Dominare il destino

 di Andrea R. G. Pedrotti

Nonostante le difficoltà attraversate dalla Fondazione Arena e la defezione per indisposizione di ben due tenori nel corso delle prove, un cimento impegnativo come La forza del destino giunge al successo, per l'inaugurazione della stagione invernale, grazie alla concertazione potente e intelligente di Omer Meir Wellber e alla regia sobria di Pier Francesco Maestrini. Nei ruoli principali si apprezzano Hui He, Walter Fraccaro, Dalibor Jenis, Chiara Amarù, Gezim Myshketa e Simon Lim.

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VERONA, 13 dicembre 2015 - In un cupo clima, quasi londinese, si inaugura la stagione invernale della Fondazione Lirica Arena di Verona. Nel giorno dedicato alla cara Santa della cecità ci è consentito di vedere uno spiraglio nelle nebbie che avvolgono la terra di Capuleti e Montecchi.

Non era facile mettere assieme un'opera di grande repertorio come La forza del destino, la prima inaugurazione dell'era di Paolo Gavazzeni che necessitasse di grandi masse anche in un teatro al chiuso, molto più di Macbeth e sicuramente più di Don Pasquale e Lucia di Lammermoor. L'operazione è riuscita, grazie a una messa in scena funzionale e tradizionale, senza risultare stucchevole. Interessante l'idea di proporre la Sinfonia dopo il primo atto, che diviene una sorta di prologo. Questa prassi, più familiare alla Germania che non all'Italia, è, a nostro avviso, drammaturgicamente efficace: il primo atto è molto breve e funge da antefatto a una vicenda debole, retta solo dal conflitto psicologico fra vendetta, sacrificio, rimorso, gratitudine e struggimento. Le stanze del Marchese di Calatrava sono visivamente ben inquadrate nell'epoca che, secondo il libretto di Francesco Maria Piave, dovrebbe essere cornice di una trama priva di autentici riferimenti cronologici nei suoi significati interni. Il principio dell'atto è cheto ma dalla grande finestra, posta sul centro della scena, le nubi che si addensano, mostrano già a noi il dramma che sta per prender forma, un dramma non del tutto votato alla casualità: infatti Don Alvaro non getta a terra l'arma, mostrandosi inerte, ma lascia partire un proiettile quasi intenzionalmente, anche se nella confusione, all'indirizzo del petto del severo marchese sivigliano. Poi la sinfonia, accompagnata dalla proiezione di un grande occhio -lo specchio dell'anima- che rivive i sogni e le speranze della Leonora poi infrante dalla tragedia che si era consumata. Un doppio trauma, quello dell'allontanamento volontario dalla propria magione per seguire l'amato e la fuga dalla terra natia per sfuggire alla vergogna, al rimorso e alla vendetta del fratello, Don Carlo.

La seguente scena dell'osteria è più ariosa e dinamica, grazie al breve intervento intervento del corpo di ballo dell'Arena, che fa da contraltare all'unico difetto evidente della regia Pier Francesco Maestrini, ossia una eccessiva rigidità delle masse corali. Giunge Don Carlo a Hornanchuelos, pronto a giurar vendetta contro l'assassino del suo stesso sangue. Bella l'idea di porre una grande parete rocciosa, facilmente rimovibile, capace di rendere l'idea dell'oppressione della clausura monacale, tanto agognata da Leonora. Un piccolo spiraglio consente alla giovane Calatrava di essere annunciata al Padre guardiano, che si appresta a interpretare con lei il duetto “Più tranquilla l'alma sento”. Bellissimo finale secondo “Il santo nome di Dio Signore”, con il monastero che prende forma, seguendo ad arte la linea melodica dell'orchestra, con il coro posto in formazione quasi militare a imporre con sontuosa veemenza il nome del Signore. Le proiezioni seguono i dettami del libretto, ossequiando visivamente le immagini che vengono evocate da Francesco Maria Piave. Non esiste, ora, una proiezione sullo sfondo, ma la composizione cromatica avviene in proscenio. Per esempio “la vergine degli angeli” prende forma lentamente, quasi fosse un evocativo dipinto. Terzo atto dedicato allo strano ricongiungimento fra Don Carlo e Alvaro, alla guerra e alla vita militare. La scena della battaglia è ben pensata da Pier Francesco Maestrini, con un'idea quasi cinematografica dello scontro, con fiammate, colpi di cannone e confronti fra le milizie. Il duetto della barella è rappresentato in maniera didascalica, con Alvaro steso sulla stessa, ansante, a fremere nell'udire il nome dei Calatrava, dopo aver giurato eterna gratitudine all'uomo che, ora salvatore, aveva giurato d'essere suo carnefice. La conclusiva, per quel che riguarda il terzo atto, scena dell'accampamento è molto ben strutturata, a partire dalla sortita di Trabuco “A buon mercato chi vuol comprare?”, che introduce il coro “Nella guerra è la follia”. Prima del giungere di Melitone, e in bella consecutio drammaturgica, assistiamo alla dicotomia fra la spensieratezza e la guerra, fra gli orrori di morte e vendetta e le gioie dell'amore voluttuoso e trasgressivo. Molto riuscita la tarantella offerta dal corpo di ballo dell'Arena, che, come sempre, mostra la sua grande duttilità nell'eseguire generi diversi, tutti con precisione e professionalità. La coreografia di Zanella prevede delle coppie intente a confrontarsi in schermaglie niente affatto sentimentali, ma sensuali, in un corteggiamento che non ha mira differente dalla carne fine a se stessa. Anche questo è un dramma della guerra: lo svilimento del sentimento trascendente in attesa del trapasso. Severo, serioso e privo di qualsiasi caratteristica propria del buffo, è il Melitone pensato da Wellber e Maestrini. Scelta corretta, poiché, in definitiva, il frate altro non è che un moralizzatore. Bello e d'effetto quasi areniano il conclusivo “Rataplan” di Preziosilla, con bandiere al vento e coro spavaldo. Quarto atto con l'unica scena che denotasse una certa dinamicità del coro nell'aria, definita nel libretto come “buffa”, “Che? siete all'osteria?”. Per il resto finale classicamente tradizionale, con il duetto conclusivo fra Alvaro e Don Carlo, sfociato nella tragica morte del secondo Calatrava ucciso dalla mano, ora armata di lama, di Alvaro, che gli giurò eterna amicizia e che da lui fu salvato in battaglia. Don Carlo non può mantenere la promessa di uccidere l'assassino del padre, ma quella di condurre alla morte la sorella, sì. Una carneficina che vede Alvaro unico sopravvissuto fra le rocce del monastero dove aveva preso i voti.

