Il corpo del Poeta

 di Roberta Pedrotti

A Reggio Emilia, in coincidenza con i quarant'anni dall'omicidio di Pier Paolo Pasolini, debutta l'ultimo frutto della collaborazione fra il compositore Mauro Montalbetti e il drammaturgo Marco Baliani. Corpi eretici, dramma musicale pasoliniano in nove canti è un capolavoro che sviluppa con delicatezza e profondità la dimensione intima e quella politica del Poeta, martire cantore sbranato e divorato dal mondo incosciente e irriconoscente.

REGGIO EMILIA, 1 novembre 2015 - Il teatro musicale è vivo, è vivo il teatro politico e civile. Lo avevamo visto con Il sogno di una cosa [leggi la recensione della prima assoluta], il capolavoro di Mauro Montalbetti e Marco Baliani sugli Anni di piombo, scritto per il quarantennale della strage di Piazza Loggia, lo ribadisce ora l'ultimo lavoro degli stessi autori: Corpi Eretici, commissionata dai Teatri di Reggio Emilia per celebrare altri quattro decenni da un altra tragedia, questa volta con un'unica vittima fisica, della nostra storia recente, l'omicidio di Pier Paolo Pasolini.

Pasolini, la sua vita, la sua arte, il suo pensiero e la sua morte sono temi vastissimi, complessi, che sembrerebbe impossibile condensare in un'ora e mezza di teatro senza cadere in qualche tranello, senza esser costretti a semplificare, a eludere o ad appesantire della zavorra del documentario o della speculazione.

Montalbetti e Baliani si inoltrano del labirinto con un filo d'Arianna ben saldo nelle mani, non cadono nella retorica, ma usa l'arte retorica, l'arte del dire, del sostenere un discorso politico nel senso più alto e autentico del termine senza trascurare la delicatezza dell'umana pietà nel volgersi alla figura pubblica e a quella privata del Poeta.

Il luogo dell'azione è il litorale di Ostia, lo stesso dove fu trovato ucciso, una spiaggia brulla, abbandonata a se stessa, fra copertoni, sanitari, spazzatura d'ogni genere. Lì si consuma la vita come la morte, si dilata l'istante della violenza, come se il momento del delitto comprendesse e in un istante facesse deflagrare tutta la poesia, la politica, la riflessione e il tormento, scatenasse un processo dialettico a catena nel quale i diversi piani della realtà, dell'arte, della carne, dell'astrazione, del desiderio, del dolore, del pensiero, del mito, del canto, dell'azione e della recitazione prendono forma concreta e interagiscono. Interagiscono, ed è quel che fa di quest'opera un vero dramma in musica e non saggio prosimetro, raccontando una storia, facendo teatro.

I ragazzi di vita giocano sulla spiaggia, prendono a calci dei giornali, fogli che non capiscono che che affollano i loro spazi, una ragazza porta loro un pallone e si sviluppa la giostra ingenua dell'amore e della contesa. La musica è l'occhio lucido del poeta che idealizza quell'immagine, che ammira quell'energia pura prima ancora che la voce del tenore ne canti la fresca incoscienza, prima che l'attore dichiari la solitudine dell'uomo adulto che vorrebbe unirsi al loro gioco. Da quello sguardo il mondo della borgata prende forma, si idealizza, appare Mamma Roma, uno dei ragazzi è Ettore, la ragazza sarà Bruna; la donna canta la sua vita e la sua filosofia con una travolgente ballata. È Anna Magnani, non solo quella di Pasolini, ma anche quella di Risate di gioia, scatenata e disperata, fra riminiscenze d'avanspettacolo che fanno pensare anche al Nino Rota delle Notti di Cabiria, non a caso sceneggiata dal Poeta. Mentre la donna si dilegua il meccanismo che si è innescato prosegue furioso, gioioso, folle, i giovani sono saltimbanchi, la ragazza partorisce e culla il bimbo senza dramma, senza consapevolezza, senza responsabilità. Il Poeta, attore, s'incarna nel Corvo, che tenta di spiegare, di ricucire lo iato fra l'ideologia e la realtà, di toccare il nervo scoperto di un sottoproletariato privo di coscienza e preda del consumismo. Per tutta risposta viene sbranato vivo dagli stessi ragazzi cui offriva un riscatto, una maturazione politica. Riprende il gioco nella violenza, e dopo l'anima dell'Ideologia incarnata dal Corvo, è il poeta stesso a venir colpito, lasciato a terra.

