Effetto Déjà vu

 di Giuseppe Guggino

 

Pieno successo di pubblico per una Bohème di routine messa in scena a Palermo, alla presenza delle prime due cariche istituzionali. Convince pienamente Maria Agresta come Mimì e la prova dell’orchestra. Desta più di qualche perplessità l’allestimento sotto il profilo sia  artistico sia gestionale.

Palermo, 18 settembre 2015 - Nelle intenzioni della programmazione iniziale questa Bohème, dopo il Ballo con la regia ripresa da Gasparon, doveva essere il secondo pannello di un omaggio a Pierluigi Samaritani con la riproposizione dell’antico allestimento di proprietà del Bellini di Catania; omaggio evidentemente concepito con scarsa convinzione, giacché alla prima occasione il Teatro Massimo ha invece voluto regalare al suo pubblico il brivido della sorpresa di un’altra produzione, parimenti tradizionale, in sintonia con la politica culturale della città disegnata su misura del vacanziero crocerista a cui offrire, come pendant del titolo di repertorio, l’immancabile girandola di festival e sagre paesane (dal gelato alle frattaglie) e la folkloristica passeggiata in carrozza, tra l’ormai tipico olezzo di sterco equino che esala dallo sterminato oceano ippico-pedonale cittadino.

Diciamo da subito che Maria Agresta è una bellissima Mimì, Giorgio Berrugi non avrà né voce grande (ma bella) né grande precisione ritmica (anzi, la propensione a molte licenze di solfeggio!) ma è un Rodolfo plausibile. Il terzetto di Simone Del Savio (Schaunard), Vincenzo Taormina (Marcello) e Gianluca Buratto (Colline), in ordine di bravura, si disimpegna nel canto di conversazione ponendo l’accento più sul secondo sostantivo. Bene Marco Camastra che, una volta tanto, risolve nel canto i due ruoli caricaturali e bene anche la Musetta di Lana Kos, dal timbro molto corposo. Molto bene pure l’orchestra guidata da Pier Giorgio Morandi, capace di far ascoltare grandi frasi dopo un inno di Mameli - per la verità - non molto degno delle prime due cariche dello Stato; un po’ meno bene i cori, anche perché gravati da un secondo quadro troppo caricato di indicazioni registiche stucchevoli.

Abbastanza male, invece, l’allestimento del tandem Mario Pontiggia e Francesco Zito, che sollecita inevitabilmente l’effetto déja vu per il fatto di essere ipertradizionale (cosa di per sé non disdicevole) sebbene risulti caricato di tanti siparietti di gusto non eccelso (i quattro nel primo atto sono assai volgarotti per essere filosofi, musicisti, poeti e pittori, e Musetta sarà anche disinibita ma non al punto da involarsi sotto gli occhi di Marcello col primo gendarme di passaggio al finale terzo) e presenti l’inspiegabile sorpresa di trasformare la soffitta al quarto atto in una sorta di attico con tanto di vasi per margherite primaverili, con inquilini dagli abiti poco bohémien, anzi invero assai imborghesiti. Il déja vu è dovuto anche al fatto che l’allestimento, prodotto dal Maggio Musicale Fiorentino per l’abortito festivalino “Recondita armonia” (nonostante all’epoca il MMF possedesse una Bohème di un tal Jonathan Miller, realizzata un paio d’anni prima, ma evidentemente inane a fronte di questa) è visto e rivisto. Per carità la riproposta si può anche tollerare una tantum, il punto è che la Fondazione, avendo optato per l’acquisto anziché per il semplice noleggio (un affaire Pereira in sedicesimi, giacché l’attuale sovrintendente di Palermo era il sovrintendente che produsse l’allestimento), quindi avendolo pagato presumibilmente dalle tre alle cinque volte il costo di un noleggio, dovrebbe infliggerlo dalle due alle quattro volte nel prossimo futuro per giustificare la spesa, salvo voler incorrere nel predicozzo usualmente bonario che la Corte dei Conti scrive in questi casi. Né l’effetto déja vu si ferma qui poiché l’episodio ci riporta alla mente il lontano 1999 quando, per coincidenze dispettose dei corsi e ricorsi, si ritrovavano nello stesso teatro lo stesso sovrintendente, direttore e regista per un Otello che si decise di acquistare (in luogo dell’iniziale previsto noleggio), facendo così schizzare a un miliardo e 696˙390˙749 Lire la voce di bilancio per sole scene e costumi (che comprendeva anche il noleggio di un Wozzeck da Venezia, di un Onegin da Bologna e di un dittico schubertiano dal Rendano di Cosenza). E speriamo che qui si fermino le reminiscenze del passato, ché quell’era si chiuse con un’esposizione debitoria di ventisei miliardi di lire ancora oggi scontata.

Prossimo appuntamento a Palermo con il déja vu per Die Zauberflöte il mese prossimo.