Mahagonny non è ancora perita

di Stefano Ceccarelli

L’ultima opera a porre il sugello a questa interessante e varia stagione del Teatro dell’Opera di Roma è Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny su musica di Kurt Weill e libretto di Bertold Brecht. Sorella di I Was Looking at the Ceiling in un dittico tutto contemporaneo, rappresenta la volontà di sperimentazione del teatro, che aprirà la prossima stagione con un titolo egualmente novecentesco: The Bassarids di Henze. La regia di Graham Vick è il vero fiore all’occhiello dell’Aufstieg. Il cast dei cantanti è ottimo; la direzione di John Axelrod buona. L’opera è in coproduzione con La Fenice veneziana e il Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia.

ROMA, 8 ottobre 2015 – Il Teatro dell’Opera di Roma sceglie di chiudere la stagione operistica 2014/2015 con un titolo del Novecento, a dittico con lo scorso I Was looking: si tratta di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, opera nata, con lunga e sofferta gestazione, dal seme dei due congiunti geni Bertold Brecht e Kurt Weill. Opera certamente singolare, dalle tematiche affascinanti, che conquista anche per la bellezza della musica, non di rado indulgente in un qualche melodismo, Aufstieg è una disincantata metafora utopica, ma d’un’utopia negativa, sul mondo tra le due guerre. In Aufstieg, infatti, «il male non è visto nel suo profilo subiettivo, cioè come manifestazione della prava (e libera) volontà di un singolo, ma come frutto inevitabile d’un sistema: altrettanto vizioso nelle sue premesse come nelle sue condanne» (F. D’Amico dal programma di sala). Un male strutturato, ancor più terrifico giacché esperito da un manipolo di delinquenti sotto lo specchio delle allodole di una città di piaceri, Mahagonny.

Ci voleva un autentico genio come Graham Vick per conferire giustizia a quest’opera non certo convenzionale: Vick sposta tutta l’azione alla nostra contemporaneità, in un calibrato crescendo di eccessi trash che, passando (anzi trapassando) per gironi danteschi del peccato, giunge a una conflagrazione finale in cui si mescolano piani temporali e morali, inevitabilmente inestricabili, anzi fagocitati in un bolo indigeribile, che può trovare solo una via d’uscita nello sfondare la quarta parete del teatro. Le scene (Stuart Nunn) sono di rara sintesi, coniugata ad altrettanta efficacia registica: la scena è incastonata in un’impalcatura asettica, neutra, che ricorda le strutture aeroportuali. Cartelli stradali e ulteriori elementi effimeri vengono aggiunti di volta in volta. I costumi sono assolutamente contemporanei, con un chiaro intento trash. Mahagonny è marcatamente caratterizzata come la città utopica che accoglie il diverso; e per Vick il diverso è: lo studente black-bloc spiantato; il prete che non vede l’ora di togliersi l’abito talare per baciare il proprio ragazzo, o quello che ha fretta di mostrarci la sua passione per gli abiti succinti da donna; un gruppo di aitanti prostitute pronte a tutto pur di sbarcare il lunario; curiosi di ogni tipo ecc. Chi più ne ha più ne metta. Insomma: tutta la diversa umanità, l’irregolare, l’anti-borghese. La trasposizione contemporanea di Vick prevede che le tipiche didascalie brechtiane vengano officiate dalla varia umanità studentesca, sempre in movimento, sempre in subbuglio, sempre in lotta al sistema (e quindi a Mahagonny: peccato che proprio Mahagonny sia un bel nero petit-sistema): reporter, ragazzi in jeans strappati con megafono ecc. ci informano dei nodi concettuali della trama. Alcune scene sono assolutamente indimenticabili. L’arrivo di una pittoresca umanità all’aeroporto di Mahagonny, come ho già ricordato, propone una carnevalesca sfilata, efficacissima a connotare Mahagonny come città dei reietti, degli scarti della borghesia, di quelli delle istituzioni. La scena dell’Hotel del Ricco, dove Vick ci propone uno spassoso tableau vivant con tutti i mahagonniani in candido accappatoio pronti per un aperitivo chic davanti alla piscina, con tanto di pianista, è un’espressione di tronfio edonismo: la calibrazione di ironia, abiezione morale e trash è riuscitissima. Per non parlare delle scene susseguentesi, a mo’ di girone dantesco, nel II atto: la morte di Jack rimpinzato a dovere, che si diverte a penetrare nelle viscere di un’enorme finta mucca appesa al soffitto; il bordello dove si accalcano rappresentati di ogni autorità (politici, ecclesiastici, uomini d’affare) che sfruttano a tal punto le malcapitate meretrici da farne collassare al suolo una, nell’indifferenza dei clienti che urinano tranquilli e incuranti. (È una delle più forti rappresentazioni di violenza gratuita che mi sia capitato di vedere in teatro: Vick non lesina certo nel suo Aufstieg scene forti, sessuali, violente, che stuzzichino lo spettatore facendogli scorgere quanto maculata sia la moralità, o più limpida l’amoralità, secondo il ben noto adagio pasoliniano del diritto all’essere scandalizzati). Anche la scena finale del II atto, con l’ubriaca veleggiata di Jim, Bill e Jenny verso l’Alaska, l’elegiaco altrove sovente invocato nell’opera, è magistrale e d’effetto. Ma veri coup de théâtre sono la scena dello squallido processo di Jim, una farsa televisiva ad uso e consumo dei mass media, con risvolti umanamente tragici, dove lo scranno del giudice è un ventaglio di banconote, il tavolo degli imputati una postazione da quiz televisivo e la statua bendata della Giustizia è tutta rosa, icona di plastificato degrado. Ma ancor più forte è la pseudo-apparizione di Dio (in realtà Moses con una maschera) in un’atmosfera alla David LaChapelle. Il finale – tutti sono disillusi, invecchiati, consunti nello spirito prima ancora che nel corpo – rappresenta una fortissima rottura della quarta parete, con il coro che irrompe nel teatro e striscioni che calano dagli spalti della galleria e dei palchi laterali: Mahagoony, la Babilonia della contemporaneità, un’idra più vicina alle nostre vite di quanto l’utopia negativa non ci induca a credere, è involta fra le fiamme. Ma non è morta: forse non morirà mai finché vivrà il male nell’uomo.

