L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il flauto senza incanto

 di Andrea R. G. Pedrotti

La messa in scena ideata da Mariano Furlani e Masbedo, registicamente rinunciataria, e la concertazione appesantita di Philipp von Steinaecker non giovano a una produzione in cui si fa pienamente apprezzare solo il Tamino di Leonardo Cortellazzi.

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VERONA 10/11/2015 - Emanuel Schikaneder fu, senz'ombra di dubbio, un grande dirigente teatrale, con le sue produzioni al Theater auf der Wieden prima, al Theater an der Wien poi. L'odierno ingresso artisti di quest'ultimo viene chiamato Papagenotor, a memoria della fama che l'esser stato autore del libretto di Die Zauberflöte gli diede e che, ingiustamente, le sue abilità di impresario non gli avrebbero dato. Sicuramente il nome del compositore ha aiutato a eternare un lavoro, che non si può definire sicuramente un capolavoro per quel che concerne un libretto letterariamente inconsistente, i personaggi completamente privi di sfaccettature e in cui permane lo stesso stato umorale dalla prima all'ultima nota: Pamina è languida, Tamino innamorato, la Regina della notte perennemente furente, etc…

Non esiste una compiuta struttura drammaturgica e i varii numeri della partitura sono tenuti assieme a fatica. Nella produzione, andata in scena al Filarmonico di Verona, a questo si è assommata una totale inconsistenza registica. Le proiezioni del primo atto poco o nulla hanno a che fare con il Singspiel di Wolfgang Amadeus Mozart, ma sembrano più uno sterile omaggio al Museo di Scienze Naturali di Verona, effettivamente ringraziato anche in locandina. Talvolta capita che delle immagini sullo sfondo abbiano un vago nesso con la trama, come l'apparizione di un grande flauto, anche se con le caratteristiche estetiche di quelli con cui abbiamo avuto la ventura di cimentarci nei verdi anni delle scuole medie. L'impianto scenico, se tale si può definire, può avere una certa utilità nella sua funzione di camera acustica, con tanto di  inutile pavimento translucido sull'utilizzo del quale ci siamo interrogati nel corso dell'intera rappresentazione. Nel secondo quadro capitava che si alzassero dei pannelli a funger da porte o a cercar di dare vanamente il senso di occulto nei tre templi che si apprestavano a ospitare le vicende di Tamino e Papageno. Non è andata sicuramente meglio nel secondo atto: per lunghi tratti viene posto un pannello con una salita, che sembra recare a una reggia. Non potremmo definirlo stilizzato, perché già gli conferiremmo personalità. È semplicemente mal realizzato e niente affatto funzionale. In quest'atto, e su questo sfondo, divampa la proiezione della fiamma che unisce Pamina e Tamino, con tanto di fastidioso crepitio registrato.

I movimenti registici sono appena accennati e ridotti al di sotto del minimo indispensabile.

I costumi sono conformi al resto dell'impatto visivo: Pamina, Tamino e Papageno, sono vestiti sostanzialmente allo stesso modo, ossia con un abito bianco e stivali scuri a metà polpaccio. Unica variante per loro, la scena finale (Tamino e Pamina), con degli indumenti ora differenziati nel sesso e più eleganti. L'uccellatore, invece, resta sempre abbigliato allo stesso modo, a eccezione d'un orpello, simile alla coda d'un pavone, nel momento della sortita. Tutti gli altri costumi sono inquadrati in un genereico Ottocento poco definibile.

Per quanto riguarda il versante vocale, migliore del cast è stato Leonardo Cortellazzi (Tamino): fra gli italiani presenti sul palco l'interprete dotato della pronuncia tedesca più corretta. Partecipata l'aria del primo atto “Dies Bildnis ist bezaubernd schön”. È l'attore che si disimpegna meglio, la voce non è grande, ma l'emissione sicura, con alcune belle sfumature e apprezzabile varietà di colori.

Ekaterina Bakanova è una buona musicista e non teme scenicamente il palcoscenico. Quel che le manca è la personalità che dovrebbe essere conferita dall'artista a un ruolo fra i pochi a consentire a un personaggio come Micaela della Carmen di Bizet di apparire come una ragazza decisa, risoluta e intraprendente. Purtroppo questa carenza si ripercuote sul fraseggio e la bella aria del secondo atto “Ach, ich fühl's, es ist verschwunden”, non fa trasparire lo struggimento della giovane per l'indifferenza dell'amato Tamino, da cui teme di essere persino scacciata. Anzi, il brano, eseguito con correttezza musicale, trascorre con un senso di tedio e l'interiorità dell'animo di Pamina resta tutta nel suo cuore.

