L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Scene ed equivoci di Bohème

 di Andrea R. G. Pedrotti

 

Luci ed ombre per la produzione inaugurale della stagione lirica 2015 del grande di Brescia: se piace senza riserve la bella concertazione di Giampaolo Bisanti, non convince la messa in scena di leo Muscato, che non coglie lo spirito del dramma pucciniano. Cast alterno, in cui si apprezza la Mimì di Mariateresa Leva ma si nota anche l'acerbità tecnica del Rodolfo di Matteo Lippi.

Brescia, 4 ottobre 2015 - Sono passati diversi anni dall'ultima rappresentazione della Bohème e rammentiamo come la regia di allora, firmata da Francesco Micheli, fu assolutamente godibile, forse troppo didascalica, ma pienamente conforme al dramma. La bohème è uno dei tanti esempi della tragedia che può essere suscitata nella tempesta dell'animo di ognuno di noi, se non viene tenuto a freno l'impeto dirompente della passione. Dramma senza tempo, dramma senza epoca, dramma di rapporti umani che può essere trasposto in ogni tempo senza che la sua efficacia venga meno. Opera di sentimento, che, tuttavia, individua con chiarezza l'epoca in cui vissero i protagonisti (ci riferiamo al richiamo a Luigi Filippo d'Orléans nel primo quadro), ma è anche l'opera che per tradizione, che altro non è se non un'assimilazione dell'abitudine, viene spostata dal 1830 all'epoca di composizione, cioè il 1896. Scènes de la vie de bohème di Henri Murger è un piccolo squarcio, quasi una curiosa intrusione, nell'animo dei giovani studenti parigini della prima metà del XIX secolo.

Il capolavoro di Puccini potrebbe essere affrontato in molti modi ed è in grado di offrire una moltitudine di spunti all'intelletto del regista che si accinga ad affrontare parole e musica fra le più struggenti e passionali di sempre. Leo Muscato, che firmava l'allestimento bresciano, nato per lo Sferisterio di Macerata, è riuscito nella difficile impresa di non cogliere nulla o quasi della profondità della Bohème. Difficile immaginare un'altra regia tanto avara non solo di idee o, addirittura, di estro, che facesse sua cifra caratteristica la completa incuranza delle indicazioni, intese e sottintese del libretto di Illica e Giocosa. Il primo quadro è ambientato, almeno a giudicare dalla foggia dei costumi, negli anni '80 del XX secolo: una stanza scarna, con pochi elementi d'arredo ammassati, fra i quali un letto a castello (la camera sembra un'unica camerata, i protagonisti sono quattro, ma i giacigli solo due), un bidone decorato dal pittore Marcello a funger da camino, alcune scatole di legno e una macchina da scrivere, utile a trasformar in codice immortale i versi di Rodolfo. Fin qui tutto nell'ottica di una banale normalità, i movimenti scenici sono poco curati e i personaggi caratterizzati in maniera superficiale, abbandonati alla personalità e alle intuizioni espressive del singolo. Mimì incontra l'amato Rodolfo cinta da un verde camice, con lo stemma di una fabbrica, che poi si scoprirà una fonderia nel terzo quadro. Questa è una, forse l'unica, immagine conforme al dramma: Mimì era una grisette e spesso queste fanciulle praticavano il mestiere di ricamatrici o, appunto, operaie. Il duetto “O soave fanciulla” è capace di commuovere l'animo più arido fin dal primo attacco orchestrale, ma la recitazione degli interpreti rasenta la forma concertante; rasenta perché in un concerto sarebbero più liberi di esprimersi che non nella regia di Muscato. Per non parlare degli attimi immediatamente precedenti, quando la chiave della camera di Mimì viene celata alla giovane solo per pochi istanti, mentre sarebbe parso più sensato riconsegnare l'oggetto nel corso del duetto sovracitato.

Completamente privo di costrutto il secondo quadro: il caffè Momus diventa un ritrovo di giovani dall'estrazione sociale variegata, mescolati fra cubiste, riferimenti a sostanze stupefacenti e costumi che variavano da rimembranze da Drive-in, per passare da rockettari anni '70, stile Queen, fino al disordine degli anni '80. Nessun senso e molta confusione, con Mimì ad amoreggiare danzando con un buffo personaggio in abiti da direttore circense. Poco scavo anche nel personaggio di Musetta, vestita da diva cinematografica, circondata da alcuni protettori e sguardi eroticamente sognanti in quantità inversamente proporzionale al fascino e al carisma che sprigionava verso la sala la caratterizzazione di quella che dovrebbe essere la voluttuosa e frizzante amante di Marcello.

Il disordine lascia spazio allo sconforto, quando la scena si chiude con un generale “urletto” di coro e interpreti.