Il cast dei cantanti è ottimo. Spiccano certamente la Leokadja Begbick di Iris Vermillion, un mezzosoprano dalla voce limpida, ma all’uopo cavernosamente brunita, che ha il perfetto allure del ruolo; il Fatty di Dietmar Kerschbaum, ma soprattutto il Dreieinigkeitsmoses di Sir Willard White. La celebre aria «Oh! Moon of Alabama» è gagliardamente interpretata da Measha Brueggergosman, nel ruolo di Jenny, che canta e recita bene tutta la parte. Molto delicato il duetto d’amore di lei con Brenden Gunnell, che ci regala un Jim Mahoney energico, vocalmente centrato – la sua emissione vibratissima, a tratti quasi sfibrantesi, dona l’impressione di un personaggio perennemente sull’orlo di una crisi di nervi. Ottimi i comprimari: Christopher Lemmings (Jack O’ Brien e Tobby Higgins), Eric Greene (Bill) e Neal Davies (Joe). L’orchestra dell’Opera di Roma è in gran spolvero: il suono è limpido, sicuro, sfumato nelle infinite maglie dell’orchestrazione di Weill. John Axelrod fa egregiamente il suo lavoro, con una partitura di certo non facile: solo in alcuni punti m’è risultato un po’ anemico. Complimenti alla performance del coro (Roberto Gabbiani) e del corpo dei mimi/attori assai ben preparati da Ron Howell.

Uscito dal teatro, non ho potuto non notare una non casuale affinità di Aufstieg con tanti tratti della commedia greca antica: l’ambientazione utopica della fondazione di una nuova città dai tratti dell’assurdo, l’evasione dalla realtà ecc. (si pensi agli Uccelli di Aristofane). Impressionante come un linguaggio così antico e pur così universale, come quello della commedia greca, possa essere il linguaggio perfetto per descrivere l’abissale imbarazzo dell’uomo post-bellico (anzi, meglio dire dell’uomo intra-bellico, fra le due guerre) nei confronti della Storia.  

foto Yasuko Kageyama/ Opera di Roma