Se per la Bakanova si è trattato solo di piattezza interpretativa (forse a causa della produzione), completamente negativa è stata la prova del soprano Daniela Cappiello, come Regina della Notte. Male nella prima aria “O zittre nicht, mein lieber Sohn”, con un volume assai modesto e un'espressione inesistente. V'era grande attenzione al pentagramma, forse in coscienza delle difficoltà ampiamente palesate durante l'interpretazione. Certo, entrare in scena su uno sfondo proiettato di vulcani e meduse (non domandiamoci che senso avessero, perché non lo avevano) poteva distogliere l'attenzione. Questo vantaggio è venuto meno in una disastrosa “Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen”. Persino il libretto sottolinea con decisione la furia della crudele madre. La Cappiello, anche qui, tralascia l'interpretazione per concentrarsi sulle difficoltà dell'aspetto musicale, evidenziando plateali mende nella gestione dei fiati e evidenti problemi in uno stentato registro acuto.

Non entusiasmante, ma corretto il Papageno di Christian Senn. Migliore nella recitazione piuttosto che nel canto, non è certamente un uccellatore indimenticabile, ma si disimpegna bene.

Bene il Sarastro di Insung Sim: bravo vocalmente, ma completamente immoto sul palcoscenico, forse per impostazione registica. L'aria “O Isis und Osiris” è eseguita con perizia, anche se in forma concertante. Brava anche Lavinia Bini, nei brevi interventi concessi a Papagena.

Completavano il cast l'oratore di Andrea Patucelli; il primo sacerdote/secondo uomo corazzato di Romano Dal Zovo; il secondo sacerdote/primo uomo corazzato di Cristiano Olivieri; la tre damigelle Francesca Sassu, Alessia Nadin e Elena Serra; i tre fanciulli (interpretati da ragazzi decisamente cresciuti) Federico Florio, Stella Capelli e Maria Gioia; il Monostatos di Marcello Nardis.

Fuori stile la concertazione di Philipp von Steinaecker, che parte male con un suoni grevi ed eccessivamente staccati fra loro. Alcuni assieme non vengono ben seguiti dal direttore che perde alcuni fra i soli. Le cose vanno migliorando nel prosieguo della serata, anche se la sua interpretazione di Mozart ci parrebbe più appropriata per una partitura di Richard Strauss.

Bene il coro, diretto, nell'occasione, da Andrea Cristofolini. Accadde anche in occasione di La Bohème dello scorso anno, con felici risultati. Se il complesso areniano non fosse sempre stato semplicemente schierato, forse l'occhio ne avrebbe giovato.

Numerosi gli artefici della produzione ideata da Mariano Furlani e Masbedo. Lo stesso Furlani è stato assistito per la regia e i costumi da Lorenzo Facchinelli, per le scene e i costumi da Giulia Coretti. I costumi erano firmati da Giacomo Andrico e Mariano Furlani. Per quanto riguarda il video le proiezioni erano a cura, per Masbedo, di Nicolò Massanza e Iacopo Bedogni, con le scenografie di Mario Torre, il montaggio video di Cristina Sardo, la produzione esecutiva di A.C. AreaVideo, 3D e animazione di Matteo Manzini e le luci (perennemente buie) di Paolo Mazzon.

Al termine applausi per tutti, senza punte di entusiasmo con diversi vuoti in palchi e platea. Non vorremmo apparire fissati con la galanteria, poiché l'episodio accaduto al Gala di Roberto Bolle (portare i fiori al ballerino e non alle colleghe) fu più grave, ma sarebbe stato corretto concedere l'ultima uscita a Ekaterina Bakanova e non al tenore, il quale, da par suo, rimedia presentandosi la seconda volta in proscenio per mano con il soprano.

Con questo titolo si conclude la stagione invernale 2014\2015, in attesa dell'inaugurazione di dicembre con La forza del destino di Giuseppe Verdi.

foto Ennevi/ Fondazione Arena di Verona


 

 

 
 
 

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