L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nato sotto maligna stella

 di Roberta Pedrotti

Anche al netto dei problemi derivati dalla girandola di tenori prennunciati nei giorni scorsi per il ruolo di Otello, sono troppi i problemi che gravano su questa inaugurazione del Festival Verdi 2015. E il loggione torna a farsi sentire.

PARMA, 01/10/2015 -  Si risveglia il leone del Loggione di Parma, pian piano prende vita e vigore mentre l'atmosfera in sala si raffredda. E se non è Verdi sulla scena a scaldarci il cuore, almeno ci risolleva trovare un po' di solidarietà nella passione loggionistica che ancora si esprime schiettamente, senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno a un patriarca del teatro lirico come Pierluigi Pizzi, che incassa una cospicua dose di contestazioni a tributo di una colossale caduta. Perché, piaccia o meno, Pizzi è un indiscutibile esteta della scena, un maestro specializzato in composizioni e accostamenti cromatici che ora si scopre, incredibilmente, capace di generare il brutto. Un brutto che sembrava totalmente alieno dalle sue corde, anche nei momenti meno ispirati della sua carriera, e che qui si palesa radunando toni di bianco, giallo, rosso, marrone e viola squillanti a fare a pugni nelle tuniche e nei manti del coro. Si palesa in assembramenti di dejà vu piuttosto incoerenti fra loro, con Otello perennemente scalzo e nei medesimi panni che vestì Chris Merritt nel 1988 nell'omonima opera rossiniana fra vari costumi che ci rammentano Orbazzani, Anne Erisso, Amenaidi. O con un piano declinante – che costa al soprano un bel ruzzolone nel secondo atto – e in riminiscenza di geometrie classiche ridotte a tristi combinazioni di cubetti e moduli squadrati come in un modellino razionalista, o un gioco di costruzioni, eco avvilita di ben altri esiti. Il coro simula qualche movenza convenzionale (difficile definire tale il contributo di Gino Potente dichiarato in locandina come “movimenti coreografici” per cinque modesti tersicorei) attento a non uscire dallo spazio destinatogli per non infastidire l'azione tutta pose plastiche e libere iniziative, con troppo pochi spunti originali e anche fra questi troppe soluzioni risibili.

A un regista figurativo e illustrativo come Pizzi, come lui pittorico e classico, poi, è difficile lasciar passare una serie di errori evidenti, piccoli o grandi che siano: come può, per esempio, Cassio giocherellare, osservare e commentare il fazzoletto di Desdemona dialogando con lei “sotto le fronde” e poi non riconoscerlo nel “miracolo vago dell'aspo e dell'ago” ritrovato in casa? Come può la perennemente scarmigliata Desdemona, sempre in camicia da notte e fazzolettone in mano, chiedere a Emilia “mi disciogli le chiome” se non ha mai portato nemmeno il più misero dei fermagli?

Il loggione ruggisce anche contro lo Jago di Marco Vratogna già a scena aperta (“il fazzoletto” nella prima scena del terz'atto è accolto da un autentico boato di disapprovazione). Non era piaciuto otto anni fa, quando aveva proposto agli insoddisfatti parmigiani un vilain che nulla risolve nel canto, piuttosto fibroso, e costantemente si rifugia in un parlato grottesco, caricaturale, in un sussurro involgarito che con le indicazioni verdiane non ha davvero nulla a che fare. Nulla è cambiato, nulla.

E ruggisce contro Desdemona, quell'Aurelia Florian che Parma aveva adottato, e un tantino sopravvalutato, quale Lida nella Battaglia di Legnano(2012) e Amalia nei Masnadieri (2013), e che ora si presenta in un ruolo, tutto sommato, assai meno esigente sul piano strettamente vocale in condizioni davvero preoccupanti. Emissione velata, timbro opaco, un affaticamento che pregiudica il legato e la stessa udibilità perfino nella prima scena del quarto atto, quando non si può dire che l'orchestra assuma spessori insormontabili; soprattutto, però, è la musicalità a fallare, è il gusto a mancare in sgradevolissime aperture veriste nel petto e nel parlato, tanto più fuori luogo quanto si sposa a una vocalità precocemente invecchiata, senza bagliori almeno di fascino, d'una qualche sontuosità che compensi la caduta di stile.