Il terzo quadro, purtroppo è stato solo il penultimo gradino della china discendente che ci avrebbe portati all'esiziale finale... Ma andiamo con ordine: siamo ora fuori da una fabbrica occupata (e questo non tiene conto del fatto che i giovani studenti bohèmien non appartenevano certo al proletariato), dove non abbiamo nessun accenno visivo al rigore invernale, le due coppie non sono affatto messe a confronto fra loro dalla regia, facendo così venir meno il languido, struggente e passionale rapporto fra Mimì e Rodolfo, contrapposto al sanguigno e carnale legame fra Musetta e Marcello, che avrebbero dato sfogo ai loro istinti in una piccola tenda, su finire del quadro.

Siamo al finale: i quattro studenti sono sfrattati da Benoît e stanno raccogliendo le loro cose, quando Musetta telefona da una clinica\sanatorio religioso per annunciare il ricovero di Mimì, che entra in scena circondata da un luminare dell'arte medica, due infermiere e una suora (non si può dire le mancasse assistenza specializzata). Il letto della ricamatrice è quanto di più moderno e funzionale si possa desiderare, confortevole, e con a disposizione tutti i migliori filtri che la più alta farmacologia di ogni epoca abbia fornito all'umanità. Tranne i due protagonisti, gli altri interpreti sono posti a sedere in una stilizzata sala d'aspetto, il precedentemente nomato luminare giunge sul posto a decretare il decesso di Mimì, prima che Rodolfo venisse lasciato solo in proscenio. Tutto questo è riuscito a svilire la magia di uno dei capolavori assoluti della storia non solo della musica, facendo venire meno la commozione, persino a chi sta scrivendo questo resoconto.

Conformi al resto dell'impianto registico i costumi di Silvia Aymonino, le scene di Federica Parolini e le luci di Alessandro Verazzi.

Luci ed ombre, al contrario, sul piano musicale. Migliore del cast certamente la Mimì di Maria Teresa Leva, la quale, a fronte di alcune fissità nell'emissione delle note più acute, si distingue per una rimarchevole interpretazione scenica, con la giusta malizia nel primo quadro e bel fraseggio nel prosieguo dell'opera. Degne di nota alcune efficaci mezzevoci e alcune preziosità nel canto legato.

Tutt'altra impressione il Rodolfo di Matteo Lippi, che mal proietta il suono, palesando notevoli problemi tecnici, specialmente nello squillo, e portando perennemente la voce indietro nel registro acuto. Questo a scapito di un bel mezzo naturale, che non necessita di alcuna forzatura per giungere allo spettatore, nonostante il suono poco limpido. L'intonazione non desterebbe preoccupazioni, se non fosse oer una tendenza frequente a calare. Il fraseggio è piatto e il personaggio non appare in nessuna delle sue sfaccettature, nemmeno quelle più evidenti. Sconcertante come vengano rese prive di trasporto frasi come “Mimì, tu più non torni, o giorni belli...”.

Larissa Alice Wissel (Musetta) è dotata di di voce squillante, ben messa e omogenea nei tre registri, ma la resa scenica e interpretativa è notevolmente anonima, gli accenti sono poco curati e la frizzante insolenza della riottosa amante di Marcello non traspare, lasciano deluso l'ascoltatore. Non convince nemmeno la prova di Sergio Vitale (Marcello), poco partecipe scenicamente e spesso coperto dai colleghi nelle scene d'assieme. Bene il Colline di Alessandro Spina, che interpreta con precisione ed espressione l'aria “Vecchia zimarra”.

Completavano il cast Paolo Ingrasciotta (Schaunard), Paolo Maria Orecchia (Benoît\Alcindoro), Daniele Palma (Parpignol), Mattia Rossi (un venditore ambulante), Eugenio Bogdanowicz (sergente dei doganieri) e Victor Andrini (un doganiere).

Molto bene in coro, preparato da Antonio Greco e i ragazzi delle voci bianche, sotto la guida di Hector Raul Dominguez.

A salvare il pomeriggio è stata la precisa ed espressiva bacchetta di Gianpaolo Bisanti, che ha consentito all'orchestra dei Pomeriggi Musicali di esprimersi al meglio delle proprie possibilità. Molto belle alcune scelte interpretative capaci di conferire uno scavo originale all'intensità del fraseggio strumentale. Fra le altre, veramente pregevole la scelta di attenuare al massimo l'impeto dei professori in buca, senza perdere mordente, nel meraviglioso duetto del quarto quadro fra Mimì e Rodolfo.

Al termine convinti applausi per tutti e un arrivederci al prossimo appuntamento con Le nozze di Figaro.

foto Reporter Favretto


 

 

 
 
 

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