e smalto sontuoso. Sul podio v’è il lusso di un concertatore come Fabio Luisi: non specialista di questo repertorio, gli si presta però con dedizione; concede la priorità al canto e, anziché rievocare il mordente degli strumenti originali nella moderna Orchestra Internazionale d’Italia, imposta una lettura tardoromantica, serena e legata, salvo poi dar entusiasmante fuoco alle polveri in uno tra i più tellurici finali d’opera che il teatro lirico conservi. Prestante a dovere, soprattutto in quest’ultima pagina, il Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca.

Una piccola novità è infine trovare il regista Benedetto Sicca non più impegnato in un titolo reservato allestito in uno spazio contenuto – com’è stato per La lotta d’Ercole con Acheloo [leggi la recensione]dello scorso Festival della Valle d’Itria e per il Turn of the Screw [leggi la recensione]dello scorso Maggio Musicale Fiorentino – bensì in un grande melodramma e in uno spazio ben più vasto. D’accordo con la scenografa Maria Paola Di Francesco, il costumista Tommaso Lagattolla, il light designer Marco Giusti e il coreografo Riccardo Olivier, egli rifugge l’aura napoleonica e colloca l’azione in un campo di papaveri, muove la massa corale e coreutica con imprevedibile dinamismo, non maschera il muro del Palazzo Ducale ma lo accoglie come elemento scenico e fa affacciare da un finestrone la Medea trionfante che da didascalia dovrebbe attraversare la scena «sul suo carro, tirato da due draghi». Colpo da maestro quando, a quel punto, uno stormo di colombe taglia in diagonale il quadro, per sparire nell’infinito di questo teatro all’aperto che ha per arcoscenico il cielo.

Foto Paolo Conserva