La clemenza è più per Rudy Park, e si capisce bene il perché: questo Otello è nato sotto maligna stella, ha visto prima svanire l'annunciato Jago di Roberto Frontali, poi, a una settimana dal debutto, Roberto Aronica ha rinunciato all'attesa prise de rôle parmigiana, inizialmente sostituito in locandina da Lance Ryan, poi dal tenore coreano sopraggiunto direttamente per la generale. Date le condizioni dell'esordio repentino non si può davvero infierire troppo su una musicalità fin troppo squadrata ma non per questo precisa o esente da arbitrii, su un personaggio assente o visto attraverso la sola definizione di “selvaggio” datane da Jago (prospettiva non proprio affidabile). Conoscendo però da anni questo colosso tenorile coreano, in carriera anche italiana almeno dal 2011, i limiti non ci sorprendono, non ci stupisce la facilità nell'acuto e la brunitura del timbro, ma ci spiace l'impoverimento della voce, la riduzione del volume, dello squillo e della proiezione dovuta all'impegno intenso e prolungato in un repertorio assai esigente contando più sulla fibra che sulla tecnica (e i suoni indietro oggi pesano: anche se il patrimonio, come la resistenza, possono essere ancora cospicui i problemi si fanno sempre più evidenti).

La maligna stella getta i suoi influssi negativi anche sulle parti di fianco, graziate dai ruggiti del loggione: Manuel Pierattelli, Cassio, s'ingolfa nel passaggio e si stanca presto, già nel Brindisi la voce sembra aver esaurito le risorse e l'attore è decisamente inerte; Stefano Rinaldi Miliani non ha altro da offrire, ormai, a Montano, che la sua lunga esperienza, difficile da mettere a frutto in parte simile; Gabriella Colecchia è una Emilia abbastanza scomposta e stridula; Matteo Mezzaro si distingue almeno per una voce fresca che gli permette di rendere Roderigo un più che credibile rivale di Cassio; Romano Dal Zovo, Lodovico, completa il cast con l'Araldo di Matteo Mazzoli.

Nessuno si spella le mani, ma nessuno nemmeno ruggisce contro il podio, per quanto Daniele Callegari abbia le sue belle responsabilità sulla resa complessiva, se non altro perché la Filarmonica Arturo Toscanini e il Coro del Regio (sempre guidato da Martino Faggiani, con le voci bianche Ars canto “Giuseppe Verdi” preparate da Gabriella Corsaro) non son certo composti da sprovveduti ed è inutile ribadire le qualità fatte valere in tante occasioni, mentre oggi paiono sfasati, anche all'interno delle singole sezioni. Il fatto che tutti i solisti solfeggino alla meno peggio senza badare a gestire il fiato in relazione alla frase musicale, al senso di quel che stanno cantando sottintende o una formidabile congiunzione di sventure o un lavoro di concertazione del tutto insufficiente, anche al di là del continuo gioco di rincorsa fra voci e strumenti. In tanta approssimazione, non stupisce che la lettura sia superficiale, appesantita, sovente goffa, sempre lontana dalle altezze siderali di questa partitura perfetta e complessa.

Con l'amaro in bocca usciamo in una Parma già autunnale, sotto una pioggerellina stizzita. E speriamo in un avvenire migliore, in cui la voce del loggione non sia costretta a masticare amaro e farsi sentire sdegnata, ma possa tributare giusti allori. Verdi, il Regio, il pubblico lo meriterebbero.

foto Roberto Ricci


 

 

 
 
 

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