Il miracolo della Gazzetta

 di Roberta Pedrotti

La prima proposta pesarese dell'unica opera buffa napoletana di Rossini (1816) nella versione completa del quintetto ritenuto perduto fino a poco tempo fa dà luogo a uno spettacolo di felicissima vitalità teatrale, reso anche musicalmente con cura e giusto spirito da un cast ben assortito.

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PESARO 11 agosto 2015 - La gazzetta, nonostante abbia goduto di interpreti di tutto rispetto, non è mai stata fra le opere più amate dal pubblico del Rof. Il fatto che, senza speranza di reperire il quintetto cruciale – e per peso musicale e per centralità drammatica – del primo atto, misteriosamente assente nell'autografo, l'opera paresse destinata a essere eseguita in forma mutila, integrata di volta in volta in modo da rendere almeno intellegibile la vicenda secondo l'estro di registi e direttori, certo non ne favoriva l'affermazione. Poi, il miracolo del ritrovamento, a cura di Philip Gossett e Dario Lo Cicero, delle pagine scomparse presso il Conservatorio di Palermo e le prime esecuzioni (a Chicago e a Liège) in attesa della solenne consacrazione pesarese, che coincide con un altro piccolo miracolo, per chi segue gli affari musicologici: il ritorno, per l'occasione, della firma di Gossett sulle pagine di un programma di sala del Rof dopo lo storico e traumatico strappo fra lo studioso statunitense e la Fondazione Rossini.

Ecco, allora, La gazzetta tornare a reclamare i suoi diritti e i suoi meriti nel catalogo rossiniano. Forte della riconquistata integrità, impone allora la sua solida coesione interna anche nel contrasto curioso fra l'intreccio goldoniano (Il matrimonio per concorso) e le situazioni trapiantate di peso da opere precedenti, di cui Rossini riprese numeri interi (il duetto fra buffo e primadonna e il quintetto della festa in maschera dal Turco in Italia, il terzetto del doppio duello dalla Pietra del paragone), senza dimenticare la stretta del citato quintetto (i cui versi già recitano “Mi par d'esser con la testa in un'orrida fucina”) presa dal Barbiere con qualche aggiustamento, ché anche ciò che si ricicla, di fatto, si ricrea e si evolve, o l'evidente calco, nel travestimento “quakero” di Filippo nel finale primo, dal brano equivalente della Pietra del paragone, con il conte Asdrubale camuffato da esotico orientale. La scena fece tale furore a Milano, che Rossini pensò bene di ricercare il medesimo effetto nella sua unica opera buffa napoletana. In altri casi, musica composta ex novo tornerà utile in seguito, come la bella sinfonia poi trasferita in buona parte nella Cenerentola.

Il piccolo miracolo dell'opera mutilata e ritrovata, che per un istante sembra acquietare anche le dispute fra musicologi, porta con sé anche il prodigio di uno spettacolo che è un piccolo, sorprendente gioiello. E sì che, unica nuova produzione in un cartellone apparentemente privo di aspettative elettrizzanti, stretta per di più fra le collaudate riprese di spettacoli firmati da Michieletto e Vick, questa Gazzetta rischiava sulla carta di apparire, teatralmente, come un vaso di coccio fra i vasi di ferro. Marco Carniti ci consegna invece una messa in scena agilissima, semplice e lineare nei mezzi quanto gustosa e ricca di idee nel gioco della recitazione. Azione più chiara che mai, cantanti attori valorizzati magnificamente, ampliamento azzeccatissimo del ruolo del servo Tommasino affidato all'ottimo Ernesto Lama (che fa il paio, per eccellenza extramusicale, con l'insostituibile gazza di Sandhja Nagaraja applaudita la sera prima), doppio duello irresistibile fra spade laser e danza classica sono solo alcuni degli ingredienti di uno spettacolo che poteva contare sulla leggerezza dell'impianto scenico di Manuela Gasperoni, sui costumi fantasiosi ed eleganti di Maria Filippi, sulle luci di Fabio Rossi, sulla vitalità dei recitativi accompagnati da Gianni Fabbrini e rivissuti con gusto. Nel più puro e intelligente divertimento, non sono mancati spunti di riflessione, come la crescente solidarietà fra le tre donne – Lisetta, Doralice e Madama La Rose – il cui passaggio da versi fatui come “Viva l'amore | Viva il bel tempo | Viva la moda | viva il piacere” alla rivendicazione della propria indipendenza e autodeterminazione culmina, nella grande aria della ribelle Lisetta “Eroi li più galanti”, nella proclamazione della libertà e dignità di ogni amore, con bandiera arcobaleno e tableau nuziale fra Doralice e La Rose. Senza stridere con il matrimonio della prima con Alberto e la girandola di cicisbei evocata dalla seconda, tutto assolutamente naturale e non pretestuoso, come è l'amore in ogni sua forma autentica.