La sua sofferenza, la sua solitudine, la lucida comprensione del divario fra reale e ideale, allora, tornano a informarsi artisticamente e dopo le creazioni simboliche di Mamma Roma e del Corvo, eccolo portare sul litorale squallido, nel vuoto incolpevole di questi ragazzini il Mito classico. Il Poeta, tenore, canta il dramma di Edipo, mentre il coro borgataro gli chiede salvezza ma ne aggredisce e denuncia la colpa. La colpa di un sesso irregolare che sovverte le convenzioni, su cui invano Giocasta invocava un pietoso, tenero oblio. L'eterno femminino si mostra materno e proteiforme, è l'amatissima madre, è parte dell'animo dello stesso poeta, è il mondo ideale, sano e protettivo in cui rifugiarsi, a cui tornare. È qualcosa di antico, ferito, in ogni sua forma, di prostituta romana, di regina greca, di maga barbara, infine, quando nei panni di Medea intona un disperato lamento sulla sacralità della natura e sull'innocenza perduta insieme con Chirone, nuova maschera (cantata) del Poeta. I giovani, fatti Argonauti, non capiscono, disprezzano: dall'incoscienza sono passati a un cinismo ancor più vuoto, all'azione senza pensiero, non alla maturità di un ideale ucciso smembrando il Corvo. Gli Argonauti si mettono in vendita, vendono i loro corpi, ma quel che con delicatezza Montalbetti e Baliani mettono in scena non è il mercato del sesso, non è solo una marchetta. Si vendono come corpi al potere, gettando via le anime. Giasone chiama i suoi “camerati”. Quella è la Roma nera dove sta nascendo la banda della Magliana, dove i giovani ricchi massacrano per gioco ragazze proletarie al Circeo, dove i giovani miserabili diventano carne da macello e manovalanza per chiunque ne voglia approfittare, anche per mettere a tacere il Poeta scomodo.

E rivediamo la scena del Poeta dilaniato, pestato, ricoperto di giornali, di avvoltoi che già in vita si erano accaniti su questa voce lucida e fragile, potente ed eretica, e che poi canteranno un requiem torbido, in cui i confini della verità saranno sempre offuscati. Baliani e Montalbetti con questa scena dicono tutto senza bisogno di dichiarare nulla, se non il dolore, il vuoto la solitudine, accarezzando con estrema delicatezza un amore e un desiderio che non si nascondono né si indagano morbosamente, rappresentando senza retorica o indagine didascalica, per arte più che per documentario, la realtà del movente, del contesto, della mistificazione. La realtà di un omicidio premeditato, commissionato e poi mascherato, perché come il Re Edipo, anche il Poeta ha a cuore la sua comunità, vede ciò che gli altri non vedono, mostra una via, ma è vilipeso e lacerato per una colpa che non è una colpa: egli è quel che è, così è nato e per questo la società lo ha condannato, perfino da vittima.

Il mondo tribale, fisico, che canta volgarmente in prosa ha ucciso se stesso uccidendo il suo poeta, i ragazzi, furiosi come le baccanti che dilaniano Orfeo, si scoprono seminudi, provano per la prima volta una forma di vergogna. Non avranno razionalmente capito, ma forse avranno sentito di essere Adamo ed Eva scaraventati nel mondo ostile e spietato. È morta la poesia. È morta una parte di loro, perché ogni personaggio di quest'opera è parte del corpo smembrato di Paolini, della sua visione del mondo e del rifiuto che quel mondo poneva (pone) al suo sguardo.