Belle le scene di Juan Guillermo Nova, i costumi di Luca Dall'Alpi e la coreografia del direttore del corpo di ballo areniano, Renato Zanella.

Donna Leonora era una Hui He, che, finalmente, debutta un ruolo verdiano che ben si adatta alle sue caratteristiche. La curiosa struttura dell'opera costringe i protagonisti a lunghe assenze dal palcoscenico, infatti la giovane spagnola tornerà in scena, dopo il ritiro del secondo atto, solo per la conclusiva “Pace, pace, mio Dio!” e la morte. Hui He canta molto bene tutta la parte, con particolare attenzione a unire musica e parole, anche quando queste non appaiano andar troppo d'accordo, vista la differenza qualitativa fra partitura e libretto. Particolarmente efficace nell'aria “Sono giunta!... grazie, o Dio!” ha il suo unto più alto nel finale, Il soprano cinese è attrice disinvolta e partecipe.

Migliore del cast, l'ottimo Don Carlo di Vargas di Dalibor Jenis si distingue da subito nella bella ballata “Son Pereda, son ricco d'onore”, chiusa con una salita all'acuto sicura e spavalda. Jenis mantiene eccellente il livello della sua prestazione per tutta la durata dell'opera, palesando una notevole proprietà di fraseggio e spiccate doti interpretative e attoriali. Molto bene anche l'Alvaro di Walter Fraccaro, che giunge in soccorso della fondazione dopo la defezione di due tenori per malattia. Il cantante veneto offre un'interpretazione in crescendo con begli accenti, squillo sicuro e grande attenzione al cantabile, che risulta la sua arma migliore nell'occasione. Chiara Amarù è l'interprete più raffinata della compagnia. Non è sicuramente dotata di un volume pari a quello dei colleghi, ma le agilità e la linea di canto della sua Preziosilla sono ottime, conferendo dignità a un personaggio drammaturgicamente disutile. Ottimo anche il Melitone di un sorprendente Gezim Myshketa, con il baritono albanese impegnato a portare in scena un frate serio e severo, in ossequio alla scrittura musicale, ma senza mai tradire le caratteristiche di una figura che resta, comunque, caratteristica.

Di buon livello anche il resto della compagnia, con il Marchese di Calatrava di Carlo Cigni e il bravissimo, imponente e stentoreo Padre Guardiano di Simon Lim.

Fra i comprimari ci piace rammentare l'ottimo Francesco Pittari, come Trabuco. Il tenore salernitano si prodiga in una bella interpretazione e bella lettura della parola, offrendo un mulattiere, poi rivendugliolo, che si ricorda con piacere al termine dell'opera.

Completavano il cast Milena Josipovic (Curra) e Gianluca Lentini (Un Alcade/Un chirurgo).

Coro areniano, diretto da Vito Lombardi, in stato di grazia, che, con tutti i suoi elementi, mette a frutto tutta la spavalderia e l'impeto acquisiti in anni di stagioni estive. Bellissimi alcuni accenti e alcune sfumature. È vibrante, quanto emozionante, la pronuncia di parole, come “maledizione” alla fine del secondo atto, momento, durante la quale viene esibita la bella gamma cromatica delle voci dei coristi. Primi ballerini erano i sempre ottimi Alessia Gelmetti, Teresa Strisciulli, Amaya Ugartheche, Evghenj Kurtsev e Antonio Russo.

Straordinaria, come mai ci potrà abituare, la concertazione di Omer Meir Wellber [leggi l'intervista prima della prima]. Mai negli ultimi anni l'orchestra aveva saputo raggiungere un livello di tale precisione. Molte parti, solitamente meno efficaci della partitura, sono eseguite con bella tensione emotiva, i “fieri accenti” sono costanti, in un continuo gioco di dinamiche e sfumature mai lascive e sempre passionali. I famigerati temi ricorrenti di La forza del destino sono eseguiti con tale partecipazione e ricchezza di significati da risultare costantemente sorprendenti. Splendida la sinfonia, come i momenti d'assieme. Ascoltando la concertazione sembra di avere a che fare con un grande organo complesso, in cui le voci divengono tutt'uno con la buca.

Grande attenzione alle voci e alla linea di canto di ognuno, in modo da far emergere le migliori caratteristiche di ognuno degli artisti. Anche le sezioni sono equilibrate al meglio.

L'allestimento è quello della Slovene National Opera and Ballet.

Come nota conclusiva, i nostri complimenti non possono non andare al M° Paolo Gavazzeni, che in questo momento di gravissime difficoltà è riuscito a costruire uno spettacolo di un livello difficilmente riscontrabile in molti teatri del nostro Paese.

foto Ennevi