Il provocatorio interrogativo recato nel finale da Tommasino (“Con la cultura si mangia?”) ci permette, poi, di rinnovare la solidarietà agli artisti di coro e orchestra del Comunale di Bologna, qui impegnati, e a tutti i loro colleghi che si son trovati o si trovano alle prese con incertezze di contratti e stipendi.

Dal punto di vista artistico, invece, ci troviamo a ribadire l'impressione suscitata già nella Gazza ladra: bene il coro (qui solo maschile), meno in forma l'orchestra, non sempre precisa. Sul podio c'è Enrique Mazzola, forte di una verve ben calibrata, di uno spirito sempre ficcante, di dinamiche studiate con attenzione e ispirata dedizione alla causa.

Il cast, d'altra parte, risponde con una fonte gioiosa di fresce sorprese. Che Nicola Alaimo abbia un'innata simpatia e un ottimo potenziale per la commedia non dovrebbe stupire, ma dopo averlo applaudito sempre a Pesaro come Guillaume Tell [leggi la recensione delle recite e del DVD], ritrovarlo nei panni di un irresistibile Don Pomponio Storione può sortire un effetto dirompente. Uscire dalla specializzazione dei buffi per cercare semplicemente un cantante che sia attore a tutto tondo nel dramma come nella commedia può, infatti, permettere di liberarsi dagli stereotipi e apprezzare appieno una lettura personale e divertita, sentita e spassosa come questa.

Vito Priante gli si affianca come spiritato, guizzante e arguto Filippo, davvero un altro piacere tutto da godere in teatro per l'intelligenza con cui il personaggio è delineato e la parte fraseggiata. L'estensione non sarà epocale, ma quando si canta con gusto importa davvero poco se qualche nota estrema conta dei decibel in meno.

Detto che Andrea Vincenzo Bonsignore mette ben a profitto un Monsù Traversen mai così ben valorizzato (ma sarà innamorato più di Doralice o di Alberto? Da bravo dandy enigmatico cela bene gli indizi) e che Dario Shikhmiri rende con efficacia il ruolo di Anselmo, la più bella sorpresa ci viene da Maxim Mironov. Lo ricordavamo giovanissimo e acerbo, nove anni fa, al suo debutto pesarese nell'Italiana in Algeri (l'anno prima Libenskof con l'Accademia) e avremmo potuto temere impegni precoci, rapido e prematuro avvizzimento dei mezzi. Invece Mironov ha saputo studiare e aspettare e quel ragazzo che ci lasciò perplessi allora oggi è un artista giovane e maturo che ci suscita un applauso caloroso per l'intelligenza musicale dimostrata. Il vibrato un tempo fastidioso è ora, al più, caratteristico; l'efebo si è fatto intrigante e sofisticato; la facilità in acuto e il colore limpido della voce hanno trovato anche ombreggiature e spessori insospettabili agli esordi; l'interprete dimostra di voler fare teatro in musica, fraseggiare, dar senso al canto. Bravo davvero.

Affiatatissimo e agguerrito anche il terzetto femminile: proviene dall'Accademia Rossiniana 2014 [leggi la recensione] la Lisetta di Hasmik Torosyan e c'è ancora tempo per sviluppare al massimo voce e personalità, per accumulare esperienza, ma appare già disinvolta e pepata come la parte richiede. Raffaella Lupinacci, Doralice, è risoluta a non apparire semplicemente una seconda donna, e ci riesce con la collaborazione e non con la prevaricazione. José Maria Lo Monaco coglie bene una sfumatura di ambiguità che nell'emancipata Madama La Rose certo non guasta.

Alla fine applausi, applausi e ancora applausi per tutti, fino a un prolungato battimani ritmato. Chi se lo sarebbe immaginato per la povera Gazzetta, tramandataci fino a pochi anni fa monca e acciaccata? Un miracolo? Non inaspettato, però. Semplicemente il potere dell'amore per Rossini fra gli studiosi, gli interpreti, chi il Rof lo organizza, lo realizza, lo applaude.

foto Amati Bacciardi