Anche l'orchestra tace, quell'orchestra lucida, sognante, scintillante, violenta, ora sguardo intimo e indagatore del Poeta, ora pura alienazione e incomunicabilità, teatro e vita. Resta il melos, il canto, a cappella, sul crinale sospeso fra Monteverdi e i giorni nostri, un compianto infinito, in cui Mamma Roma, già Giocasta e già Medea, somiglia alla Madonna Algerina fotografata nel 1997 da Hocine Zaourar. Si compone una sorta di Pietà naturalmente inserita in simbologia cristiana che, già nella struttura dell'opera in tre parti composte ciascuna di tre canti, va di pari passo con quella del Mito e fa parte dell'anima di Pasolini, ateo e profondamente, ferocemente attratto dal senso del sacro. Alla voce femminile si unisce l'eco tenorile dell'anima del Poeta, mentre il suo corpo giace informe fra sabbia e carta di giornali. E lentamente la musica si spegne.

Corpi eretici, però continua a vibrare nell'aria, come uno di quei testi di teatro musicale che avvincono dalla prima all'ultima nota, dalla prima all'ultima parola e che non cessano di far pensare e fremere anche una volta usciti dal teatro. Che lasciano un segno indelebile nella carne, nel cuore e nella mente. Resta una sorta di angoscia dolorosa, alleviata dal pensiero che se il Poeta è stato ucciso, non hanno del tutto vinto gli acquirenti del “vuoto a perdere” delle nuove generazioni di miserabili. C'è ancora chi sa fare arte, scrivere musica profonda, segnata da una coerenza stilistica interna che non le fa temere di sporcarsi le mani e di sembrare eclettica, soprattutto musica forte, salda, che si sposa a una parola scenica non meno potente, meditata, articolata, erede dell'arte del libretto d'opera, ché conosce tutte le regole del dire nel canto e sulla scena.

E c'è chi quest'arte la fa vivere con convinzione, dai committenti a tutti gli interpreti, perché Francesco Lanzillotta, a capo dell'Ensemble Icarus, ha la cultura, il talento, la sensibilità per mettersi totalmente e felicemente al servizio della partitura; perché Cristina Zavalloni si dà anima e corpo al canto femminile, con una voce che si è fatta più densa e graffiata, a tratti perfino lisa nel rendere il dolore e lo squallore dell'esistenza; perché il tenore Mirko Guadagnini non è da meno nell'esprimere l'introspezione discreta e ferita del Poeta. Perché Marco Manchisi ha il physique du rôle di un Poeta attore minuto e nervoso, potente e delicato e il gruppo di attori/danzatori, cui è chiesta anche una partecipazione corale non indifferente, è assortito come meglio non si potrebbe in una sintesi sorprendente fra bravura e aderenza fisica (pare di vedere, fra gli altri, Ninetto Davoli, Franco e Sergio Citti). Sono Chiara Taviani, Alessio Damiani, Liber Dorizzi, Massimiliano Frascà, Carlo Massai, David Marzi, Mirko Paparusso e Filippo Porro.

Perché, oltre che librettista, Baliani è un regista straordinario e lo spettacolo ha tutta l'incisività, il garbo e la fluidità che potremmo desiderare. Perché Carlo Sala ricrea ambienti e rivisita la moda d'epoca e i costumi originali dei film pasoliniani con un acume che sa rievocare con nettezza visionaria senza ricalcare passivamente in un quadretto oleografico.

Il teatro musicale è vivo, è vivo il teatro politico e civile. Ora cosa aspettano altre istituzioni a riprendere Corpi eretici e a dimostrare quanto ancora possano dare e dire al pubblico autori contemporanei come Montalbetti e Baliani?

foto A. Anceschi